Intervista a Eddie Henderson

Il dottor Eddie Henderson, trombettista e medico, ha non solo una grande carriera alle spalle ma un’ancora fervida attività: un autentico miracolo della natura che potremo vedere a marzo a Bergamo Jazz assieme ai Cookers, una tra le più entusiasmanti band in circolazione

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«Sounds of Joy» è il sottotitolo della quarantaseiesima edizione del Bergamo Jazz Festival quest’anno, con la direzione artistica di Joe Lovano. Il consueto appuntamento annuale, che anima la vita bergamasca all’inizio della primavera, si terrà dal 20 al 23 marzo prossimi. E con un programma di tutto rispetto. Il festival inizierà alle 17 di giovedì 20 marzo al Teatro Sant’Andrea con il piano solo del cubano Aruán Ortíz e continuerà in serata al Teatro Sociale (Città Alta) con il trio di Antonio Faraò, Ameen Saleem e Jeff Ballard cui seguirà la songwriter Lizz Wright, a metà tra Joni Mitchell e Tracy Chapman. Il giorno dopo (venerdì 21 marzo) ,al Donizetti suoneranno Dave Holland in duo con il chitarrista Lionel Loueke e un quartetto all-stars (Ravi Coltrane al sax tenore, Danilo Pérez al pianoforte, John Patitucci al contrabbasso e Brian Blade alla batteria) con un progetto dedicato all’indimenticabile Wayne Shorter, dal titolo «Legacy of Wayne Shorter». Sabato 22, sempre al Donizetti, si esibiranno Enrico Rava e il suo quintetto Fearless Five e i Cookers (il fiore all’occhiello del programma di quest’anno, secondo chi scrive). Si chiude domenica 23 con il quartetto di Marc Ribot e il quintetto di Dianne Reeves. E sono soltanto i nomi più roboanti. Il festival, come sanno i suoi frequentatori abituali, è arricchito dalla presenza di tanti altri musicisti tra cui segnaliamo il Trio Maniscalco con Pietro Tonolo al sax tenore, il duo di pianisti formato dalla greca Tania Giannouli e dallo svizzero Nik Bärtsch, e il trio formato dal chitarrista tedesco Markus Reuter, da Tony Levin (ex King Crimson) al basso elettrico e da Pat Mastelotto (anche lui ex King Crimson) alla batteria. Insomma ce n’è per tutti i gusti e, credo, ci sarà da divertirsi. Ma – ed è inutile, per quel che mi riguarda, sottolinearlo – l’attesa quest’anno è tutta rivolta al concerto dei Cookers, una superband formata da Eddie Henderson e David Weiss alla tromba, Donald Harrison al sax alto, Azar Lawrence al sax tenore, il mitico e raffinatissimo George Cables al pianoforte, Cecil McBee (da noi intervistato recentemente in occasione della pubblicazione di «The Carnegie Hall Concert» di Alice Coltrane) al contrabbasso e Billy Hart alla batteria. I Cookers sono gli alfieri di una musica che ha le sue radici nella grande tradizione dell’idioma afro-americano, il cosiddetto modern mainstream, un genere oggi molto frequentato da tutti quelli che amano restare ancorati a un’idea in cui la musica guarda sì al futuro ma con precisi riferimenti a tutto ciò che si è accumulato e sedimentato in più di un secolo di storia. Hanno inciso finora sei dischi tra i quali i più riusciti, a nostro avviso, sono «Warriors» (il loro esordio nel 2010) con Craig Handy all’alto e al flauto (poi sostituito nel 2014 da Donald Harrison), «Cast the First Stone» (2011) con Azar Lawrence come ospite in alcuni brani al sax tenore, «Time and Time Again» (2014) e «The Call of the Wild and Peaceful Heart» (2016). I nomi dei componenti del gruppo sono più che conosciuti da tutti quelli che frequentano il jazz da tempo e ognuno di loro ha una lunga storia da raccontare. Così abbiamo pensato di fare una chiacchierata con Eddie Henderson (la band non ha un leader) per il suo status di trombettista versatile e innovativo che ha saputo unire una tecnica straordinaria e una sensibilità artistica in perfetto equilibrio. Henderson si distingue per il suo suono lirico e sofisticato capace di spaziare tra stili differenti. Val la pena ripercorrere, per chi non li conoscesse già, le tappe salienti della sua biografia. Nato a New York il 26 ottobre del 1940, Henderson è figlio di un medico e di una ballerina che si esibiva al Cotton Club dove con sua sorella gemella formava un duo: The Brown Twins. Questo ha segnato la sua vita perché, alla stregua di un novello Dr. Jekyll e Mr. Hyde, il trombettista ha seguito un duplice percorso: nel campo musicale (ispirandosi inizialmente a Louis Armstrong e Freddie Webster e frequentando la prestigiosa Juilliard School, che in seguito lo ha annoverato nel suo parterre di insegnanti) e in quello della medicina, conseguendo una specializzazione in Psichiatria e lavorando come medico di base per un buon decennio (dal 1975 al 1985 circa). Anche se la sua vera passione è sempre stata la musica, il jazz in particolare. Incoraggiato sin dalla tenera età da Miles Davis (amico di famiglia) a cercare di sviluppare uno stile personale l’Henderson trombettista iniziò a suonare professionalmente all’inizio degli anni Settanta entrando a far parte del progetto Mwandishi di Herbie Hancock e partecipando all’incisione di dischi basilari come «Mwandishi», «Crossings» e «Sextant». Era il periodo del jazz elettrico e della fusion, e sotto l’influenza di quella musica Henderson incise, da solista, «Realization» nel 1973 e «Inside Out» l’anno successivo. Dopo quel periodo il trombettista ritornò a esplorare i suoni del jazz acustico ispirandosi all’hard bop e collaborando con artisti come Art Blakey, Dexter Gordon e Joe Henderson tra gli altri. Oggi, grazie anche a questo pedigree, è considerato uno dei musicisti più influenti della Big Apple. Da un po’ di tempo incide per la Smoke («Be Cool», nel 2018, «Shuffle and Deal» nel 2020 e l’ottimo «Witness to History» nel 2022). Ha compiuto da poco 84 anni e la sua è una testimonianza preziosa.

Salve, dottor Henderson. Mi parlerebbe del suo legame con la tradizione?

Il mio primo insegnante, incredibile a dirsi, è stato Louis Armstrong. Mia madre lavorava nello show business e conosceva tutti i grossi nomi della sua epoca: quando avevo nove anni mi portò ad ascoltare Louis dal vivo. Ho un ricordo preciso di quel concerto ma ovviamente non mi capii bene chi avessi di fronte. Iniziai a suonare la tromba e dopo un anno da quel concerto mia madre mi presentò Armstrong chiedendogli di sentirmi suonare. Lui rimase colpito e mi regalò un libro di trascrizioni di assolo. Avevo solo dieci anni e non mi rendevo conto del gigante che era davanti a me. Durante gli anni del liceo, ricordo un giorno di essere tornato da scuola dopo gli allenamenti di basket e il mio patrigno – un medico che aveva tra i suoi pazienti John Coltrane, Miles Davis, Billie Holiday, persino Duke Ellington – mi presentò Miles, una presenza costante a casa nostra, e che finì per portarmi con sé ad assistere alle sue serate. Nella sua band suonavano all’epoca Coltrane e Adderley. Iniziai il mio percorso nella musica con loro, e credo sia stato un buon inizio. Tu che dici? È questo il mio legame con la tradizione. Ho un ricordo nitido della prima volta in cui Miles mi portò a un suo concerto in cui, oltre a Trane e Cannonball, c’erano Philly Joe Jones, Paul Chambers e Wynton Kelly. Li sentii suonare e dissi a me stesso «questo è quello che voglio fare per il resto della mia vita». Avevo 19 anni, edoveva essere il 1958, non ricordo bene. Poi conobbi Herbie Hancock che mi prese a suonare con lui per tre anni, dal 1970 al 1973, nel sestetto chiamato Mwandishi. È stato il mio primo lavoro importante. Da quel momento la mia vita è cambiata.

So che verrà in Italia a suonare. A marzo in occasione del Bergamo Jazz Festival con i Cookers. Ma non è certo la prima volta che suona in Italia.

Assolutamente no. Conosco il tuo Paese molto bene e vi ho suonato molte volte…

Anche con molti musicisti delle nostre parti, se non sbaglio.

Si, ero in contatto con il caro Marco Tamburini, conosco Piero Odorici, Massimo Manzi, Paolo Pellegatti e molti altri. Anche se è passato un po’ di tempo dall’ultima volta in cui sono stato in Italia. Prima ci venivo almeno due volte all’anno, nel periodo compreso tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del nuovo secolo. Ho un ottimo ricordo di Marco Tamburini, che purtroppo non c’è più: era un mio buon amico.

Secondo lei esiste una connessione tra l’arte e il marketing?

Dovrebbero andare a braccetto. Gli artisti, in quanto tali, dovrebbero percepire un compenso, ma questo non sempre succede. Anzi direi che spesso accade il contrario anche perché gli artisti, quelli che sono immersi nella propria arte, non conoscono quasi mai i rudimenti del marketing. Io, per esempio, li sto iniziando a conoscere solo ora. E comunque sono convinto che la musica è una cosa, il music business un’altra. C’è gente nel business che decide chi deve lavorare e con chi. Quando io ho iniziato a suonare comandava chi suonava meglio, oggi devi avere il look giusto, non devi essere molto vecchio, se lo sei devi sembrare giovane, un giovane leone. Se sei troppo vecchio non sei più sul mercato e questa gente non lavora più per te: non becchi un contratto discografico che sia uno se non hai l’età giusta e il look giusto. È così. Per me la musica è la musica, non è cambiato niente rispetto a prima. È la sua qualità che conta, con o senza il marketing.

Mi parla delle sue principali influenze musicali? Come trombettista e come compositore…

Il mio primo grande eroe è stato Miles Davis. Ho sentito con molta attenzione tutti i suoi dischi e ho sempre cercato di imitare il suo stile. Volevo suonare come lui. Poi, all’inizio degli anni Sessanta, ho scoperto Lee Morgan, Freddie Hubbard, Woody Shaw e Booker Little che divennero immediatamente i miei trombettisti preferiti. Se devo parlare delle influenze che hanno contribuito alla mia evoluzione strumentale e musicale devo fare i loro nomi. Ho sempre cercato di suonare come tutti quanti loro. Come compositore devo dire che mi piaceva il modo di scrivere – mi ripeto – di Miles, che concepiva i suoi non moltissimi brani come vignette poi riempite dai contributi dei diversi musicisti con i quali ha interagito durante il suo lungo e variegato percorso musicale. I suoi pezzi erano ritratti collettivi, mai auto-celebrativi, ed è qualcosa che personalmentemi sento di aver ereditato da lui. Anche a me piace lasciare spazio ai musicisti con cui mi trovo a suonare, facendo sì che ognuno dia il proprio personale contributo a questo o quel mio brano. Vedo la composizione come un atto creativo collettivo.

Lei è un uomo di 84 anni, una memoria storica del jazz. Come vede il futuro di questa musica? Lei che l’ha vissuta nei suoi anni più sfolgoranti… 

Io insegno in Conservatorio e ritengo di avere sotto controllo il polso della situazione. Per me il jazz è in buona salute, continuo a conoscere tanti giovani di talento che stanno venendo fuori e si stanno mettendo in vista. Con gli studenti il mio ruolo è quello del coach. Per me è molto importante comunicare un concetto, quello di studiare l’origine della musica che si vuole suonare. Un trombettista, per esempio, se vuole suonare jazz deve studiare necessariamente Louis Armstrong, Miles Davis, Dizzy Gillespie, un sassofonista deve conoscere Charlie Parker. I giovani devono necessariamente rifarsi a loro, devono imparare a suonare come loro. La tradizione è molto importante come punto di partenza, ma cercando sempre di essere consapevoli che il mondo, e quindi la musica, è in costante evoluzione. Il jazz non fa eccezione ed è ancora in buona salute. Non c’è dubbio.

Molti musicisti importanti sono morti recentemente. Penso a Quincy Jones, Lou Donaldson, Roy Haynes. Con la loro dipartita si ha la sensazione che questa musica se ne stia andando assieme a loro…

Non sono per niente d’accordo. Se è per questo, prima di loro sono scomparsi Louis Armstrong, Billie Holiday, Sarah Vaughan, John Coltrane, Charlie Parker. E questo che significa? La musica va avanti. Ogni generazione ha i suoi eroi, e per ogni eroe che scompare c’è qualcun altro pronto a riempire il vuoto. La morte fa parte della vita, è qualcosa di ineluttabile, non si può pensare che fermi il flusso naturale del mondo e delle cose che vi fanno parte.

Ma quali sono i nomi dei giganti di oggi?

In realtà non vedo nessuno che possa confrontarsi con la grandezza dei nomi che abbiamo fatto prima, con la grandezza di Miles Davis, di Cannonball Adderley, di McCoy Tyner, di Joe Henderson, di Dexter Gordon. Ed è vero: quelli delle nuove generazioni non sono riusciti a raggiungere quel livello di creatività. Però sono convinto di ciò che dico. Il mondo cambia e si evolve, spesso in peggio, qualche volta in meglio. A noi non resta che osservare e intercettare questi cambiamenti. E poi chi può dire qual è la reveraale percezione che i giovani di oggi hanno di ciò che accade? Solo il futuro potrà dirlo e, probabilmente, noi non ci saremo!

Se esiste, qual è il limite, il confine tra la vita di un uomo e la sua arte?

Questa è una domanda alla quale è difficile rispondere. L’arte è immortale, la vita no.

Se lei fosse un musicista del passato chi avrebbe voluto essere?

John Coltrane, perché mi ha aperto uno sconfinato mondo di spiritualità.

Per lei la composizione e l’improvvisazione sono la stessa cosa?

Be’, in questo momento parlo con te e sto improvvisando. Ma se scrivo quel che sto dicendo, il mio scritto viene fermato sulla carta. Ogni volta che faccio un assolo, automaticamente compongo. Si, sono la stessa cosa.

Il suo legame con la spiritualità.

Credo esista un essere superiore che ha creato il mondo. Qualcuno lo chiama Dio, i musulmani lo chiamano Allah, qualche altro lo chiama Budda, alla fine è sempre lui, qualcuno che ha creato l’universo. È una buona domanda. Spero di diventare un tutt’uno con il mio creatore perché lui è la forza interiore che muove non solo la mia vita ma tutto l’universo. Più comprendo questo, più posso esprimerlo, molto più di questa cosa finita che è il mio corpo. Chi aveva capito bene tutto questo era Coltrane. La sua musica e le sue composizioni mi hanno introdotto alla spiritualità. La musica è spirituale, come la vita.

Le sue speranze e le sue delusioni…

Posso dire di essere stato un uomo molto fortunato. Sin da giovane ho avuto la possibilità di suonare con tutti quelli che hanno fatto grande la musica che suono, gente con cui molti avrebbero solo sognato di aver a che fare. Con Herbie Hancock per esempio, la porta d’accesso a un mondo che mi ha permesso di entrare in contatto con chicchessia. Per cui non ho delusioni. Davvero. Invece ho delle speranze, quelle sì. Soprattutto il restare in buona salute ancora a lungo!

Qual è il significato della parola «successo» per un jazzista?

Lasciando da parte l’aspetto economico, è soprattutto l’idea di avere dato il massimo per lasciare una traccia di sé.

Cosa pensa dell’acronimo BAM (Black American Music)? Qualcuno pensa che oggi sia meglio servirsi di questo termine per definire la musica afro-americana…

Nulla di particolare. In realtà queste sono solo etichette, si può utilizzare il termine «musica nera» e «musica classica afro-americana». Non mi interessano le etichette. Che ognuno la chiami come vuole, l’importante è che la sappia suonare…

Eddie Henderson

Le faccio tre nomi: Booker Little, Louis Armstrong, Woody Shaw. Chi dei tre ha avuto maggiore influenza su di lei?

Booker Little, tutto sommato.

Perché?

Per il suo suono. Meraviglioso. Per il suo controllo dello strumento e per le sue idee, molto avanti per il poco tempo che ha vissuto. Mi dispiace non aver avuto la possibilità di conoscerlo. Ovviamente adoro anche gli altri due artisti che hai citato e che, invece, ho avuto il privilegio di conoscere bene.

Cambiamo disciplina: Sigmund Freud, Melania Klein, Carl Jung. Chi dei tre ha avuto maggiore influenza su di lei nella sua attività di psichiatra?

(… sorride) Ognuno di loro ha avuto un ruolo molto importante nel mondo della psicologia e della psichiatria, e non spetta a me dire chi è superiore agli altri… E poi dipende dal tipo di paziente che si ha davanti e dal tipo di terapia che si ritiene opportuno utilizzare.

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