Tra i commenti su YouTube al video ufficiale di Pretty World, che fu uno dei maggiori hit di Sérgio Mendes, ce n’è uno che comincia così: «Ho visto Sérgio Mendes & Brasil ’66 mentre ero in congedo militare, nell’ottobre 1967, prima di partire per il mio primo periodo di Viet Nam. La mia fidanzata si era procurata i biglietti in prima fila. Il più bel concerto che abbia mai visto». L’autore del commento ricorda poi la chiacchierata di un quarto d’ora che fece con la cantante Lani Hall sorseggiando una bibita; e quando lei se ne andò lui prese la cannuccia che la lead singer del gruppo di Mendes aveva lasciato e se la mise in tasca come portafortuna. Al suo racconto segue su YouTube un’ottantina di commenti, molti di ringraziamento per il suo aver servito l’America in guerra.
Ora, tralasciando i risvolti patriottici, colpisce che anche brani di Mendes possano essere stati importanti per dei giovani americani in un momento storico come quello, cui siamo invece soliti affiancare ben altre canzoni: Doors, Bob Dylan, Buffalo Springfield, Marvin Gaye… Piaccia o non piaccia, Mendes – scomparso a 83 anni lo scorso 5 settembre – ha incarnato per tutta la sua carriera una specie di mondo utopico fatto di gentilezza e amore, un mondo accogliente, consolatorio, appunto un pretty world con al più un velo di malinconia. La sua musica era nata da una costola di António Carlos Jobim, João Gilberto e di tutti gli altri che, una generazione prima di lui, diedero vita alla grande stagione della bossa nova; ma lui aveva aggiunto uno spirito scacciapensieri che riscuoteva consensi soprattutto presso il pubblico WASP.
La seconda metà degli anni Sessanta rappresentò il periodo di massima popolarità grazie alla formula Sérgio Mendes & Brasil ‘66, che il pianista e leader aveva messo a punto insieme al produttore e paroliere Richard Adler. Fu un’operazione studiata a tavolino con una certa scaltrezza, funzionò alla perfezione e costituisce tuttora uno dei migliori esempi di commistione fra il pop americano e la «nuova cosa» brasiliana (a sua volta influenzata dal jazz). Quella formula era molto semplice. Mendes aggiunse al suo trio due cantanti americane, che come tali lo avrebbero facilitato a sbarcare sul mercato degli States. Ed ebbe la fortuna di fare un provino alla diciannovenne Lani Hall, che fu assieme a lui il cardine del gruppo (nel quale militò per un paio d’anni anche il batterista-percussionista Dom Um Romão, futuro membro del Weather Report). Le due vocalists cantavano all’unisono, ma le rare parti solistiche erano quasi sempre affidate a Lani: scarsa presenza scenica rispetto alle colleghe – prima Bibi Vogel, poi Janis Hansen e infine la sexy Karen Philipp – ma carisma vocale, intensità e controllo tecnico degni di una Streisand.
La formula Brasil ‘66 operò anche sulle canzoni. Mendes non è stato un compositore bensì un fantasioso rielaboratore di pezzi altrui: Bacharach, i Beatles, Simon e Garfunkel, Henry Mancini, Cole Porter eccetera. Ai quali bisogna aggiungere le canzoni brasiliane, cui certe volte venivano aggiunte delle parti cantate in inglese, sempre per renderle accessibili sul mercato. Eppure Mas que nada, scritta da Jorge Ben, diventò nella versione di Mendes un successo planetario, tuttora intramontabile, pur essendo interamente in portoghese brasiliano.
Oltre che sul palcoscenico, i Brasil ‘66 si esibirono come quintetto/sestetto anche nei primi due dischi, che uscirono per la A&M, l’etichetta del trombettista Herb Alpert (futuro marito di Lani Hall) e Jerry Moss. In quelli immediatamente successivi Alpert e Moss orientarono la produzione verso una ricetta da loro applicata anche ad alcuni jazzisti come Wes Montgomery e Paul Desmond: l’aggiunta di un’orchestra d’archi per dare alla musica una impronta simil-hollywoodiana. L’arrangiatore Dave Grusin, poi molto noto anche come autore di colonne sonore, fece per Mendes un lavoro sontuoso, e ne uscirono dischi di notevole livello quali «Look Around», «Crystal Illusions» e quel «Fool on the Hill» che resta uno dei grandi risultati nella storia del pop.
A questo punto, su Sérgio Mendes viene da porsi una domanda: ci siamo persi un eccellente jazzista oppure i risultati nel pop furono tali da giustificare il cambio di campo? Già, perché Sérgio Mendes ha cominciato la sua carriera, svoltasi praticamente per intero negli USA, come pianista jazz. Nell’album d’esordio «Dance Moderno», registrato in quintetto a Rio quando aveva 19 anni, Mendes si rivela un solista già smaliziato, capace di mantenere viva l’attenzione dell’ascoltatore attraverso un dinamismo che intreccia due modelli principali: Horace Silver e George Shearing. Del primo ha il gioco asciutto, martellante, di pura percussione, svolto in prevalenza nella zona media della tastiera. Di Shearing (che del resto si era cimentato anche in ambiti latini) raccoglie con frequenza l’energia dei block chords. Entrambi i modelli gli servono per esaltare la passione ritmica del samba, con una eleganza che lascia intravedere un barlume del suo futuro (Tristeza de nos dois e un What Is This Thing Called Love dove la mano destra si avvicina un poco a Bud Powell). Evidentemente il disco viene notato, se nemmeno due anni dopo Mendes è scelto con altri suoi connazionali per accompagnare nientemeno che Cannonball Adderley nella sua prima sortita brasiliana intitolata «Cannonball’s Bossa Nova», un album molto piacevole seppur minore nella discografia dell’altista.
In quel periodo Sérgio Mendes viene ritenuto interessante perché manca un pianista sì legato all’attualità musicale del Brasile ma che conosca bene il jazz e i gusti del pubblico americano. Da questo momento, fino alla svolta dei Brasil ‘66, le case discografiche cominciano – per così dire – a prendergli le misure. La Philips americana, nella sua impeccabile qualità stereo, mostra le competenze bossanoviane di Mendes e dà vita a un’operazione che oggi definiremmo lounge. Nello stesso 1963 in cui viene registrato il fondamentale «Getz/Gilberto», esce infatti «Quiet Nights», dove il pianista si lascia alle spalle il samba per abbracciare l’understatement oltre che i brani più famosi del neonato genere musicale. Se l’intenzione della Philips era di concepire il disco come «arredo», da tenere in sottofondo con luci soffuse, cocktail e cose del genere, Mendes e il suo gruppo vanno oltre ottenendo, alla fine, un ottimo risultato per professionalità e intelligenza. Si segnala l’adozione di un tipo di organico «alla Shearing», cioè con vibrafono (Dave Pike), chitarra e ritmi (tra i quali Sebastião Neto, che per molti anni resterà il fedele bassista di Mendes).
Tuttavia, chi continua a credere nel Mendes jazzista è una piccola, ambiziosa etichetta brasiliana – la Elenco di Aloysio de Oliveira – che nel 1964 apparecchia per il pianista la migliore argenteria. Il disco si chiama «Bossa Nova York» (pubblicato negli USA dall’Atlantic come «The Swinger From Rio») e affianca al trio del pianista Phil Woods al sax alto, Art Farmer al flicorno e Hubert Laws al flauto (che non suonano mai insieme), oltre ad António Carlos Jobim alla chitarra come presenza fissa. A circa quattro anni dall’esordio, Sérgio Mendes si rivela un pianista dotato di temperamento e sicuro di sé a tal punto da non disdegnare qualche sortita avventurosa (Consolação). Inoltre, l’assortimento del cast gli permette di muoversi in situazioni differenti: la morbidezza con Farmer, lo swing con Woods e la leggerezza con Laws (che diventerà il più attivo emissario del jazz in terra brasiliana). Jobim, che ha preso sotto la sua ala di fratello maggiore il promettente collega, è un po’ l’eminenza grigia dell’album. Sei brani sono suoi, ben tre erano apparsi in «Getz/Gilberto». È ancora lui che in quello stesso anno presenta con tutti gli onori «Você ainda não ouviu nada!» (uscito anche come «The Beat of Brazil»), affermando che il disco può «aprire nuovi sentieri nel nostro scenario musicale». Prodotto dalla Philips brasiliana e registrato a Rio, vede Mendes alla testa di un organico particolare grazie alla strepitosa front line formata da Raul de Souza (trombone a pistoni), Edson Maciel (trombone a coulisse) e l’italo-argentino Hector «Costita» Bisignani (sax tenore, in due brani sostituito da Aurino Ferreira). Si tratta di un disco eccezionale, purtroppo alquanto dimenticato, che presenta del puro jazz ma con i piedi piantati nella musica brasiliana. I brillanti assolo dei fiati e di Mendes paiono galvanizzati dagli arrangiamenti dello stesso pianista e di Jobim (e di Moacir Santos in due brani), in virtù dei quali la sostanza armonica e il colore degli impasti danno al risultato complessivo un’ammirevole unicità. E il Mendes pianista si lascia persino andare a qualche azzardo, come nell’aggressivo assolo di Coisa no. 2.
L’Atlantic ha parecchie conferme del talento di Mendes e lo mette sotto contratto, battendo sul tempo la A&M. Tuttavia, stavolta non funziona quel magic touch che ha fatto di Nesuhi Ertegun un fuoriclasse della produzione discografica. Mendes registra un disco, «The Great Arrival» (1966), che sul mercato non dà i risultati sperati, così come non li darà, due anni dopo, «Sérgio Mendes’ Favorite Things». Sono proprio le produzioni a rivelarsi deboli, nonostante l’ingaggio di autorevoli arrangiatori (come Clare Fischer e Dave Grusin) e l’abbondanza di fiati e archi. Sulla copertina del primo viene evidenziato a grandi lettere che il disco è stato «registrato a Hollywood, California», la qual cosa suona rivelatoria: il Brasile voluto da Ertegun è quello cartolinesco dei film. Nonostante ciò, il protagonista – cioè il pianoforte di Mendes – riesce a rimanere credibile anche in questo contesto di falso esotismo. Intanto, Alpert e Moss sono riusciti ad ottenere dall’Atlantic il permesso di realizzare dischi con il brasiliano e il suo nuovo gruppo; la casa di Ertegun chiede solo che non venga usato il nome di Sérgio Mendes ma il «marchio» Sérgio Mendes & Brasil ‘66. Come a dire: sono cose diverse dalle nostre. Va detto che già nel 1965, per un disco Capitol della cantante Wanda de Sah featuring The Sérgio Mendes Trio, la copertina sottolineava «Registrato a Hollywood», aggiungendo addirittura un iperbolico «Il più grande arrivo dal Sudamerica dopo il caffè!»… Il disco si chiama «Brasil ‘65», ed è uno squisito esempio di bossa nova, Mendes si ritaglia alcuni spazi di improvvisazione e il tutto si svolge sulla falsariga di «Getz/Gilberto», inclusa la presenza di un sassofonista americano. Si tratta di Bud Shank, autentico prezzemolo del genere, tanto che già nel 1953 era stato pioniere dell’incontro tra jazz e Brasile accanto al chitarrista Laurindo Almeida.
La carriera di Sérgio Mendes che seguì al successo dei Brasil ‘66 – e, in misura minore, dei successivi Brasil ‘77, ‘86 e ‘88 – si è svolta prevalentemente nei termini del garbo e della professionalità, del buon gusto e dell’invenzione, con due sole eccezioni discografiche: «Love Music» del 1973, che sa di telefilm ambientato in una sognante California, e soprattutto l’imbarazzante «Magic Lady» del 1979, a tutti gli effetti un album di disco music (uscito, non a caso, poco tempo dopo La febbre del sabato sera…). Piccoli flop d’ispirazione che non hanno scalfito la personalità del leader. Il quale nel corso degli anni è tornato con maggior frequenza alle tradizioni brasiliane, prendendo un poco le distanze dalle esigenze di mercato: come dimostra il magnifico «Brasileiro» (1992), rutilante, profonda dichiarazione d’amore di Mendes alle sue radici culturali, a cominciare dal samba. Sulle pagine di questa rivista, però, è impossibile non manifestare un rammarico: peccato che Sérgio Mendes non abbia più messo la sua intelligenza al servizio del jazz. Avrebbe fatto grandi cose.