Samara Joy: Portrait

Torniamo a parlare con la cantante, ormai un’autentica stella del firmamento jazzistico, in occasione dell’uscita del suo nuovo album

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Nella faretra di chi intervista non ci sono frecce né balestre; mucchi di scartoffie, piuttosto, comunicati stampa, cd, suggestioni promozionali, qualche idea: esauste lampare per orientarsi nell’ignoto di un incontro breve, nella speranza di consolidare una relazione di significati. Ecco anche perché, assai spesso, è più saggio, quella faretra, lasciarla a casa ed affidarsi al flusso dell’umanità. Premessa non necessitata per tornare a parlare su queste pagine di Samara Joy che, consapevole e indifferente insieme ai tre Grammy vinti a ventiquattro anni, rivela un’identità complessa dietro un sorriso ospitale e una capacità di dialogare serrata, inesorabile nel temperare con eguale grazia e intelligenza l’insostenibile leggerezza della gioventù colta nella propria linea d’ombra; da poco oltrepassata ma già invischiata in quel lungo corso ricco di affluenti e foci che è la storia del jazz. 

«Certo, la strada era lunga. Sono lunghe tutte le strade che conducono dove comanda il cuore. Ma questa strada riuscivo a vederla con gli occhi della mente sulla carta, professionalmente, con tutte le sue complicazioni e difficoltà, e tuttavia in certo qual senso abbastanza semplice». Joseph Conrad lo dice in modo molto più efficace in tre righe: il succo di Samara Joy, nata per quel mare, è tutto qui. 

La fortunata coincidenza di poterla incontrare nasce dal neonato «Portrait», il nuovo album per la Verve nel quale, in otto brani, Samara rimodula e ridefinisce i confini provvisori di una rinnovata vocalità, smarcandosi dal passato e lasciando intuire le possibilità future di un talento che non ne vuole sapere di fermarsi a godere altari ed allori. È lei stessa a dirlo rotondamente in una bella conversazione del 20 settembre sul New York Times con Natasha Rothwell, scrittrice e attrice balzata di par suo al successo per la serie televisiva «How to Die Alone», che ha sparigliato le carte sul cliché del racconto e che condivide con Samara Joy McLendon l’amore per l’irrequieta bellezza dell’improvvisazione jazz. È la Rothwell a dirle: «Suonerà iperbolico, ma l’improvvisazione mi ha salvato la vita. Devi affidarti al tuo istinto, abbandonare il bisogno di perfezione. Credo che sia per questo che amo così profondamente il jazz nel suo essere costituzionalmente non prescrittivo». E di par suo Samara a lei: «Non voglio restare nella parte di quella che ha vinto i Grammy. Non voglio passare i prossimi cinque anni a fare certe cose per assecondare il pubblico. Ho ventiquattro anni e sono certo nell’età verde della mia vita, ma già mi sento in una posizione diversa rispetto a quando ne avevo ventuno. È difficile per me proteggermi da tante persone che mi circondano e, pur comprensibilmente, progettano ciò che pensano sia giusto per me. Ma so che dentro di me qualcosa mi chiama a seguire una direzione, quella che è prossima alla mia identità, e so che devo seguire quella voce». 

E così, a due anni dal fortunato «Linger Awhile» e un anno in tour, s’è chiusa nel tempio degli studi Van Gelder e in poche sedute (tre takes per brano) con il settetto d’eccezione, suo complice nel giro per il mondo, a esplorare le estese possibilità vocali attraverso la sperimentazione di testi composti per brani non esattamente semplici come Reincarnation of a Lovebird che Mingus dedicò a Bird o con la scrittura di perle come Now and Then (in remembrance of…), i cui puntini vanno riempiti col nome del suo mentore per caso, come spiegherà, ovvero Barry Harris. «Portrait», alla fine dei più ascolti che richiede, inverte il senso della massima del Tancredi di Tomasi di Lampedusa quando diceva: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi»: nel caso di Samara Joy a rimanere stabile è l’identità profonda della musica che chiamiamo jazz, il cambiamento è dato dalla necessitata ispirazione a fare della propria voce un elemento supplementare per la sezione fiati, abbandonando il fuoco d’artificio tecnico per metterlo, con maggior agio, al servizio della musica. 

In che modo descriveresti le novità di questo «Portrait»? 

Oddio, in ogni senso! Ho esteso la mia curiosità verso la scrittura dei testi e della composizione jazz. Il mio range vocale credo sia aumentato in modo significativo ed è il risultato di aver suonato con questa band in particolare, il fatto di trovarci insieme e ciascuno con il proprio stile, mettendo dentro la musica il massimo di ciò che sapessimo fare. Proprio il mescolamento da fonti differenti credo abbia creato un suono piuttosto unico. Ecco, questo è l’aspetto che mi piace sottolineare di più di «Portrait»: la collaborazione costruita sulla compatibilità e sulla sinergia. C’è una grande differenza tra avere una propria band e, sai come va, entrare in uno studio e per la prima volta incontrare gente anche molto brava con la quale di stabilire una connessione emotiva. Noi, quella connessione, ce la siamo costruita on the road. Ci siamo conosciuti profondamente nel tempo e spero che quel tipo di legame arrivi dall’ascolto. 

Samara Joy

Ti dirò che spesso, parlando con i musicisti, sembrano meno attenti all’aspetto dell’amicizia o del legame come motore per creare buona musica. Viene raccontato tutto più come una «colleganza», per così dire. 

Lo so, per carità. Ma la mia esperienza è diversa. Abbiamo girato un anno insieme, e allora è inevitabile che si consolidi una conoscenza sulle virtù e i limiti di ciascuno completamente diversa da un primo incontro. Quindi, probabilmente, l’amicizia non è necessariamente un requisito valido per ogni contesto, per ogni situazione, alcune volte basta avere un rispetto di base per l’altro. Ma nel mio caso l’amicizia ci ha consentito di sviluppare una fiducia di tipo diverso, la capacità di ascoltarci con un’attenzione maggiore di quella che sarebbe riferibile a un collega. 

Come è stato varcare insieme il tempio degli studi Van Gelder? 

Accidenti, è stato incredibile. Ma ciò che lo ha reso speciale per questo album e per questa band è che volevo registrare nello stesso studio insieme, in presa diretta, perché i dischi si fanno così, se li vuoi far funzionare. Il suono è migliore, tutto è più naturale. D’altronde, ogni volta che saliamo su un palco, non è che siamo separati da vetri o stanze diverse e volevo che quella magia tornasse nella registrazione in studio; sapevamo che dovevamo temperare la capacità di ascoltarci l’uno con l’altro, seguire le dinamiche reciproche senza il bisogno di cuffie con il volume da alzare o abbassare sulle diverse piste del brano. Il fatto che rende il Van Gelder Studio speciale è che è uno spazio creato appositamente per la musica, agevola l’ispirazione. Dovevamo pensarci poco, per non sopraffare il lavoro con l’emozione: l’idea di trovarci lì dove sono passati Miles Davis o John Coltrane. Siamo rimasti concentrati, godendoci uno spazio straordinario per fare musica: in quel momento era il nostro studio, con la nostra musica. 

Di recente, hai detto una cosa molto bella: voglio essere un’artista che resta per sempre una studentessa. Che significa più nello specifico? 

So che rischio il cliché, ma per me restare sempre una studentessa significa non smettere mai di crescere e di cercare. Inseguire la musica nello stesso modo in cui ha fatto per tutta una vita Barry Harris. Sai, l’ho conosciuto negli ultimi anni della sua esistenza e riusciva a trasmettere la passione per la musica di un ragazzino che non ha mai ceduto all’abitudine, ma si è abbandonato allo stupore. Quando l’ho visto per la prima volta avrà avuto circa novant’anni, eravamo a casa sua: lui suonava il piano tutto il santo giorno, sempre; ascoltava e pensava alla musica senza soluzione di continuità, e questo è probabilmente l’esempio maggiore che posso offrire quando dico che bisogna restare sempre degli studenti, anche quando si è dei maestri come lui. In questo nostro lavoro non c’è mai nulla che si possa dire «concluso», terminato. 

È emozionante anche solo vederlo nei video su Youtube, mentre chiacchiera con la sigaretta in mano a lato del pianoforte… 

È senza dubbio il mentore più importante della mia carriera, mi sento straordinariamente grata e fortunata ad aver potuto frequentare le sue classi, anche perché considera che non ne avevo mai sentito parlare, non lo conoscevo prima di andare al college. Avevo diciott’anni e lui qualcosa come 88 o 89, quando l’ho visto. Ha fatto quel lavoro per decenni e decenni e quando l’ho incontrato era già una leggenda, un grande maestro: chi ha la mia età, chi è della mia generazione non ha la fortuna di vedere tante leggende in giro, qualcuno che c’era mentre la storia veniva costruita. Con Barry Harris avevi davanti qualcuno che aveva conosciuto e suonato con Charlie Parker, Joe Henderson o John Coltrane. È stato come quando, un paio di settimane fa, mi sono trovata a casa di Charles McPherson, che adesso ha ottantacinque anni e ci raccontava di quando conobbe Bird e di che uomo squisito e amorevole fosse. Avere l’opportunità di parlare con qualcuno che c’era cambia completamente il tuo modo di guardare la musica, non c’è studio teorico possibile che tenga il confronto. E ancora oggi, nonostante le sfide dei tempi, si ostinano a inseguire il jazz, non è mica una cosa facile, sai. Sono passati attraverso tempi difficili per la nostra musica, negli anni Settanta non era poi così popolare come negli Ottanta e nei Novanta ancora meno, così via fino ad oggi. Barry Harris, da quando è nato nel 1929 fino al 2018 ha sempre creduto nel jazz, è un esempio bellissimo della vita d’artista e del vivere come un musicista. È questo a renderlo un mio punto di riferimento assoluto. 

L’importanza dello scambio intergenerazionale credo sia testimoniata in «Portrait» anche dalla tua versione di Reincarnation of a Lovebird, in fondo è come se ti mettessi in comunicazione con un filo rosso che parte da Parker, passa per Mingus e arriva ad oggi. Una sfida difficile. 

Lo è, molto difficile e sono contenta che tu ne abbia voluto parlare, perché c’è una storia bella dietro questo brano, almeno per quello che ho letto. Mingus volutamente non avrebbe utilizzato il linguaggio di Bird per questo brano, per non far l’effetto di una fotocopia né di voler imitare scimmiottando ciò che non poteva essere imitato. Gli ha dedicato quel pezzo scrivendo come sapeva fare e sentiva lui, quasi un linguaggio opposto per catturarne l’immagine e il risultato è senz’altro la musica più bella che sia mai passata per la mente di Mingus, così piena di sfumature e influenze raccolte per creare qualcosa di nuovo. In questo senso non è affatto uno standard, perché è costruito su una bellezza di tipo complesso. La considero una composizione dal punto di vista formale molto diversa dagli standard dei songbooks che puoi trovare: gli intervalli, l’armonia, la melodia stessa è pazzesca, ti fa chiedere: davanti a cosa mi trovo? Mi sono sfidata a cantarla al mio meglio, non solo, ma ho voluto scrivere le parole perché ho sentito che poteva nascere qualcosa di bello, per le risonanze emotive che evocava in me. Ho voluto provarci ed è stata questa canzone che mi ha fatto sentire di poter intraprendere un nuovo viaggio, ad espandere la mia capacità creativa, non limitandola allo scrivere – in modo più tradizionale – i testi per gli assolo, che è ciò che ho fatto nei precedenti due album. Ho scritto le parole per gli interventi solistici e ho provato a ricondurli alla melodia, per creare – almeno questo è quello che spero – un diverso invito all’ascolto per il pubblico, un nuovo repertorio. Così è avvenuto anche per un brano di Barry Harris, che è nell’album; si chiama Now and Then. Non aveva parole, le ho scritte perché sentivo avesse un senso raccontare alle persone che quella musica potesse avere un testo, diventare una nuova canzone, che in qualche modo potessero aggiungere al loro bagaglio di brani da cantare. Non è che necessariamente serve creare qualcosa di nuovo, ma spesso bisogna saper cogliere l’opportunità che venga mostrata in un modo diverso. Anche per questo nell’album ci sono giusto un paio di brani originali, uno mio e uno dei musicisti con me, il resto sono brani non nuovi, ma che lo diventano, che provano a portare le gente in un altro luogo. 

Samara Joy

Tra l’altro c’è anche un brano, Dreams Come True, di Sun Ra che si interpola con un tuo originale, Peace of Mind. Ancora una volta sembra che Mingus possa essere il filo rosso tra il bebop di Bird e le sperimentazioni di Sun Ra

Hai ragione! Il punto è sempre quello: puoi cantare qualunque cosa dalle origini fino a Sun Ra e questo come musicista mi intriga molto. Il brano è preso da uno dei suoi primi album, mi è sembrato un altro esempio di come essere vicina alle persone, potendole ispirare ad ascoltare musica che spesso non si ha la possibilità di conoscere. Quel brano me lo ha fatto ascoltare allo sfinimento, quando eravamo ragazzini e andavamo a scuola, il trombonista del gruppo, Donovan Austin. Ci ho continuato a pensare, ad ascoltarlo ed è nato quest’altro brano che mi è parso la perfetta descrizione dei miei ultimi due anni: si chiama Peace of Mind, ma potrebbe chiamarsi anche «Where Do You Find Your Peace of Mind?». È una sintesi di come sono stata travolta dagli eventi, dall’essere nessuno ad avere una certa fama, così, all’improvviso, con i riflettori puntati e dover adattarmi a questo nuovo stile di vita: il tour, i viaggi, essere lontana dalla famiglia ed essere leader. Finché ci spostavamo prima dei premi, ero solo un membro del gruppo, la voce sullo sfondo. Peace of Mind parla un po’ di queste sensazioni, è più una domanda, un dubbio, dove trovare la pace della mente? Nei posti dove vai? Nelle persone che incontri? E così via… Quando ogni tanto ti viene voglia di prendere e mollare tutto, ma non perdi la speranza se ricordi da dove vieni. Vedi, alla fine i miei sogni sono diventati realtà, ci sono stata scaraventata dentro proprio nel difficile momento di transizione nell’età adulta. Quello che mi tengo stretta è la sensazione di speranza ed è quella che mi auguro arrivi al pubblico. 

Sei originaria del Bronx: vivi ancora lì?

Ci vado spesso, ma ora mi sono trasferita a Harlem…

Devo dire di essere tornato a NYC dopo un po’ di tempo e l’ho trovata disperatamente bella, un fascino assoluto che inciampa nella tristezza; non saprei dire se è ancora l’epicentro del jazz, della musica, delle nuove espressioni creative

Purtroppo sono d’accordo con te. Di questi tempi è davvero difficile essere un artista in questa città, non ci sono molti club e ancora meno c’è l’opportunità di guadagnare qualche soldo con i concerti; è difficile trovare band con le quali viaggiare e andare in tour. Conosco un insegnante di primo livello, Jon Faddis, che ha avuto la fortuna di essere il pupillo di Dizzy Gillespie. Credo che già a diciannove anni fosse in tour con l’orchestra di Lionel Hampton. Oggi è semplicemente impensabile avere una vita come la sua: non c’è lavoro anche perché viaggiare è costoso, figuriamoci portarsi dietro venti o trenta persone per un tour. Non voglio arrivare a dire che c’è una assoluta mancanza di opportunità, ma certo è molto più difficile guadagnare, pensare di potersi costruire una vita come musicista. Mi viene ancora una volta in mente Charles McPherson, quando la società era diversa. Aveva un lavoro durante il giorno, credo fosse una specie di contabile o qualcosa del genere, viveva dall’altra parte della strada di John Coltrane e quindi lo andava a trovare a casa e, siccome Trane suonava praticamente ventiquattr’’ore al giorno, ci è finito a suonare insieme. Il risultato a New York oggi è una specie di tangibile disperazione. Se vuoi provarci, devi iniziare ad usare i social, io stessa sono diventata una creatrice di contenuti e sapevo che la cruna dell’ago era stretta, difficile passarci attraverso per farmi promozione. Sono stata fortunata, riesco a lavorare su ciò per cui mi impegno da sempre… 

Restando nei paraggi dei temi sociali, in questo «Portrait» ci sono dei brani, la stessa Peace of Mind, in cui arrivano echi dell’impostazione di Abbey Lincoln, il modo di utilizzare la voce come un ulteriore strumento dentro la sezione fiati

Si! Evviva! Ci siamo! Io adoro Abbey Lincoln e hai detto la cosa perfetta: questo è letteralmente il cuore di questo progetto! È come mostrare ancora le possibilità come cantante di fare qualcosa di diverso, non nuovo, perché in fondo Abbey lo faceva già nel 1961. Registrava album pazzeschi come «Straight Ahead» con musicisti enormi (Eric Dolphy, Mal Waldron, Coleman Hawkins, Max Roach e così via) e non è che loro si mettessero lì a dire: bene, facciamo un pezzo per Abbey Lincoln. Avevano il loro stile di scrittura e semplicemente lei veniva incorporata in quelle idee musicali, era come uno dei fiati e volutamente le partiture era costruite in quel modo. Uno dei motivi, ad esempio, per cui quell’album mi fa impazzire è che è autentico. 

Lincoln, come anche Nina Simone, ha anche impresso il forte coinvolgimento sul tema dei diritti civili, delle diseguaglianze sociali. È qualcosa che ti interessa come musicista? 

Certo, ma voglio essere sincera. Sto ancora navigandoci dentro per cercare una mia posizione. Vedo tutti i giorni l’orrore della mancanza di prospettiva per un mondo migliore di questo: le crisi idriche, la scarsità delle risorse alimentari, la guerra. Mi sento travolta da questi temi, mi fa sentire in colpa avere una vita che porta esattamente dove avrei voluto essere. Posso avere l’opportunità di dedicare la mia esistenza alla musica e so che è pieno di persone talentuose che lo vorrebbero, anche solo per condurre una esistenza dignitosa. Sto cercando di capire, rispetto a questi temi, quale possa essere il mio contributo, se attraverso la musica o in modo diverso, ad esempio finanziando progetti o protestando in modo pubblico. Un modo, insomma, per restituire quello che ho avuto. Io lo so che le mie canzoni possono sembrare qualcosa di già sentito, parlano di amore, di crescita, di trasformazione nelle stagioni della vita, ma non sono sicura – almeno per ora – di voler cantare qualcosa di espressamente politico. 

Avrai già raccontato mille volte in questi mesi quanto i Grammy hanno cambiato la tua vita, è difficile restare focalizzati sulle tue idee prima della vittoria, senza esserne condizionata? 

Mai e poi mai, ma proprio mai, mi sarei aspetta di vincere quei premi, lo giuro. Sono lontanissima dall’idea di cambiare la mia estetica, le mie canzoni, quello che mi piace per cercare la giusta connessione con ciò che ci si aspetta. Quindi, la prima reazione a freddo è stata: oddio, adesso devo cambiare? La mia risposta è stata veloce: ripartire immediatamente in tour e pensare a un altro album, focalizzarsi sulla musica, provare a cantare meglio, a diventare una musicista migliore e a capire quale sarà il prossimo passo; perché so anche che se faccio altri «Linger Awhile» il pubblico forse mi resterà vicino. Dentro di me, però, c’era la speranza che la creatività artistica e una maggiore confidenza con gli ingranaggi mi avrebbero dato la forza di fare un album come «Portrait». Non si può restare fermi, pensa a Miles Davis. Certamente avrebbe potuto continuare a fare cool jazz per il resto della vita, ma questo non avrebbe alimentato la sua capacità e passione artistica fino a renderlo un esempio nell’esplorazione e nello sviluppo dell’estetica. Qualcun altro come Roy Hargrove negli anni Novanta avrebbe continuato a poter fare il nuovo Wynton Marsalis se avesse voluto, una specie di clone, e così avrebbe mantenuto la propria popolarità. Ma ha suonato con Joe Henderson, Johnny Griffin e poi ha fondato un gruppo di musica cubana, ha creato la RH Factory e si è interessato a come l’hip hop potesse interagire con il jazz per sentirsi un artista più completo. 

È uscito fuori il tema dell’estetica; la copertina del tuo singolo Autumn Nocturne è stata affidata alla notevole artista Megan Gabrielle Harris, che ha qualche eco di afrofuturismo nel proprio tocco, ma ancora più sorprendente è la copertina dell’album affidata a Dominic Avant, che viene dall’esperienza alla Disney. C’è qualcosa di affascinante, un po’ vintage e un po’ di espressionismo ricco di colori e provocazioni… Ti ci riconosci? 

Era esattamente quello che volevo: essere circondata da persone che sapessero dipingere in quel modo, raccogliendo il senso di quanto la musica sia vibrante, energetica e sia costruita su livelli e tessiture diverse. Ecco, mi sarebbe piaciuto che la copertina mantenesse quel tipo di emozioni in raccordo con i contenuti, che catturasse l’occhio e fosse qualcosa di più di un disegno con un paio di parole, la solita cover dei dischi. Credo che funzioni benissimo e si incastri con la musica, rendendo l’ascolto migliore. Sono felice di aver incontrato Dominic Avant, è la prima volta che lavoriamo insieme e ha fatto un lavoro magnifico, perché ha colto la mia identità, lontana da: «è come Sarah Vaughan», «è come Ella Fitzgerald»…

Non l’ho accennato, perché è qualcosa che personalmente non mi piace affatto.

Lo capisco, figurati, ma va bene così, è giusto che le persone facciano paragoni, è qualcosa che contribuisce a dare un punto di riferimento, un orientamento musicale. Naturalmente la speranza è che «Portrait» trasmetta, appunto, qualche strato, qualche livello di profondità ulteriore per arrivare più vicino a ciò che sento di essere.

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