Hai cominciato a suonare il pianoforte già pensando al jazz, oppure sei stato avviato prima allo studio della musica classica?
Ho iniziato a mettere le mani sullo strumento a cinque anni. In casa avevamo un pianoforte e io lo suonavo per divertirmi. A sette anni ho preso seriamente le prime lezioni. A quattordici anni suonavo ancora abbastanza male, ma ho sentito per la prima volta il jazz ed è stata la rivelazione. Ho provato subito a cimentarmi con questa musica, sempre suonando male. Poi, arrivato a sedici o a diciassette anni, mi sono detto che non avrei mai fatto del jazz per davvero se non avessi imparato perfettamente la tecnica del pianoforte. Quindi è soltanto per suonare meglio il jazz che mi sono dedicato allo studio del pianoforte classico, non per diventare un concertista. Volevo migliorare le mie conoscenze teoriche in generale e la tecnica dello strumento in particolare. Così ho lavorato sodo per alcuni anni, ma sempre con lo scopo di arrivare al jazz.
Hai preso il diploma?
No, non ho mai terminato gli studi, ma credo di aver lavorato tanto sul pianoforte, specialmente nell’ultimo mezzo secolo. D’altronde, più vado avanti con gli anni e più mi rendo conto di quello che bisogna ancora imparare. Le frasi tipo «sono arrivato», oppure «ho finito» non devono esistere. Quando ero ragazzo è stato soprattutto l’ascolto di Fats Waller, di Art Tatum e di Lionel Hampton a sollecitarmi a continuare. Ricordo un disco di Hampton nel quale i pianisti erano due, lui e un altro. Io credevo che fosse il solo Hampton a fare tutte quelle note, e studiavo come un pazzo per riuscire a fare altrettanto …
Con chi hai suonato per primo?
Con Lucky Starway, un musicista di Algeri, la città dove sono nato e dove ho abitato per più di vent’anni. Sapeva suonare quasi tutti gli strumenti ed era l’unico docente di jazz della zona. Cominciò insegnandomi a fare l’accompagnamento: lui suonava il clarinetto, io lo accompagnavo al pianoforte. Ho suonato con la sua orchestra per due o tre anni prima di decidermi, nel 1950, a trasferirmi a Parigi.
Mi pare che tu abbia fatto in tempo a suonare anche con Django Reinhardt. Vorrei sapere che memoria ne conservi. Rammenti qualcosa di lui che ti abbia particolarmente colpito?
Purtroppo ho suonato poco con Reinhardt, ma l’ho ascoltato molto. Per una strana coincidenza, l’ultimo disco della sua vita è stato il mio primo. Quel giorno, l’8 aprile 1953, il pianista Maurice Vander – che doveva partecipare alla registrazione – ebbe un contrattempo e lo rimpiazzai io. Fu la mia unica vera collaborazione con Django e mi riuscì male per l’emozione, tanto che non l’ho mai voluta riascoltare. Di lui conservo dei ricordi di carattere musicale. Credo che in una certa misura mi abbia influenzato, allora, perché mi piaceva il modo in cui concludeva le frasi melodiche con una nota tenuta e vibrata che mi sembrava stupenda. Sul piano personale non posso dirti nulla di speciale, se non gli aneddoti che si conoscono: la sua mancanza di puntualità, per esempio; la capacità di dimenticarsi perfino di un impegno per suonare con Duke Ellington… Ma queste cose le sanno tutti.
Hai sempre preferito suonare con gruppi piccoli, o meglio ancora da solo. Il tuo rapporto con le grandi orchestre?
Ho inciso anche parecchi dischi per big band ma spesso con la sensazione di non avere un’autentica responsabilità, e a me piace la responsabilità. Penso che da soli si sia completamente liberi; quando si è in due si è già meno liberi, figuriamoci in diciotto. Nel jazz mi ha colpito fin dal primo momento la possibilità di fare quello che si vuole, quando si vuole, quando si sente di poter esprimere ciò che si ha in testa. Le grandi orchestre mi piacciono soltanto come ascoltatore o per poter scrivere della musica. Ho avuto occasione di scrivere musica per colonne sonore e per registrazioni discografiche, ma abbastanza di rado.
Il tuo jazz è basato molto sull’improvvisazione. Ti ho ascoltato più volte per varie sere di seguito e ho notato che hai sempre cambiato il programma. Se poi ti capitava di suonare lo stesso pezzo, lo eseguivi ogni volta in modo diverso. Non è così?
Credo che tu abbia ragione: il mio scopo principale è quello di improvvisare. Se qualche volta scelgo volontariamente dei temi molto conosciuti dal pubblico, lo faccio per dimostrare con maggiore chiarezza che si può essere estremamente liberi, per tutta una vita, anche con un solo pezzo. Due accordi bastano a esprimere un mondo diverso ogni giorno. Per questo l’improvvisazione mi appassiona.
Ho detto che ti ritengo un grande improvvisatore anche perché non credo che nel jazz si improvvisi tanto quanto si dice. Ho trascorso a volte una settimana in compagnia di jazzisti illustri, e li ho sentiti ripetere spesso gli stessi assolo, nota per nota.
Me ne rendo conto. Però si può improvvisare ogni giorno ed essere pessimi jazzisti: non è che si sia bravi perché si improvvisa. Io non so se sono un grande improvvisatore, come dici tu, ma di certo sono un improvvisatore, cerco di esserlo sempre. Questo non vuole dire che io sia un musicista di valore, ma credo che il jazz sia fatto per questo: è meraviglioso, è formidabile perché si può sempre cambiare qualche cosa. Quando ho fra le mani uno spartito classico per studiare le difficoltà tecniche, non riesco mai a interessarmi a fondo. Se avessi dovuto suonare per tutta la vita lo stesso studio di Chopin, per dire, mi sarebbe mancato qualcosa di molto importante.
Tu sei stato uno dei musicisti europei più invitati negli Stati Uniti. Hai qualche ricordo d’annata? Che impressioni ne hai riportato le prime volte?
Ho iniziato ad andarci nel 1963 per tornarci l’anno seguente. Sono rimasto colpito in primo luogo dalla grande quantità di musicisti di jazz e dalla gentilezza con cui ti venivano a trovare. Così è accaduto a me, in un club di New York, per dodici settimane di seguito. Ho visto tutti, mi è sembrato incredibile incontrare tutti, anche Duke Ellington. Venivano come amici, mentre per la verità in Europa non ho mai provato qualcosa di simile. Da noi si ha la sensazione, se non della gelosia, perlomeno di un sentimento un po’ imbarazzante. Inoltre, un tempo, i jazzisti europei che cercavano di essere originali venivano quasi rimproverati: li si credeva incapaci di inserirsi in una delle grandi correnti del jazz. L’originalità mi è sembrata riconosciuta assai meglio negli Stati Uniti. Forse è stata questa la cosa che mi ha colpito di più e subito.
Ti pare che il jazz, nella sua patria di origine, abbia un seguito di massa?
Tutto sommato no, ma c’è una grossa differenza con l’Europa. Lì le canzoni, in buona parte, sono servite da base per il jazz. Il grande pubblico è abituato a queste canzoni, e quindi un poco anche al jazz. Da noi, invece, le canzoni sono in linea di massima inutilizzabili a questo scopo.
Gli americani apprezzano, secondo te, il jazz europeo?
Ricordo una frase che mi impressionò assai, appena sbarcato per la prima volta a New York. Tutti mi chiedevano dove avessi imparato a suonare il «jazz americano». Per lo più si tratta di due vocaboli inscindibili: il jazz è soltanto americano, o almeno la pensavano così parecchi anni fa. Erano comunque contenti di constatare che altri musicisti e altri paesi si interessavano al «jazz americano». Lo consideravano una derrata locale. Allo stesso modo, però, nonostante siano stati i fratelli Lumière a inventare il cinema, praticamente da sempre esiste anche il cinema giapponese.
Condividi certe opinioni per le quali i musicisti neri sono superiori ai bianchi nel suonare il jazz?
Non so bene come siano andate le cose alle origini, ma ho imparato che il jazz è nato a New Orleans e che i primi jazzisti suonavano una musica tipicamente africana sul piano ritmico, mentre sul piano melodico si trattava di arie folcloriche francesi o di canzoni, più o meno migliorate, basate sulla musica europea. All’inizio c’è stato quindi un mélange inconsapevole di musiche occidentali e africane. Ma il jazz tradizionale era fondato soprattutto sul ritmo, e questo ha dato una posizione di superiorità ai musicisti di origine africana, cioè a coloro che conservavano nella loro coscienza un preciso senso del ritmo, maggiore rispetto agli immigrati dall’Europa. La prova è che anche oggi i migliori batteristi sono neri. Per gli altri strumenti il discorso è diverso, ormai siamo su un piano di parità. Oggi non importa dove si è nati: se ti dedichi al jazz per tutta la vita puoi rivaleggiare con chicchessia, e gli stili dei bianchi e dei neri si sono influenzati reciprocamente in modo che, al buio, può essere difficile indovinare se stia suonando un bianco o un nero. Inoltre, in Europa, certi musicisti sono riusciti a liberarsi dall’influenza nera e bianca degli americani per suonare un nuovo jazz europeo. Sono solisti che hanno impiegato dieci o quindici anni a conseguire ciò che in partenza non avevano, ossia il senso profondo del tempo; poi gli hanno sovrapposto una sensibilità occidentale, europea, e sono riusciti a fare un jazz diverso. Non so se sono stato chiaro, era una domanda un po’ delicata. Non bisogna mescolare le questioni di etnia con la musica, sono due cose differenti. Io ho una grande ammirazione per molti musicisti americani neri, e alcuni sono miei amici. Naturalmente conosco anche dei cattivi musicisti neri: ce ne sono. Ma nessuno potrà o dovrà mai sostenere che suonano male perché sono neri, capisci?
Mi sembra evidente. Vorrei però che tu precisassi meglio se usi il termine «jazz europeo» quando il jazz sia suonato da musicisti europei; oppure, come mi pare, quando questi musicisti cerchino di fare del jazz originale, che tenga conto della tradizione musicale europea.
Non si può generalizzare. Nel caso di Django Reinhardt, per esempio, c’era un folklore ben preciso intorno a lui: la musica della sua gente lo aveva influenzato e il suo stile ne era impregnato. Sicuramente un Reinhardt degli Stati Uniti non avrebbe suonato nella stessa maniera. Ma, se considero il mio caso personale, le cose sono diverse: per me il folklore erano il valzer musette e la chanson, cioè elementi che ho rifiutato fin dal primo giorno. Non sono stato influenzato da queste cose che detesto, quindi; ho ricevuto piuttosto l’eco di alcuni musicisti classici che ho studiato per imparare il pianoforte. Ma questo può succedere anche a New York. Ormai tutti i pianisti americani di jazz hanno studiato Chopin, alla lunga è cambiato qualcosa.
Concluderei che nel mio caso non esiste una vera influenza europea, e che comunque bisogna fare un’analisi particolare per ogni musicista, volta per volta.
Ma credi davvero, per limitarci al tuo caso, che non ci sia alcun compositore europeo che ti abbia impressionato più degli altri? Mi sbaglierò, ma hai nominato Chopin almeno tre volte.
È vero. Quando mi chiedono quale sia il pianista, o in generale il musicista che mi abbia più influenzato, rispondo sempre Chopin. Un po’ è per sbarazzarmi dell’obbligo di fare una lista di nomi, ma in effetti il pianoforte romantico di Chopin mi è sempre piaciuto. Tuttavia, da qui a dire che quando suono del jazz penso di suonare «europeo» ci corre parecchio. Al contrario, ho sempre cercato di fare del «jazz americano», ed è questo che m’interessa, anche se non escludo che nella mia testa ci siano ricordi di tutto quello che ascolto.
Un musicista compone o suona al solo scopo di fare musica, oppure per esprimere delle idee?
Tendo personalmente a non mescolare mai le due cose. Si parla molto, in questi tempi, di contesto sociale. È pacifico che tutti abbiamo delle influenze perché si vive in un certo Paese e in un dato ambiente, ma non credo che ci siano delle interferenze davvero importanti tra la musica e il resto. Penso che la musica sia una cosa ben delimitata. Può comprendere la poesia, può includere ogni sorta di sentimenti molto complessi, ma si esprime soltanto con suoni e note. Nelle intenzioni, in ogni nota, si può vedere soltanto della musica.
Coloro che vogliono vederci dell’altro sono liberi di farlo, io non glielo posso certo impedire, ma sono altrettanto libero di concepire la musica come un elemento compiuto che non ha niente a che spartire col resto. Per me la musica è tutto, non voglio mescolarci la politica. Forse la penso così perché non sono nato in un contesto che mi abbia oppresso o fatto soffrire. Forse in altre circostanze avrei reagito diversamente, ma a Parigi ho avuto soltanto problemi musicali. Sotto questo aspetto ho anzi sofferto molto, perché a causa della mia «originalità» tutti mi davano addosso, a suo tempo, ed ero al centro delle critiche più vivaci.
Scusami, vado fuori tema, però devo ripetere che ho sofferto ma solo come musicista: non so, poi, se è a causa di questo che suono meglio o peggio di prima. Questi problemi mi hanno aiutato in ogni caso a fare dei progressi, perché più mi si diceva che suonavo male, più facevo degli sforzi per suonare bene. E quando un giorno mi hanno detto, finalmente, che suonavo meglio, ho pensato che non fosse vero e che sotto ci fosse qualche trappola. Dovevo progredire ancora, di sicuro. Credo che faccia molto bene essere criticati. Non c’è di peggio che dire a un musicista «sei il migliore»: in quel momento smette di lavorare. Alla fin fine ho sempre preferito che mi si criticasse a fondo, per sentirmi stimolato a fare meglio.
Secondo me, anche queste sono «interferenze». Ma forse sono io che devo precisare meglio il mio pensiero. Ci sono dei musicisti che si sforzano di esprimere con la musica le proprie idee, e sono convinto che ciò avvenga in ogni caso, anche inconsapevolmente o involontariamente. Questo però non significa che, se sono buone le idee, sia buona anche la musica o viceversa. È ovvio: per fare buona musica bisogna essere prima di tutto buoni musicisti.
Io ho le mie idee politiche, non sono di certo disinteressato a quello che succede nel mondo, ma questo non vuole dire che io sia un militante, da una parte o dall’altra. Significa soltanto che ho le mie opinioni. Ma non ho voglia di parlarne, non servirebbe a niente. E, quali che siano le mie opinioni, non vedo il loro accostamento con la musica, non capisco come si possano mescolare le due cose. Penso che quando si è musicisti, si è musicisti e basta. È diverso essere scrittori, perché bisogna esprimere ciò che succede nella vita di tutti i giorni. La musica è un linguaggio che non si può ricollegare a delle parole, è puramente soggettivo. Non riesco a scorgere dove sia il punto d’incontro con la politica.
Allora, quantomeno per te, è più difficile esprimere delle idee con la musica, e perciò con il jazz, che non per mezzo di altre arti.
La musica è di certo meno esplicita della letteratura. Ascoltando la musica si può pensare a qualunque cosa. Se prendiamo dieci persone, possiamo far dire loro dieci cose diverse a proposito della stessa opera, a seconda delle loro reazioni. Una stessa frase musicale può ispirare gioia a qualcuno e tristezza a qualcun altro. C’è in Francia un cantante di musica leggera che io trovo pessimo e che mi lascia di una freddezza assoluta. Ebbene, altre persone si commuovono fino alle lacrime quando lo ascoltano; e se al suo posto ci fossi io con il mio pianoforte, sicuramente non proverebbero il minimo sentimento. Dunque, la musica è un linguaggio universale, ma è un linguaggio meno definito delle parole, e perciò lo si può interpretare come si vuole.
Eppure, chi ti ascolta con buone orecchie avverte nella tua musica la vibrazione della contemporaneità, anche se non è il tuo intendimento.
Sei tu che ci trovi questo e lo interpreti a modo tuo. Tempo fa ho assistito a dei corsi di analisi musicale. Il relatore prendeva in esame una certa frase di un concerto di Mozart parlandone per un’ora e trovandoci mille cose. Ma questo non significa che Mozart abbia pensato le stesse cose. Lui ha scritto la sua musica. Dall’esterno, qualcuno la può analizzare e trovarci delle intenzioni, che però sono polisense e non è affatto detto che esistano nello spirito del creatore.
Noi siamo influenzati di sicuro dal mondo esterno, non si può vivere nel proprio angolo. Io studio la tecnica pianistica guardando la tv, e spesso vengo a sapere in tempo reale che dall’altra parte del globo un aereo è stato dirottato e cose di questo genere. Tutto questo lascia il segno, ma quando si suona non si può sapere che cosa succede: io non so perché suono come suono. La sola cosa che so è che cerco di improvvisare e che ho la preoccupazione dell’originalità. Se faccio la stessa cosa del giorno prima, sono triste; se riesco a fare qualcosa di diverso, anche se è meno buono, sono contento. Il mondo esterno è più vicino di quanto non si creda, nel senso che per me il mondo esterno sono le quattro persone che mi ascoltano e che mi preoccupano di più di quello che sta succedendo a tremila chilometri di distanza. Se l’uomo è andato sulla luna, non credo che questo mi faccia suonare diversamente. Ma se due persone tra il pubblico sbadigliano mentre suono, questo mi influenza terribilmente. Si tratta infatti di qualcosa che succede nel mondo esterno, ma che proviene da un universo visibile e sensibile immediatamente.
Posso farti un’osservazione? Qualche volta, quando suoni, la tua concentrazione non sembra perfetta.
La concentrazione … Sì, è una grande qualità ed è proprio quella che mi fa difetto più spesso. Per improvvisare bisogna essere concentrati, ed è questa la cosa più difficile da trovare. Quando si è concentrati si dimentica il mondo esterno, si è nella musica, nello strumento. Allora le persone, lì a due passi, possono sbadigliare o parlare, non si sentono e non si vedono più. Ma io sono troppo sensibile a ciò che succede nelle immediate vicinanze perché questo sovente non mi disturbi. Ci sono invece dei musicisti che riescono a dare l’impressione di trovarsi in un mondo a parte, ma non è facile capire quale sia il limite fra l’impressione che danno e quello che fanno realmente. In linea di principio, non c’è da fidarsi delle apparenze.
Ma non ti sembra che il jazz venga «consumato» troppo in fretta, in un modo non all’altezza della sua espressione artistica, e che – forse è la stessa cosa vista dall’altro lato – i musicisti di jazz diano il meglio di sé da giovani?
Credo che questo discorso sia valido quasi esclusivamente sul piano fisico. Se un solista deve soffiare in un sassofono, può darsi che a un certo momento ci sia un calo della sua forza fisica. Ma se qualcuno lavora seduto al pianoforte, o meglio ancora davanti a un tavolo, per mettere sul pentagramma le sue conoscenze intellettuali, non credo che le sue forze decrescano. Pensiamo a Ellington. Ritengo al contrario che un artista possa migliorare, sul piano intellettuale, fino all’età in cui non sia più in grado di pensare o di parlare. Naturalmente, quando bisogna suonare in pubblico si è costretti a uno sforzo fisico che a un dato momento uno può non essere più in grado di sostenere. Ma ancora una volta è questione di casi particolari. È possibile che un uomo a quarantacinque anni sia finito, e che un altro a settanta sia ancora in gamba. In genere le facoltà intellettuali vanno aumentando, e così pure le facoltà musicali, perché c’è l’arricchimento dell’esperienza.
Le mie idee sono in parte differenti. Secondo me, almeno nel jazz, questo fatto del declino artistico con l’età esiste, si può generalizzare di più e non dipende soltanto da fattori fisiologici o pratici. Io sarei incline a collocare anche te fra le eccezioni, perché con l’età non più verde che hai, e malgrado la maturità del tuo stile di cui tu stesso hai parlato, non hai smesso di impegnarti nella ricerca. Per altri è diverso.
Forse è perché hanno smesso di lavorare o di impegnarsi. Io non ho mai lavorato tanto come negli ultimi decenni, sia sul piano dello strumento sia su quello della ricerca. Può darsi che questo modo di comportarsi non sia molto diffuso, non lo so. Ma, per tornare al discorso di prima, esiste una fatica di chi suona sulla scena che si risente a partire dalla quarantina o giù di lì. Io stesso mi sento ovviamente più stanco rispetto a tempo fa, non tengo più la lunga distanza, e se dovessi sempre suonare nei club come nel passato credo che faticherei molto. Le volte che lo faccio, però, mi pare di riuscire altrettanto bene di una volta sul piano artistico se non meglio, perché ho continuato a lavorare, a impegnarmi e a credere in quello che faccio.
Intervista a cura di Franco Fayenz