Oggi sarebbe abbastanza facile fare dell’ironia su questa semplice constatazione: il primo musicista nato in Africa che si sia, distinto universalmente nel jazz, cioè in quella che per definizione è la musica afroamericana, non è né un africano né un americano bensì un francese: Martial Solal. È un dato a stento credibile, ma facilmente verificabile su una qualsiasi enciclopedia dell’epoca: alla fine degli anni Cinquanta la terra delle origini non aveva dato al jazz di prima fila che questo pianista nato ad Algeri, città allora ben più d’oggi distante dalla cosiddetta Africa Nera, l’Africa delle origini, e uscito da una di quelle famiglie francesi che componevano uno degli ultimi insediamenti colonialistici europei su quel tormentato continente. Un rapporto, dunque, tanto casuale da servire in pratica soltanto alla narrazione biografica.
Ad Algeri (dove nacque il 23 agosto 1927), casuale fu del resto l’incontro di Martial Solal con il jazz. Al pianoforte egli si era accostato con confidenza fin da bambino, trovandoselo in casa, e aveva iniziato a studiarlo con una certa regolarità a sette anni. Di quell’avvio, vigilato da una volonterosa maestra, Solal ha un bizzarro ricordo, esternato molti anni dopo in un’intervista: «Quelle lezioni mi incutevano una tremenda paura, tanto che quando dovevo suonare il campanello di quella porta dovevo farmi forza. Tutto questo perché la signora aveva un cane che si metteva ad abbaiare furiosamente non appena io mi profilavo sulla porta. Ne ero terrorizzato, avevo paura già il giorno prima soltanto al pensiero di doverci andare…».
Ecco dunque che, per colpa di un botolo petulante di troppo, il jazz ha rischiato di annoverare un grande pianista in meno. Per fortuna il piccolo Martial vinse quella paura, o forse furono soltanto le ferme esortazioni della madre a non fargli perdere la vocazione. Era stata proprio la madre a creargli l’ambiente propizio: amica della musica, era l’abituale cantante delle feste di famiglia. Fatto sta che quegli studi non furono mai interrotti, anche se più di quelli valeva a formare la personalità musicale del ragazzo la sua stessa eccezionale sensibilità per il mondo dei suoni, un mondo in cui egli si addentrava praticamente da solo. A tredici anni, quando era uno studente del Lycée Bugeaud, per Martial Solal ci fu l’incontro con il jazz. Giravano per le case dei ragazzi francesi di Algeri i dischi di Armstrong e di Fats Waller, e quest’ultimo fu innalzato dal giovane pianista a suo primo idolo. Dietro a quello scoprì, secondo sue ammissioni ripetutamente fatte, Teddy Wilson, per il quale ebbe una venerazione particolare, ma anche Art Tatum e altri ancora, che gli fecero formulare una risoluta decisione: anch’egli sarebbe diventato un pianista di jazz.
Alla scelta decisiva concorse anche un personaggio che nei ricordi del musicista ormai affermato è il suo «maestro di jazz»: Lucien Séror, che aveva adottato come nome d’arte quello, inconsueto, di Lucky Starway. Séror guidava un’orchestra che nel 1944, in piena guerra, dovendo rimpiazzare gli assenti accolse nelle sue file quel ragazzo di appena diciassette anni, ormai chiara promessa. Lì, accanto a colleghi più scaltriti qualcuno già decisamente anziano, Martial Solal apprese i primi rudimenti del mestiere. Aver trovato una piccola paga non bastava a chi si sentiva la musica nelle vene. Già allora il ragazzo capiva che avrebbe potute pienamente esprimersi soltanto se si fosse impadronito di tutti i segreti del suo strumento. Per questo ampliò i suoi studi, intensificò gli esercizi, affrontò anche i classici prima di allora trascurati. «Capivo che sarei potuto diventare un miglior pianista di jazz se avessi approfondito il mio rapporto con la tastiera, se avessi saputo assorbire al massimo quanto, prima di quel momento, era stato fatto in musica. Per questo ho studiato a fondo Fats Waller, Teddy Wilson, Art Tatum e, perché no, un certo Chopin: di musica per pianoforte ne ha scritta tanta, e importante, mi pare…». Il suo intento di allargare il proprio panorama di cognizioni musicali (una preoccupazione che lo portò a rigorosi studi anche assai più tardi, a fama già raggiunta) lo indusse a impratichirsi della tecnica di altri strumenti. Tanto che quando riuscì a trovare un impiego allo Shéhérazade, il locale notturno annesso all’hotel Aletti, il più famoso di Algeri, fu per farvi una stagione come clarinettista e poi una come trombettista.
Nel frattempo aveva superato gli esami per essere iscritto alla società degli autori (indispensabile passo, per lui che aveva già capito di poter diventare anche compositore) presentando non senza prudenza un tango, un valzer lento e altri brani non meno radicati nella tradizione. Naturalmente, non ci volle molto perché Martial Solal, nell’orchestra dello Shéhérazade, diventasse il pianista stabile, molto apprezzato dalla clientela cosmopolita dell’Aletti. Anni fa se ne uscì con una curiosa confidenza su quegli anni di formazione: «Facevo andare la “pompa” – disse, alludendo alla pulsazione ritmica della mano sinistra – ma, se mi fermavo a meditare, il caporchestra mi lanciava uno sguardo da pietrificarmi. Forse è a questa dura disciplina che devo il senso del tempo».
Nei primi anni del dopoguerra passavano per Algeri alcuni musicisti francesi, che non tardarono a rendersi conto delle doti del giovane collega. Gli parlavano di Parigi, ridiventata il crogiolo culturale più importante del mondo, lo invitavano al grande passo che gli avrebbe permesso di uscire da quel ghetto provinciale. A sollecitare Martial Solal a compierlo fu soprattutto Hubert Rostaing, pure lui di origine algerina, un clarinettista che aveva suonato con il grande Django Reinhardt e poteva raccontare cose meravigliose, inimmaginabili in quella lontana periferia dell’impero del jazz francese. Ma Parigi appariva talmente remota, appunto, che il giovane pianista rimuginò per mesi e anni quell’idea fissa prima di porla in atto quando aveva da poco compiuto i ventidue anni e si sentiva abbastanza forte.
Martial Solal approdò a Parigi, capitale dei suoi sogni, nel febbraio 1950. Sulla leggendaria riva sinistra della Senna si vendemmiavano i frutti di una grandiosa stagione culturale. L’esistenzialismo era stato addirittura assorbito dalla moda, dalle fogge in cui si abbigliavano e atteggiavano i giovani, ma intanto aveva trasferito la sua filosofia nella letteratura e nel teatro con lo stesso suo caposcuola Jean-Paul Sartre e con un esercito di allievi più o meno fedeli, mentre Albert Camus riscopriva un suo umanesimo con La peste dopo il disperato nichilismo dello Straniero. Tra questi due poli di cultura si agitava freneticamente un mondo di intellettuali che interrogavano sé stessi e la propria epoca nei piccoli teatri, nelle cantine, nelle soffitte, lungo i boulevards: un formicaio di scrittori, musicisti, chansonniers, cineasti, pittori, attori d’ogni Paese, che sembravano voler resuscitare i grandi momenti della città, quando aveva accolto Modigliani e Stravinskij, Casella e Picasso, Hemingway e Gertrude Stein. Dato che il jazz, come le canzoni di Juliette Gréco, era una delle linfe musicali di quel mondo, ci sarebbe pure stato un posticino anche per Martial Solal…
L’arrivo del pianista algerino nella terra promessa è stato ben raccontato da Lucien Malson, il noto critico che, dopo essere stato fra i testimoni di quei giorni, avrebbe accompagnato forse più di ogni altro la carriera di Martial Solal con le sue sintesi e interpretazioni illuminanti (l’articolo è nel numero dell’aprile 1960 di Jazz Magazine).
«Febbraio 1950. Ogni sera, banale romanzo, senza denaro e senza coraggio, nel freddo della via, un giovane aspettava sulla porta del Club Saint-Germain che qualche guardiano di buon cuore gli aprisse, in via di favore, l’accesso. Ventate di musica, come odore di pane fresco, salivano dalle inferriate degli sfiatatoi, mentre attraverso la stretta porta proibita l’occhio giungeva fino al fondo della voragine senza vedere altro che la scala in ripida pendenza e gli eletti che la discendevano. Si ebbe pietà, una volta, di quel timido ricco di costanza: venne al centro del tempio, vide quel che voleva vedere, ma non vinse nessuno e ripartì sconosciuto. Sperava timidamente di farsi ascoltare, di contestare i sermoni del gran sacerdote di allora, il sassofonista Jean-Claude Fohrenbach, che pestava sul piano durante i riposi dell’orchestra: fermamente, gli fu rifiutato il permesso. Gli anni sono passati. Il giovanotto modesto che non poteva varcare la soglia del santuario, al quale si proibiva di suonare e al quale non si accordava che uno sguardo di comprensione, era lo stesso destinato a diventare la vedette inamovibile dello stesso locale che lo escludeva, il più originale dei solisti francesi del dopoguerra, l’improvvisatore ammirato da tutti i musicisti. Il giovane umile e riservato che era venuto da Algeri per conquistare la capitale, con la stoffa del generale e l’aria semplice del soldatino, che asciugava le sue economie nel disegno di avere un nome sui manifesti era Martial Solal, oggi ricoperto di onori…» Ma ecco come Solal stesso, rovistando nella memoria, racconta la propria ascesa sui primissimi gradini di quella scala: «Per tre mesi, all’inizio di quel 1950, ho girato Parigi alla ricerca di un contratto qualsiasi. Abitavo all’hotel Doré, sui Boulevards. Una volta suonai, da solo, all’Heure Bleue in rue Pigalle. La musica del piano fa vender meglio lo champagne, pare. Mi ringraziarono e mi misero alla porta: ero veramente troppo jazz. Un’altra sera feci un gala nell’orchestra di Paul Mattei. Mi pareva poca cosa ma ero in errore: la mia carriera è cominciata proprio da lì. Mattei conosceva il sassofonista Noël Chiboust, il quale riuniva un’orchestra per la stagione estiva nella stazione idrominerale di Evian, sul lago di Ginevra. Gli parlò bene di me. Era il mio primo impiego ma fu la chiave di tutto. Di ritorno a Parigi, alla fine del periodo delle vacanze, ho frequentato le boîtes del jazz e le jam sessions di rue Fontaine in quel teatro, dopo la mezzanotte, quando vi si incontravano tutti gli appassionati e tutti i musicisti della città. Lì conobbi, all’inizio del 1951, Benny Bennett, che m’ingaggiò per il Rêve, il dancing situato sotto il Rex. Mi ricordo che con qualche compagno dell’orchestra, il trombettista Christian Bellest, il bassista Pierre Michelot e il sassofonista Georges Kennedy, ascoltavamo ogni sera i dischi di Charlie Parker e quelli di Miles Davis, le famose sedute Capitol. Cominciavo a essere conosciuto. Sostituii Bernard Peiffer al Club come solista, tenni il posto di pianista nell’orchestra di Aimé Barelli per più di un anno, incisi infine le mie prime cose per la Vogue. Non fui più disoccupato».
Questa prima seduta discografica diretta da Martial Solal ebbe luogo il 16 maggio 1953. Era un trio con Pierre Michelot al contrabbasso e Pierre Lemarchand alla batteria. I primi due brani incisi, che uscirono sotto etichetta Swing, furono Dinah e La chaloupée, cui seguirono Ramona e Once in a While. L’ottima accoglienza del pubblico fece sì che la stessa casa gli chiedesse di organizzare un’altra seduta per il 24 febbraio 1954, e in quell’occasione Solal portò con sé Jean-Marie lngrand al posto di Michelot e Jean-Louis Viale in luogo di Lemarchand, per altri quattro brani (Poinciana, The Champ, Farniente e Pennies From Heaven) che uscirono anch’essi a due a due su dischi 78 giri, ma sarebbero poi stati riuniti su un unico microsolco a 33 giri della Vogue.
In quel periodo Solal suonò ancora al Club Saint-Germain, quello dei suoi sogni di pianista disoccupato, con il trombettista Roger Guérin, con il fedele Michelot e altri; poi nel 1954 ebbe ingaggi al Ringside, un cabaret di proprietà del grande pugile americano Ray Sugar Robinson, che Solal ricorda «circondato dai suoi fan, dai suoi manager, dalle sue donne, dai suoi giganti, dai suoi nani, dai suoi cani e dai suoi pappagalli». Ma lui trovava più consona compagnia nel chitarrista Jimmy Gourley, uno dei primi jazzisti volontariamente esiliatisi in Francia dagli Stati Uniti. Quell’anno fu importante per Solal. In primavera ebbe definitiva affermazione nel «piano contest» che al terzo Salon du Jazz parigino lo vedeva al fianco di Bernard Peiffer, Henri Renaud, Mary Lou Williams e Thelonious Monk. In ottobre ci fu l’incisione di una parte dei brani che avrebbero dato vita al suo primo microsolco a 33 giri. In tale occasione poté utilizzare la ritmica di Sarah Vaughan, in quei giorni presente in città, ovvero il bassista Joe Benjamin e l’eccellente batterista Roy Haynes. Il disco fu completato in novembre ma con lngrand e Viale, suoi accompagnatori abituali al Ringside. In quel locale faceva qualche apparizione il bassista belga Benoît Quersin, che incise con Solal (e Viale) un 45 giri che pure ebbe buona accoglienza. Ormai a Solal nessuno più poteva contestare la qualifica di miglior pianista jazz di Francia, tanto più che proprio quell’anno si era trasferito in America il suo unico possibile contendente, Bernard Peiffer.
Le stagioni 1955 e 1956 sono contrassegnate da una ridottissima attività di Solal in concerto: musicista avveduto e puntiglioso, e ormai non più pressato dalle difficoltà economiche degli inizi, si era imposto quella parentesi per potersi dedicare sia alla composizione, sia al più severo banco di prova per qualsiasi pianista jazz: l’esibizione in solitudine. I risultati di questo ripensamento e di un duro lavoro sono in una cospicua serie di sedute discografiche per la Vogue, tra maggio e settembre 1956.

Il 3 maggio fu inciso «Escale à Paris», sotto il nome di Martial Solal and the Kentonians, per la presenza di diversi elementi dell’orchestra di Stan Kenton: Vinnie Tanno (tromba), Carl Fontana (trombone), Don Rendell (sax-tenore), Curtis Counce (basso) e Mel Lewis (batteria). Tra i sette brani, un Blues Martial. Il 30 maggio fu la volta di un piccolo gioiello, un disco («Quelle heure est-il») con quattro brani ispirati all’orologio (Horloge parlante, Dernière minute, Midi 1/4 e Au quatrième top) che ebbe il Grand Prix de l’Académie Charles Cros, l’oscar francese del disco. Vi si rileva la grande abilità raggiunta da Solal nello scrivere per un amplissimo organico: cinque trombe (tra cui Roger Guérin), quattro tromboni (tra i quali Billy Byers e Benny Vasseur), una normale sezione di cinque sassofoni (con Rostaing all’alto), infine Solal, Quersin e il batterista Christian Garros. Musica geniale, movimentatissima, a volte raffinata. Le sedute del 1 giugno e del 4 luglio furono poi dedicate a una lunga serie di brani per piano solo, completata in novembre per fare uscire il 33 giri «Real Gone», primizia gustosa di quella che diventerà una caratteristica spiccata di Solal. Del 24 settembre è una seduta intitolata alle lnternational All Stars, con lo scozzese Jimmy Deuchar alla tromba e tre americani: Billy Byers (trombone), Allen Eager (sax tenore) e un batterista più che famoso, il caposcuola del bop Kenny Clarke, che da pochi mesi si era stabilito a Parigi. La lunga cavalcata ci dà infine a novembre, oltre ai citati assolo di piano, anche la partecipazione di Martial Solal, quale principale solista, al microsolco della Philips «Kenny Clarke Plays André Hodeir», dedicato all’arte del noto compositore parigino.
Con il 1957, Martial Solal riprendeva il suo posto di pianista stabile al Club Saint-Germain, contribuendo ad assicurare al locale di rue Saint-Benoît il rango di crocevia del jazz della capitale. L’impegno, conservato per una lunga durata di anni, non impediva comunque. a Solal di proseguire il suo lavoro nella composizione e nelle incisioni. Tra queste ultime, una ne spicca di particolare significato: il microsolco che con Solal volle fare il leggendario Sidney Bechet, uno dei più illustri veterani di New Orleans, allora già sessantenne. Fu un’intuizione del grande artista del sax soprano, che volle annullare ogni barriera di generazioni e di stili. Un giorno Bechet, arrivando in anticipo negli studi d’incisione della Vogue (è il famoso critico Charles Delaunay che permette di rievocare l’episodio), ascoltò casualmente il giovane pianista ed espresse subito il desiderio di suonare con lui. Le sedute furono due, in un cinema della Rive Gauche adattato a studio: la prima il 12 marzo (con Lloyd Thompson al basso e Al Levitt alla batteria), la seconda il 17 giugno (con Michelot e Kenny Clarke). Non le precedette alcuna preparazione, alcuna prova, ma soltanto la concorde scelta dei titoli, che erano tutti degli standard americani. Eppure il risultato fu sorprendentemente felice, tanto che nel primo incontro furono incisi otto brani in nemmeno due ore, nel secondo sei in appena un’ora e mezzo! È interessante ancora oggi notare come i due musicisti riescano a fondere sonorità e personalità tanto diverse. Una vera prova di sensibilità e di intelligenza da parte di entrambi. Nello stesso 1957, tra le incisioni di Solal si trovano alcuni brani con una grande orchestra, sospinta sempre dalla batteria di Clarke: insieme ad alcuni precedenti e altri successivi daranno vita, nel 1958, a uno splendido disco per la Swing.
Alla fine del 1959 l’attività di Solal è nuovamente segnalata dai critici, che gli riconsegnano il premio Charles Cros per un piccolo, prezioso 45 giri, della durata di dodici minuti, inciso per la Columbia francese con Roger Guérin (tromba), Paul Rovère (contrabbasso) e Daniel Humair (batteria). Il brano, «Suite n. 1 en ré bémol», potrebbe trarre in inganno. Nonostante il titolo classicheggiante, la suite non tradisce affatto il jazz, anche se appare musica quasi interamente scritta. C’è una interessante elaborazione del materiale tematico, presentato con variazioni di tempo e via via ripresentato in forma di leitmotiv. Ormai il grande talento di Martial Solal è ampiamente riconosciuto, ma ecco che in questo periodo egli inizia a darne prova anche in un altro settore, che di lì in poi rappresenterà sempre una parte cospicua della sua attività: la musica per film. Tra le decine di colonne sonore da lui preparate, almeno tre (tutte per film che hanno l’attore Jean-Paul Belmondo quale protagonista, anche se di tre registi diversi) si distinguono per la loro importanza. Innanzitutto, quella di À bout de souffle, il film che fece di Jean-Luc Godard, nel 1959, il capofila della Nouvelle Vague del cinema francese. Qui alla propria musica Solal unisce due opere di Mozart: il concerto per clarinetto e orchestra KV 622 e la celeberrima Sinfonia KV 550.
Nel 1961 ecco poi la musica per il delicato Léon Morin, prêtre di Jean-Pierre Melville, il grande regista che, due anni prima, aveva personalmente suggerito a Godard di impiegare il pur inesperto pianista per la colonna sonora di À bout de souffle. Infine, nel 1964, un film di Jean Becker, Échappement libre. In qualche caso Solal impiega per queste colonne sonore dei jazzisti di valore, come il trombettista Clark Terry per Si le vent te fait peur. La Columbia, che pubblica puntualmente questa musica per film, fa incidere a Solal nel 1960 e nel 1962 importanti brani sia con orchestra sia con il nuovo trio, che ha Guy Pedersen al basso e il sempre più sensazionale Humair alla batteria.
Altra tappa fondamentale nel 1963: Martial Solal per la prima volta è di fronte a un pubblico americano. Dopo una permanenza di dieci settimane all’Hickory House di New York, in una domenica di luglio appare addirittura al Festival di Newport, in compagnia di Teddy Kotick, disciplinato bassista che anche Charlie Parker aveva utilizzato spesso, e di Paul Motian, il batterista di gran classe che aveva inciso stupendi brani con Bill Evans ma che soltanto molti anni dopo avrebbe avuto, con Keith Jarrett e in proprio, i meritati riconoscimenti. Il successo, nel più grande e dispersivo festival americano, è netto, nonostante la brevità dell’apparizione. Tanto che di lì a pochi giorni il trio è invitato a incidere negli studi della Victor, e per giustificare il titolo del microsolco, «Martial Solal at Newport», rumori di applausi vengono aggiunti in post-produzione.
Di ritorno a Parigi, ritrovati i fedeli Daniel Humair e Guy Pedersen, Solal dà con loro in dicembre un grande concerto alla Salle Gaveau, registrato e pubblicato dalla Columbia e che trovate nel nostro cd. Nel 1965 però quella compatta formazione muterà radicalmente: troveremo allora il pianista accanto al bassista Gilbert Rovère e al batterista Charles Bellonzi. Singolari, tra le incisioni di quell’anno, un brano in cui Solal suona la celesta (Four Brothers) e altri in cui è all’organo, anche da solo (Balade pour mille pattes de percussion).
Anche i frequenti viaggi di Solal lasciano ampia traccia nelle sue incisioni, tra cui quelle in Polonia nel 1967 per la Muza e i due eccellenti microsolco realizzati a Roma, per la Campi, il 12 ottobre 1968, poco dopo la partecipazione al Festival di Bologna: accanto a Solal è uno dei più famosi altosassofonisti nella storia del jazz moderno, Lee Konitz. I ritmi sono assicurati da Henri Texier e Daniel Humair. Due dischi freschi, ricchi di ispirazione, con evidente spazio all’improvvisazione (i titoli: «European Episode» e «Impressive Rome»).
La fortunata collaborazione con Konitz non è casuale. Al Club Saint-Germain, quando vi era di casa, Solal aveva fatto da anfitrione a tutti i musicisti americani ospiti, da Clifford Brown a Bob Brookmeyer. Si era abituato a cercare questi incontri, ed era a sua volta stimato e richiestissimo. Nello stesso 1968, in gennaio, anche un pianista, il californiano Hampton Hawes, approdato in quei giorni a Parigi durante un suo lungo itinerario di meditazione, chiede di fare un disco con Solal: un duo pubblicato per la Byg. Infaticabile nel cercare nuovi sviluppi per la propria musica, a partire dal 1969 Solal rinnova radicalmente la struttura del suo trio. In luogo della tipica formula piano-contrabbasso-batteria vuole, accanto a sé, due bassisti: sono Gilbert Rovère e Jean-François Jenny-Clark. La scelta rivela la preoccupazione di Solal di assicurare alla propria espressione un sottofondo meno invadente di quello fornito dalla batteria (pur se altamente musicale quanto quella di Humair) e un più fitto intreccio melodico e armonico. Brani con questa formazione vennero editi dalla RCA sul disco «Sans tambour ni trompette».
Da lì in avanti Martial Solal ha tuttavia preferito, soprattutto nei concerti, la formula del pianoforte solo, come se la sua creatività non trovasse migliori accompagnatori della propria stessa tecnica, della fantasia. Eccellenti prove di questa completezza sono in due importantissimi dischi del 1975, «Nothing But Piano» per la MPS (inciso nello studio privato del proprietario della casa discografica tedesca, Hans Georg Brunner-Schwer, nella Foresta Nera, e pertanto sullo stesso pianoforte usato da Oscar Peterson per molti suoi dischi dell’epoca) e «Martial Solal Himself» per la PDU. In entrambi la meravigliosa maturità del pianista è brillantemente messa in evidenza. Altrettanto importante sarà, nel febbraio 1978, «Solosolal», sempre per la MPS. E va ricordato senz’altro il delizioso «Movability» del 1976, sotto etichetta MPS: ancora un duo, ma con quell’eccezionale bassista che è stato il danese Niels Pedersen. Nel 1978, ancora per la MPS, Solal ha poi dato al mondo quello che resta uno dei suoi dischi più belli: «Suite for Trio», di nuovo con Pedersen e con il vecchio amico Humair. Accanto al brano che dà il titolo all’intera raccolta, alcuni abituali cavalli di battaglia dei musicisti di jazz. E qui Solal mostra davvero di non dover temere alcun inevitabile confronto. Da segnalare infine il microsolco in cui, nel maggio 1979, Solal ritrova Lee Konitz: «Four Keys» (MPS). Accompagnati dall’ormai inseparabile Pedersen, ma con un chitarrista (John Scofield) là dove ci si sarebbe aspettati di trovare un batterista, i due solisti interpretano una serie di composizioni di Solal per ridarci un saggio di eleganza formale e di immaginazione.
Con opere come queste si completa l’affermazione di quello che può essere considerato il primo fra i pianisti jazz d’Europa e uno dei primissimi in assoluto. Definire il suo stile, così come si è venuto concretando e affinando negli anni, è ardua impresa: è anzi impossibile pretendere di trovare una matrice stilistica per un artista che abbia saputo mettere nel proprio arco le innumerevoli frecce di tutti gli stati d’animo, di tutte le possibili vicende umane, di tutte le facoltà della tecnica propria alla sua arte. In effetti la musica di Martial Solal è lontana anche da un qualsiasi modello, pur se partecipa al generale modo di pensare, di creare e di vivere che costituisce il jazz. Né in questa musica reperiamo un connotato, una caratteristica, una linea che possano essere definiti come costanti. Si tratta invece di un susseguirsi continuo di pennellate, come se la tavolozza fosse smisuratamente grande, forse infinita. È un intrecciarsi di arpeggi, di trilli, di dissonanze, di contrasti basso-acuto, di frasi ora lunghe, ora rapidamente troncate. E naturalmente anche il silenzio è assunto come quell’elemento musicale che i grandi artefici ben conoscono.
È poi molto significativo il fatto che un musicista di simile portata, un compositore che ha al suo attivo tanta musica (e che di nuova sembra saperne suscitare con quella facilità che si suole chiamare mozartiana), impieghi nei dischi e nei concerti una straordinaria quantità di temi altrui, notissimi, sfruttatissimi, quasi logori. E qui va detto che l’arte della parafrasi, cioè della ricostruzione dei temi specie nell’esposizione (una particolarità del jazz fin dalle sue origini e una delle chiavi del genio di un Louis Armstrong), assurge in Solal a vertici eccelsi. Nel suo cervello e nelle sue dita è un vorticare incessante di idee, di trovate, di audacie, talvolta di sorprendenti citazioni, un dono raro di sintesi, un adornare che anche quando si fa abbondante non scade mai nel rococò. Ed è sbalorditivo anche il modo in cui fino al giorno del suo ritiro dalle scene a ben 92 anni, Solal ha continuato ad affrontare, in entusiasmo e freschezza, l’ennesima ricca stagione della sua arte.
di Gian Mario Maletto