Steve Lacy: Phase One

A novant’anni dalla nascita e venti dalla morte del grande sopranista, passiamo al setaccio la prima fase – forse la meno nota – della sua carriera, fra i venti e i trent’anni

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Facevano davvero una bella coppia, Steve Lacy e il suo soprano: uno dritto come un fuso, per tutto il suo metro e ottanta circa; l’altro dritto… come un sax soprano, l’unico della famiglia delle «pipe» a somigliare piuttosto a un grosso sigaro. Steve lo teneva in avanti, lievemente discosto su un lato, e fra i due si veniva a creare un angolo pressoché fisso di trenta/quaranta gradi. A volte lo faceva ondeggiare, ruotare, quando si lanciava in quelle improvvisazioni circolari in cui era maestro e che rientrano nelle tante cose di cui ha fatto dono al jazz (suo) contemporaneo, senza mai fare troppi proclami, perché era fatto così, un gran signore, magari anche un po’ lunatico. Capitava che una volta ti trattasse con estrema cordialità e la volta dopo, magari, ti salutasse appena. Rientrava nel suo carattere: gentile, ma riservato. Ciò non toglie che, al di là dell’ammirazione per l’artista, non si potesse non volergli bene, nel suo insieme. E accogliere col dolore un po’ sgomento che si prova nel perdere un amico, o un parente, la notizia della sua morte, avvenuta il 4 giugno 2004, non ancora settantenne, visto che era nato – come Steven Norman Lackritz – a New York il 23 luglio 1934.

Noi europei, in realtà, avevamo già perso da quasi due anni la sua presenza familiare quanto assidua. Aveva soggiornato brevemente in Italia per poi stabilirsi a Parigi, dove ha vissuto per più di trent’anni, in rue du Temple (almeno lì eravamo andati a trovarlo nel 1982, accolti senza avergli dato alcun preavviso, né che ci fossimo già conosciuti prima). Da lì veniva a farci visita (a noi italiani, intendiamo) spesso e volentieri. Però l’ultima volta che l’abbiamo visto, nel 2001 a Siracusa, passando ancora qualche piacevole ora insieme (al di là del suo splendido concerto in solo), ci aveva preavvisato che il suo tempo in Europa stava per scadere: aveva avuto una cattedra al New England Conservatory di Boston e sarebbe partito (definitivamente) con l’inizio del successivo anno accademico, quindi settembre 2002. Ciò che non sapevamo è che non l’avremmo più rivisto, perché meno di due anni dopo un cancro ce l’avrebbe portato via senza appello. 

E allora ecco le due date – peraltro già fatte – che, dopo un troppo lungo girarci intorno ci hanno convinto che era il momento, improrogabile, per riparlare di lui: 23 luglio 1934, 4 giugno 2004, novant’anni e venti, due intervalli entro cui si è sdipanata l’esistenza di uno dei più originali, rigorosi e intelligenti musicisti che il jazz ci abbia fatto conoscere. Ponendoci due ulteriori paletti cronologici: settanta e sessant’anni, fra i suoi venti e i suoi trenta, perché di Steve Lacy molto si sa, ma di quello della maturità, mentre noi qui vogliamo soffermarci sui suoi anni giovanili, già per loro conto testimoni piuttosto emblematici di una curiosità creativa decisamente sopra la media. 

Ma parlavamo di monogamia strumentale. In realtà il primo strumento di Steve Lacy è stato il clarinetto. La conversione in favore del sax soprano avviene verso i sedici anni. «Si è trattato di una questione di amore», ci ha detto il diretto interessato nel corso di una lunga chiacchierata post-concerto nel 1988, da cui provengono anche tutti gli altri virgolettati inseriti lungo il testo. «Io sono stato folgorato da questo suono e me ne sono innamorato grazie a Sidney Bechet. Sul soprano tutto era molto più aperto, questa almeno è stata la mia impressione all’epoca. Un grosso vantaggio, perché mi sentivo più libero di esprimermi, senza condizionamenti. In realtà c’è anche il rovescio della medaglia: senza una guida, dovevo essere io ad aprire la strada. E magari essere giudicato pazzo per aver scelto uno strumento così strano. All’inizio, in realtà, non me ne sono reso conto. Ero un po’ matto, un po’ incosciente. Ma dopo, una volta abbracciata la causa del nuovo jazz, ho realizzato questa assenza di guide e modelli e ho iniziato a preoccuparmi».

Questo dunque è un passaggio che anche noi affronteremo più avanti. Qui dobbiamo partire dai primi passi di Steve Lacy nel jazz tradizionale, appunto sul modello-Bechet. Le sue biografie parlano, nei primi anni Cinquanta, di frequentazioni con i vari Henry Red Allen, Pee Wee Russell, Pops Foster, Zutty Singleton, Buck Clayton, Dicky Wells, Jimmy Rushing. E Dick Sutton, un trombettista di sei anni maggiore di lui, che risulta aver inciso due soli album, entrambi nel 1954, «Jazz Idiom» e «Progressive Dixieland», riuniti nel 1986, con tanto di alternate takes, nel doppio lp «Avalon – The Complete Jaguar Sessions» (altre ristampe, anche più ampie sul piano cronologico, sono uscite nel corso degli anni), ovviamente a nome di Lacy, che compare nel sestetto protagonista delle incisioni (è invece del 2004 il doppio cd della Fresh Sounds «Early Years: 1954-1956», che riunisce questo materiale con quello di cui parleremo fra un attimo). Il clima è in tutto e per tutto quello che ci si può aspettare. E il suono del soprano contiene già in nuce le stimmate del Lacy a venire: un suono allusivo, leggermente nasale ma netto, luminoso, pulitissimo.

Unicamente come sopranista, Lacy torna in studio nel febbraio 1956 per incidere dieci matrici col quintetto/sestetto del flicornista tenore Tom Stewart (con Herbie Mann, Dave McKenna, Joe Puma e Al Levitt fra gli altri), giocandovi un ruolo assolutamente centrale, ora esponendo il tema in prima persona (come in Rosetta e Gee Baby Ain’t I Good to You) e ponendosi comunque sullo stesso piano del leader come solista principe, compiendo un ulteriore passo in avanti nel definire un’identità già sorprendentemente matura e riconoscibile anche per chi avesse sentito solo il Lacy della maturità. Colpisce il progredire olimpico, lieve, come a pelo d’acqua, la stringente coerenza intestina di ogni frase, ogni nota. Un artista nato adulto, come si suol dire in questi casi. 

Steve Lacy
Steve Lacy, George Lewis, Misha Mengelberg. Milano, 2 o 3 luglio 1984, Piazza Gian Lorenzo Bernini

Pur ancora con reminiscenze trad, del resto, si respira in questo corpus di incisioni una chiara aria cool-californiana, tipica dell’epoca (e anche di vari musicisti del gruppo), il che si coglie forse con ancor maggiore evidenza nei dieci brani incisi di lì a due mesi (13 e 23 aprile) dal sestetto di Whitey Mitchell, del resto arrangiati da Neal Hefti. Mitchell, fratello minore del più noto Red, come lui contrabbassista, figurava peraltro anche nei pezzi di febbraio, e a lui, abbastanza curiosamente, è in effetti assegnata la paternità dell’intero pacchetto che, completato da due brani (particolarmente swinganti) del sestetto di Joe Puma datati 13 giugno 1956, compare nel cd edito nel 2011 su American Jazz Classics col titolo «The Complete Whitey Mitchell Sessions», anch’esso, ovviamente, a nome di Lacy. Mann (al tenore), Tom Stewart, e poi Don Stratton alla tromba e Gus o Osie Johnson alla batteria sono fra gli altri musicisti presenti alla spicciolata in questo ulteriore corpus di brani. Lacy, per parte sua, brilla ovunque di una luce tutta sua.

Nello stesso periodo Steve opera un triplo salto mortale senza rete e s’immerge nella musica di Cecil Taylor, magari non ancora quello sfacciato e iconoclasta di qualche anno dopo, ma insomma: col quartetto del pianista free per eccellenza, partecipa infatti a una seduta d’incisione bostoniana in un primo tempo datata 14 settembre 1956 (quindi tre mesi dopo i due pezzi con Joe Puma), ma in seguito anticipata al 10 dicembre precedente, quindi a cavallo dei due gruppi di incisioni di cui ci siamo appena occupati. Il dettaglio non è di poco conto, ma è ancora il diretto interessato a venirci in soccorso: «In realtà il mio primo contatto con Cecil Taylor e la sua musica risale al 1953. È stato come esser preso per la collottola e gettato in mare aperto. Fantastico, comunque. Cecil mi ha salvato, perché mi ero perso in mezzo alle antichità. Io non sapevo nulla, ero ignorante, mi ero lasciato affascinare dai classici. Non mi ero sbagliato, sia chiaro, perché tuttora amo i classici e ne subisco il fascino. Però non era quella la strada su cui potevo trovare me stesso».

La seduta bostoniana, confluita in «Jazz Advance» (Transition), consta di sette brani, un piano solo, quattro trii senza Lacy e due quartetti. Ad aprire le danze è Bemsha Swing di Monk, ed è singolare, alla luce di quanto diremo a breve, che il soprano non vi compaia, entrando subito dopo in Charge ‘Em Blues, primo dei tre temi di Taylor presenti, peraltro ancora alquanto prudente, come accennato. Più libero, paradossalmente, con qualche accenno di cluster, il successivo Azure di Duke Ellington, ancora in trio, mentre Lacy rientra per l’ultima volta nel secondo tema tayloriano, il brioso, squillante (proprio nella parte del soprano, che lo apre e poi vi plana sopra a intermittenza, alternandosi al piano, che ha ancora periodiche aperture già di un certo ardimento) Song. Fraseologicamente, il lavoro di Lacy non si scosta troppo da quanto proposto nelle coeve sedute newyorchesi: fresco, solare, abilissimo nel navigare sopra il lavoro della ritmica.

Lo stesso quartetto, completato da Buell Neidlinger al basso e Dennis Charles alla batteria, il 6 luglio 1957 inciderà tre brani live al festival di Newport confluiti – appunto – in «At Newport» (Verve), coperto per la seconda metà dal quintetto di Gigi Gryce e Donald Byrd. Apre Johnny Come Lately di Billy Strayhorn, tema carissimo a Lacy (quasi trent’anni dopo lo sceglierà per aprire il notevole «Sempre Amore», in duo con Mal Waldron), che lo percorre con la luminosità propria del suo soprano, appena più cogitabondo negli altri due brani, entrambi di Taylor, Nona’s Blues e Tune 2, sfoggiando ovunque una crescente sicurezza e fluidità di fraseggio, sempre su un terreno di passaggio verso ciò che verrà.          

Altro iconoclasta del jazz dell’epoca (e da ben più tempo di Taylor, anche fisiologicamente in virtù dei molti anni di differenza), non poteva mancare dalla collezione lacyana uno come Thelonious Monk, al cui proposito il sopranista ci ha detto: «Era famoso per essere enigmatico. Sì, è vero: era misterioso, come il titolo di uno dei suoi brani più noti, era fatto a sfera, come il suo secondo nome, impenetrabile, inattaccabile. La realtà è che taceva sempre con chi lo annoiava, chi faceva discorsi insulsi, inutili, ed evidentemente erano in molti, ma con noi musicisti era aperto, chiaro, trasparente. Con me parlava molto. Anche Coltrane diceva la stessa cosa: dipendeva da chi gli stava di fronte».

A Monk Lacy dedicherà una bella costola della sua carriera successiva, alla sua musica, rimuginata per decenni, da solo o con altri, come già avremo modo di vedere in queste pagine. E Monk è il trait d’union fra Steve e Coltrane, appena citato. L’adozione del soprano da parte del genio di Hamlet si deve proprio a un incontro fra i due (via Giuffre, sempre parlando di giganti). «John mi ha sentito suonare con Jimmy Giuffre, con cui ho lavorato per qualche settimana nel 1960. Era il mio trio, con Buell Neidlinger al contrabbasso e Dennis Charles, prima, e Billy Osborne poi, alla batteria, ma in quel caso era Giuffre il vero leader. A New York era rimasto fortemente impressionato dal nuovo jazz, soprattutto da Sonny Rollins: lo ha sentito ed è come se fosse caduto per terra. A quel punto voleva cambiare completamente la sua musica. Mi ha sentito col mio trio e ha pensato che quello fosse il veicolo giusto per trovare la sua nuova via. Ma sbagliava, perché la cosa non funzionava bene: non c’era un buon assortimento. Così dopo qualche settimana abbiamo smesso. Lui si è preso Buell e Osborne, ha inserito Jim Hall e ha proseguito per la sua strada. È allora che mi hanno ascoltato Coltrane e Monk. Dopo il concerto, John mi ha chiesto candidamente: “In che tonalità è il sax soprano?”. “In Si bemolle”, gli ho risposto. Lui è rimasto stupito. Non sapeva che il soprano fosse nella stessa tonalità del suo tenore, solo un’ottava sopra. Ha subito capito che era lo strumento che gli serviva per andare più in alto, sulla luna, come desiderava. Col tenore poteva salire fino in cielo, ma non sulla luna! Per quello aveva bisogno del soprano. Due settimane più tardi era già a Chicago a suonarlo. Una sera mi telefona Don Cherry e mi dice: “Sono in un locale di Chicago, ascolta qui…”. Stacca la cornetta da sé, e io sento per la prima volta Coltrane al soprano, in diretta da Chicago a New York! Una sorpresa incredibile: era il primo che suonava la nuova musica sul soprano dopo di me!».

Steve Lacy e Mal Waldron

Il discorso, con i suoi vari agganci, ci ha portato un po’ troppo lontano: recuperiamo le tappe intermedie. Partendo da un altro guru del jazz moderno: Gil Evans. Col musicista canadese Steve Lacy entra una prima volta in sala d’incisione fra il 6 settembre e il 10 ottobre 1957 per tre sedute (quella centrale data 27 settembre) che producono i sette brani destinati all’album «Gil Evans & Ten» (Prestige), dove emerge con estrema chiarezza la lucidità con cui il sopranista è ormai in grado di cavalcare situazioni anche molto diverse fra loro come può esserlo, rispetto al recente passato, un organico di undici elementi (con otto fiati, inclusi corno francese, fagotto e trombone basso, marchio di fabbrica del vocabolario gilevansiano, con le sue morbide nuvole sonore, e Lee Konitz al sax alto), e ciò in tutti e tre i brani della prima facciata, Remember, Ella Speed e Big Stuff e ancora, sul retro, in Just One of Those Things e in Jambangle, unico tema evansiano in scaletta.

Il 1° novembre dello stesso anno, Lacy entra poi in studio per incidere per la prima volta a suo nome. Il disco s’intitola – guarda un po’ – «Soprano Today» (o «Soprano Sax», Prestige / New Jazz) e lo vede alla testa di un classico quartetto con Wynton Kelly al piano e i citati Buell Neidlinger e Dennis Charles. Sei, qui, i brani, nessuno del sopranista, ma due di Ellington e uno di Monk (Work). Il tono è ancora prudente, fin dall’iniziale Day Dream, che conferma la levità, la souplesse (che del resto mai lo abbandonerà) che il Lacy dell’epoca predilige. Più oltre si staccano tempi più mossi (proprio Work, per esempio, e Rockin’In Rhythm, non di meno, con un Charles a tratti «latineggiante», carattere che investe ancor più Little Girl, Your Daddy Is Calling You), ma la sostanza non cambia. 

Con Mal Waldron ed Elvin Jones per Kelly e Charles, poco meno di un anno dopo, il 18 ottobre 1958, Lacy torna in studio per un’opera decisiva sul suo iter creativo: «Reflections» (New Jazz), suo primo album monografico, guarda caso dedicato al songbook di Thelonious Monk. Gli arzigogoli, la circolarità di fraseggio, con meno aplomb e più corporeità (sempre parlando dell’olimpico Steve Lacy), già dell’iniziale Four in One rivelano come ben più di un anno, sul piano evolutivo, sia trascorso da «Soprano Today», nel segno di una maturità che la profondità con cui il soprano percorre Reflections, uno dei temi-totem di Monk, non a caso ripreso ripetutamente, nei decenni a venire (spesso in solo, come si sa), conferma eloquentemente. Bye-Ya, altro pezzo da novanta, con un Waldron spinto su fondali seducenti e, forse, inesplorati (quanto il pianista conterà del resto nel futuro di Lacy è noto), Let’s Call This, instradato su terreni analoghi a Four in One, e il baluginante, dinoccolato Ask Me Now, quasi una ninna nanna presa di sghimbescio, rappresentano le altre vette di un’opera esemplare.

Pochi mesi dopo, all’inizio del 1959, Steve Lacy torna in studio con Gil Evans (col ritorno di Bill Barber alla tuba, assente in «Plus Ten»), per fissare i sette brani destinati a «Great Jazz Standards» (World Pacific), incluso un nuovo episodio monkiano, Straight, No Chaser, secondo in scaletta, non a caso uno degli unici due (l’altro è Django di John Lewis) in cui il sopranista esce in assolo, nello specifico con significative riprese tematiche. Passeranno quasi due anni prima che il Nostro rimetta piede in studio, stavolta per incidere, il 19 novembre 1960, «The Straight Horn of Steve Lacy» (Candid), alla testa di un singolare quartetto in cui figura un secondo sassofono, agli antipodi rispetto al soprano, il baritono di Charles Davis, più John Ore al basso e Roy Haynes alla batteria. Sei i brani, nessuno di Lacy, e invece tre di Monk e due di Cecil Taylor (sempre quello ancora interlocutorio), più Donna Lee di Charlie Parker. Il linguaggio non appare particolarmente spinto, e il brano più spericolato, non foss’altro che per la staccatura, ovviamente velocissima, è proprio Donna Lee, mentre è ovviamente molto godibile l’intreccio fra i due sassofoni negli obbligati (peraltro entrambi, specie Lacy, con qualche problemino di ancia).

Il 1961 si apre (10 gennaio) con una fugace apparizione, curiosamente sempre accanto a Charles Davis, nel disco intestato a Cecil Taylor e Buell Neidlinger «New York City R&B», in seno all’ottetto, completato da Archie Shepp, Clark Terry, Roswell Rudd e Billy Higgins, che incide l’ellingtoniano Things Ain’t What They Used To Be. Lacy vi incastona un breve intervento giocato curiosamente sui sovracuti (non erano ancora i tempi, neanche per lui). L’anno si chiude poi con uno dei capisaldi della discografia lacyana (certamente di quella giovanile), vale a dire «Evidence» (New Jazz), in coppia col trombettista del momento, almeno in ambito avantgarde, cioè Don Cherry. L’album, inciso il 1° novembre (come già quattro anni prima «Soprano Today») con Carl Brown al basso e Billy Higgins alla batteria, comprende sei brani, quattro del solito Monk (a partire da quello che lo intitola) e uno a testa di Ellington e del suo braccio destro Billy Strayhorn.

Prima di entrare nel merito del disco, vogliamo però fare un po’ d’ordine rispetto a quanto detto su Giuffre, Coltrane e lo stesso Cherry nel loro intersecarsi con Lacy. Dunque: l’album della svolta «rollinsiana» di Giuffre è «In Person», inciso dal vivo al Five Spot nell’agosto 1960, appunto con Buell Neidlinger, Billy Osborne (a detta di Lacy «carpitigli» dal collega) e Jim Hall; My Favorite Things, nel disco omonimo, primo esempio noto di Coltrane al soprano, data 21 ottobre 1960 (in realtà ne esiste una versione live già del 24 settembre a Monterey, documentata); pochi mesi prima, fra giugno e luglio, Coltrane e Cherry incidevano «The Avant-Garde», dal che si deduce che la scrittura di Lacy con Giuffre («qualche settimana», diceva il sopranista), allorché Coltrane e Monk lo ascoltano dal vivo, dovrebbe collocarsi tra fine primavera ed estate 1960. All’epoca il legame con Don Cherry, sfociato l’anno dopo in «Evidence», è evidentemente già in atto.

Ma eccoci appunto al disco in oggetto, il cui organico pianoless e la presenza di Cherry (e Higgins) non possono non rimandare al quartetto colemaniano. In realtà, come detto, i temi sono di altri autori e anche il tono è assai diverso. C’è, è vero, una bella souplesse «attiva», però ben più verticale (se vogliamo diagonale) rispetto a quella ornettiana, molto più orizzontale. C’è molto Monk, quindi, al di là del clima anche improvvisativo che le sue linee tematiche instillano nei musicisti, ma proprio come adesione estetica globale, quella che Lacy ha fatto sua da tempo e che Cherry, col suo procedere per così dire di sghimbescio (peraltro qui meno che altrove), fa sua senza fatica. Si ascolti proprio Evidence, ma anche un tema poco trafficato come San Francisco Holiday, e si capirà cosa intendiamo dire. Lacy non è Ornette: il suo aplomb è sostanzialmente altro, più acuminato, ossuto, anche perché un dato lirismo che lo riguarderà soprattutto a partire dagli anni Ottanta è ancora in fase di gestazione (una gestazione che lo sperimentalismo anche piuttosto spinto abbracciato a partire da «The Forest and the Zoo», del 1966, e poi nel decennio seguente, tenderanno ad allungare non poco). Paradossalmente, il momento più ornettiano del disco arriva nel conclusivo Who Knows (di Monk), staccatura decisa ma tematismo alquanto idoneo alla bisogna (e Cherry ci mette del suo).  

Nel 1962 Lacy prende parte, nell’orchestra di Gil Evans, a «Quiet Nights» (Columbia), com’è noto tutto nel segno della tromba di Miles Davis, dopo di che, nel marzo 1963, è al Phase Two Coffee House accanto a un altro musicista spesso suo dirimpettaio anche in futuro (per esempio intorno a un altro outsider di lusso, Herbie Nichols, studiato assiduamente fin da questi anni), Roswell Rudd, signore del trombone, più Henry Grimes al basso e ancora Dennis Charles alla batteria, per quello che sarà il suo secondo only Monk. Il futuro è d’obbligo, visto che l’album, «School Days», vedrà la luce solo nel 1975 grazie alla Emanem. Vi trovano spazio (più ampio dei precedenti: 54’ 37”) sette fra le più alte pagine monkiane, nell’ordine Bye-Ya, Brilliant Corners, Monk’s Dream, Monk’s Mood, Ba-Lue Bolivar Ba-Lues-Are, Skippy e Pannonica. L’impasto soprano/trombone è felicissimo (anche per le differenze fra i due musicisti, con Lacy che tenta già qualche azzardo fuori cavata regolare, per esempio in Brilliant Corners). Scegliere fra tutte queste prelibatezze sarebbe un’eresia. Semplicemente un capolavoro, un deciso salto in avanti verso una maturità che pare ormai improrogabile.

A fine anno (30 dicembre) il cordone ombelicale infine si salda: Steve Lacy è nell’orchestra che incide «Big Band and Quartet in Concert» (Columbia) di sua maestà in persona, l’ineffabile Thelonious. Fra edizione originale in vinile e successiva integrale in doppio cd (oltre un’ora e tre quarti di musica), sono molte le gemme del songbook monkiano affrontate, da Bye-Ya a I Mean You, Evidence ed Epistrophy, Misterioso e Four in One… Però i solisti chiamati al centro del proscenio sono altri (specificatamente Thad Jones e i membri del quartetto) e Steve se ne sta tranquillo in sezione, ogni tanto anche avvertibile (per esempio in Four in One e nell’ultima ripresa di Epistrophy). Il suo soprano è invece in bella evidenza in una rimpatriata di pochi mesi dopo, a cavallo tra aprile e maggio 1964, in grembo alla grande madre trad, per un omaggio a Louis Armstrong da parte del settetto di Bobby Hackett («Hello Louis!», Epic).

Bisogna dunque approdare a un nuovo rendez-vous con Gil Evans per esaurire il nostro itinerario, visto che le tre sedute d’incisione che generano l’album in questione, il nodale «The Individualism of Gil Evans» (Verve), si chiudono il 9 luglio 1964, due sole settimane prima che Steve Lacy compia trent’anni (le altre due sessions risalgono al settembre 1963 e al 6 aprile 1964). Andrà precisato che la versione in cd dell’album, lunga oltre 68 minuti laddove il 33 giri originario durava la metà, include cinque brani senza Lacy, che compare quindi nell’iniziale Barbara Song targata Brecht/Weill, dai magnifici colori pastello così cari a (e qualificanti di) Evans (con flauti e corni sugli scudi e assolo centrale affidato al tenore di Wayne Shorter), il quale Evans firma i tre episodi successivi, nell’ordine Las Vegas Tango, sempre con i suoi colori e quell’inflessione spagnoleggiante che ha solcato non di rado la sua musica, il dittico Flute Song/Hotel Me (quest’ultimo in realtà firmato in coppia con Miles Davis), incline a dinamiche più accese, e El Toreador, con la tromba di Johnny Coles al centro delle operazioni. Oltre a Shorter e Coles, fra i musicisti coinvolti figurano Frank Rehak, Julius Watkins, Bill Barber, Jimmy Cleveland, Eric Dolphy, Jerome Richardson, Kenny Burrell, Gary Peacock, Richard Davis, Milt Hinton ed Elvin Jones, pur tenendo sempre conto che questa è musica essenzialmente (quasi statutariamente, vien da dire) corale, nelle cui pieghe si insinua anche il soprano di Lacy, senza peraltro mai uscire allo scoperto. Cosa che gli accadrà copiosamente in un futuro assai prossimo, visto che sono in arrivo la Jazz Composer’s Orchestra, e poi Roma, Milano, Buenos Aires, e finalmente Parigi. Tutta un’altra storia, già, che magari racconteremo la prossima volta.

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