Tony Coe e la Pantera Rosa: un racconto di Canterbury

Fu Plas Johnson il primo sassofonista a vedersela col famoso tema, ma da lì in avanti toccherà al britannico lasciare il suo marchio sugli altri film della serie. Però Coe ha fatto molto altro

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Se la giocano alla pari da circa sessant’anni e nessuno la spunta. Su questo non c’è dubbio. I tre temi più memorabili del cinema di genere, spionaggio/poliziesco/avventuroso, The James Bond Theme, Mission: Impossible Theme e The Pink Panther Theme, figli rispettivamente di Monty Norman, Lalo Schifrin e Henry Mancini, ancora oggi sono alle prese con un contorsionistico duello senza che nessuno riesca a spuntarla una volta per tutte. Affondano, parano, colpiscono senza mai affondare il colpo decisivo. Le cose vanno diversamente rispetto ai personaggi di quelle storie, che vedono un vincitore a tutti gli effetti: Bond. Lui ha indubbiamente la meglio su Clouseau e sul team della IMF, grazie ai crediti ancora non spesi del tutto della bondmania nei Sessanta. Quanto ai compositori, curiosamente dei tre è proprio Norman a godere di minor fama. 

Invece, tornando a quei magnifici temi, tra di loro è pari e patta: bastano pochi secondi per riconoscerli, cosicché la partita è ancora aperta. Sono tre veri e propri inni cuciti addosso ai protagonisti, spaccone e un pizzico trionfalistico Bond, adrenalinico quanto occorre alle missioni impossibili il secondo, e l’ultimo sornione, felpato, a tempo con il passo dell’omonimo felino protagonista dell’animazione. Caso unico nella storia del cinema, il cartone animato diventerà una serie a sé stante, un sequel parallelo, per così dire, radicandosi a modo suo nell’immaginario. Inoltre, per chiudere i conti, l’agente segreto sovrasta tuttora gli altri anche sul fronte delle cover, prodotte in quantità industriale nell’era conneryana, ma non tutti sono dello stesso avviso nel compilare la loro lista delle preferenze. 

Il britannico Tony Coe, suddito meno fedele di Sua Maestà, preferiva per esempio le movenze flessuose nate da quel gioco mirabile sugli intervalli che Mancini aveva messo a punto per la pantera più ricercata del mondo. Coe considerava Enrico Nicola Mancini, in arte Henry, di dieci anni più grande di lui, uno degli ultimi grandi autori di canzoni e d’altra parte dalla penna del compositore italo-americano – come dimostra il nostro cd di questo mese – sono nati brani memorabili. L’incontro musicale tra i due avvenne in occasione del terzo episodio della serie ufficiale, The Return of the Pink Panther (1975), da noi intitolato La pantera Rosa colpisce ancora, dopo un secondo atto che curiosamente non faceva uso del tema ma ne sfoggiava uno apposito, altrettanto efficace, dal medesimo titolo del film: A Shot in the Dark (Uno sparo nel buio,1964). Si registrò nel Regno Unito per risparmiare quattrini e problemi sindacali, e tra gli effetti collaterali si ottenne quel fruttuoso sodalizio. Coe subentrò a Plas Johnson, esecutore di The Pink Panther Theme nel primo episodio, La pantera rosa del 1963, e da allora il britannico iniziò a prendere parte alla festa ricomparendo in The Pink Panther Strikes Again (La Pantera Rosa sfida l’ispettore Clouseau, 1976) e in The Revenge of the Pink Panther (La vendetta della Pantera Rosa, 1978).

A suggello della stima nutrita nei confronti dell’uomo di Cleveland, Ohio, arrivò nel 1985 «Mainly Mancini», un bonbon della misura di dodici pollici confezionato assieme al pianista Tony Hymas e al contrabbassista Chris Lawrence. Le sedute si tennero a Chantenay-Villedieu il tre e quattro di agosto del 1985 e furono registrati sette brani, cinque a firma Mancini e due siglati Coe. Il dischetto uscì per la chabada, l’etichetta sorella della nato, le due creature inventate da Jean Rochard (si veda MJ, luglio 2020) e battezzate con i nomi dei suoi gatti per dar vita a un catalogo esilarante, stupefacente, regno dell’immaginazione al potere, tuttora in vita ma che disgraziatamente conta più dischi fuori produzione che titoli disponibili. Una sorte condivisa anche dall’album manciniano di Coe, inclusa la ristampa su cd uscita nel 1991 con copertina differente. Le convergenze parallele tra le due etichette davano ugual risalto e valore a lavori all’ascolto più impegnativi e altri più rilassanti, di ricerca e di intrattenimento, seguendo il principio dei vasi comunicanti, scambiandosi soluzioni di presa immediata e invenzioni azzardate. A giocare sui due tavoli c’erano quasi sempre gli stessi musicisti, un’altalena sulla quale salì anche Coe ottenendo grandi risultati. Non è azzardato dire che quella fu la stagione migliore della sua lunga carriera. Un decennio lungo il quale fiorirono delizie d’ogni genere, ma prima di curiosarci per bene sarà opportuno qualche cenno sugli anni precedenti. 

Nato nel 1934 a Canterbury e talento precoce, Coe prese confidenza con la musica suonando il clarinetto a partire dei quattordici anni, e gli riuscì così bene che fin dalla metà degli anni Cinquanta poté darsi da fare come sideman nelle migliori orchestre britanniche. Nei primi anni Sessanta iniziò ad alternare al clarinetto il sassofono tenore, lavorando in particolare nella band di Humphrey Lyttelton. Lo certifica il primo disco a suo nome, o meglio intestato al Tony Coe Quintet: «Swingin’ Till The Girls Come Home» pubblicato nel 1962, album a tutto swing. Contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere da un simile percorso di formazione, si cimentò poi in un secondo album ricco di atmosfere sensuali, di suoni carezzevoli, paesaggi notturni, complice la presenza di un quartetto d’archi, il Lansdowne String Quartet. Intitolato «Tony’s Basement» (1967), il disco si ritrovò pubblicato in Germania con altro titolo, frutto di una scelta piuttosto bizzarra: «Sax on Sex». L’edizione manteneva della copertina originale il sassofono tenore, solo che non lo imbracciava Coe ma una fanciulla in posa, per così dire estatica…

Già ai tempi, Coe curiosava fuori dai confini dello Swing e del bop, tant’è che lo si ritrova a collaborare con il gruppo da camera Matrix creato all’alba dei Settanta dal clarinettista e direttore d’orchestra Alan Hacker, alle prese in particolar modo con il prediletto Mozart ma spingendosi fino al rognoso contemporaneo Harrison Birtwistle. L’ensemble schierava tre ance, tastiere, percussioni e voce, e uno dei tre fiati fu Coe fino a quando non ricevette da Mancini la proposta di suonare per l’ineffabile pantera.

Il suo impegno da orchestrale nel frattempo proseguiva. Nel biennio 1967-68 si esibì regolarmente con la John Dankworth Band, aprendo i Settanta da solista in un’altra orchestra, quella diretta da Robert Farnon, dove si mise in luce in un album che cercava consenso con una scaletta tutta a base di successi pop del momento, da Yesterday a Mr. Robinson. Se ne andò in giro in Europa con la Clarke-Boland Big Band fino al 1972, e a quell’elegante orchestra resterà legato nel tempo. Alla fine si conteranno oltre venti album con il suo contributo. Al disco con Farnon ne fece seguito un altro registrato al Ronnie Scott assieme al trio del pianista Brian Lemon. La ritmica era formata da Dave Green al contrabbasso e Phil Seaman alla batteria. Anche Green arrivava dalla band di Lyttelton e aveva già suonato con Coe in occasione della registrazione di «Black Marigolds» (1966), album di un altro giovane talento inglese, Michael Garrick. Tra i brani eseguiti in quelle due serate del gennaio 1971 ne comparivano due scritti dallo stesso Coe, Aristotle Blues e Some Other Autumn. Quest’ultimo resterà per sempre nel suo repertorio e diventerà, oltre vent’anni dopo, il titolo della ristampa su cd, che includeva gli altri brani rimasti esclusi dal vinile originale. Tutto sommato una sorte migliore di quella toccata a «Tony’s Basement». 

In seguito Coe si fece coinvolgere dai Nucleus di Ian Carr partecipando a «Labyrinth» (1973) e nello stesso anno dai canterburyani Caravan per «For Girls Who Grow Plump in the Night», l’album che conteneva il ben noto omaggio a Lovecraft. Poi fu tirato dentro in molto altro ancora, ma nulla avrebbe lasciato immaginare i suoi due fondamentali lavori successivi: «Zeitgeist» (1977) e «Time» (1979), cui vanno aggiunte le registrazioni del 18 giugno 1978 assieme al pianista statunitense Roger Kellaway ma pubblicate soltanto nel 2000 con il titolo «British-American Blue». 

Coe compose Zeitgeist con il sostegno dell’Arts Council e lo registrò per la EMI, dicendo la sua sull’abbattimento delle frontiere musicali, cimento al quale nessuno si era sottratto in quel decennio tra i protagonisti della scena jazzistica britannica, da Keith Tippett a Neil Ardley, da Mike Westbrook a Chris McGregor, senza dimenticare Barry Guy, Michael Gibbs e Kenny Wheeler. E il Nostro non fu da meno. Diviso in due parti (Part 1 e Conclusion), «Zeitgeist» è un lavoro, su testi di Jill Robin, che intreccia atmosfere prese a prestito dalla musica colta novecentesca (il tutto è dedicato ad Alban Berg) con riff spudoratamente rock e ariose movenze dei fiati. A sorprendere ancor di più arrivò la tela astratta cucita assieme a Derek Bailey nel loro incontro ravvicinato dell’aprile 1979. Nessuno dei due rinunciò alle sue convinzioni, mettendo in musica l’ossimoro delle convergenze parallele. Sulla stessa lunghezza d’onda si collocò il confronto con Kellaway (che poi, tra le mille cose della sua carriera, lavorò anche con Mancini), puntando maggiormente alla ricerca di una via poetica all’improvvisazione. Dalle parti della free improvisation lo si ritroverà qualche anno dopo in compagnia di Tony Oxley e Lawrence al festival di Willisau, performance documentata nell’album «Nutty on Willisau» (1984). E tornò a un approccio più strutturato, composto da solide melodie e accenti bop, in un disco con un altro pianista, John Horler, «Coe-Existence» (1978), inizio di una lunga partnership. 

All’alba degli Ottanta Coe si presentò più che maturo, a proprio agio con lo swing, il bebop e la libera improvvisazione più radicale, abile compositore di brani e fine arrangiatore. Pronto insomma per darsi alla pazza gioia con i gattini di Rochard. Si disperò non poco, il francese, per contattarlo; ma una volta che lo ebbe trovato, l’intesa fu immediata. L’impresa più celebre è quella dei Melody Four, che per la verità attirava Coe più per la sua (molto) presunta valenza commerciale che per i risultati, ma a sentirlo suonare assieme agli altri due non si direbbe affatto. Coe, Coxhill e Beresford scorrazzavano tra temi di film, sigle televisive, standard super-evergreen e personali invenzioni. La storia andò avanti per un lustro abbondante (discograficamente parlando), e nella summa delle loro imprese i due volumi di «Shopping for Melodies» (1988), non risparmiarono niente e nessuno, incluso Mancini del quale furono riprese altre musiche da film, Arabesque e Touch of Evil, ma nel mucchio finì anche Mission Impossible di Lalo Schifrin. 

Ottobre 1970. Milano: Tony Coe © Mario Gollesi

La discografia di Coe per le due etichette transalpine è ricca e variegata: comprende dischi a suo nome, talvolta registrazioni di concerti tenuti per il festival di Chantenay-Villedieu, come nel caso di «Le Chat Se Retourne» (1984), rimpatriata con Alan Hacker stavolta anche come arrangiatore (una deliziosa versione della Marche Funèbre d’une Marionette di Gounod), e lavori di studio come il precedente «Tournée du Chat». Scrisse alcune colonne sonore che andarono a dar man forte alla terza label di Rochard, Cinénato, e formò un secondo gruppo, i Lonely Bears, orientati a declinare assieme fusion, rock e jazz in tre album omogenei per risultati. Ne facevano parte il pianista Tony Hymas, tra i pochi a frequentare ancora oggi casa Rochard, Hugh Burns alla chitarra e Terry Bozzio alla batteria. Suoni spesso muscolari, tiratissimi, frenetici, non sempre ideali per mettere Coe a proprio agio in alcune occasioni. A salvare il tutto la grande energia profusa, sempre assai trascinante. Assieme a Hymas e Lawence, ovvero il trio che diede vita a «Mainly Mancini», Coe realizzò un appassionato quanto delicato lavoro incentrato sulla forma-ballad, «Les Sources Bleues», e ci infilò anche Camomille, seducente brano scritto per l’omonimo film di Mehdi Charef. Sarebbe dovuta uscire l’intera colonna sonora scritta da lui ma non venne mai pubblicata. Nel complesso, quasi un’edizione più intima di un altro disco realizzato fuori dal recinto nato/chabada, ovvero «Canterbury Song», registrato in quintetto da Coe nello stesso anno e uscito prima su etichetta Hot House. 

Di grande spessore, suggestivo e coinvolgente fu poi l’album «Les Voix d’Itxassou», ideato per il bicentenario della rivoluzione francese con uno spiegamento di forze all’altezza dell’anniversario: diciotto elementi più una serie di ospiti, tra cui Ali Farka Touré e Marianne Faithfull, chiamati a dare voce a brani appositamente arrangiati su misura. Canzoni rivoluzionarie, canti popolari e di resistenza popolare, inclusa Bella Ciao in versione strumentale impreziosita da un suo breve assolo al clarinetto, e nessuna canzone francese, evitando toni celebratori.

Insomma, Coe si diede da fare assai e non solo come (co)titolare di molti album, ma finanche in qualità di ospite a iniziare dai lavori del sodale Hymas. Fece una capatina nel pimpante «Flying Fortress» (1988) e in quel meraviglioso affresco di storia dei perdenti in musica intitolato «Oyate» (1990), ritratti sonori dei grandi capi delle tribù dei nativi americani che difesero le loro terre dalla conquista dei bianchi. Si fece trovare pronto anche per un altro grande racconto musicale collettivo di casa nato, ovvero «Buenaventura Durruti», lavoro del 1996 che rendeva omaggio all’anarchico spagnolo morto mentre era in corso l’assedio di Madrid durante la guerra civile. Poi raccolse l’invito di Beresford a partecipare all’imperdibile, esilarante «Eleven Songs for Doris Day» (1985), omaggio alla grande cantante sempre per la chabada, ça va sans dire. Si fece vedere nell’album di un altro Alterations come Beresford, ovvero Terry Day titolare dell’album «Look at Me» (1987) suonando per quasi tutte quelle canzoni dal profilo sgraziato. Non mancò l’appuntamento con alcuni degli sfizi di casa Rochard, gli album a tema, presenziando al natalizio «Joyeux Noël» (1992) assieme ai Melody Four in una sceneggiata dell’attesa dei regali nella notte magica, il tutto per regalare un’indimenticabile Silent Night e in coppia con Norma Winstone in una magnifica e davvero soffice As Soft as Snow. Lo si ascolta anche nell’omaggio a Sidney Bechet, «Vol pour Sidney (Aller)» (1992) interpretando Si Tu Vois Ma Mère con i Lonely Bears, qui quanto mai morbidi. Ci mette del suo per dare vita al disco dedicato a Erik Satie, «Sept Tableaux Phoniques Erik Satie» e ancora con i Melody Four partecipa alla festa di compleanno della nato nel 1986, l’album di inediti «Alternate Cake» (si veda MJ, luglio 2020). I tre birbanti sciorinano una delle loro, Tres Caballeros, poi quasi a voler riguadagnare in rispettabilità Coe inserisce anche un altro brano soltanto a suo nome, il fosco e serioso Les Bourgeons du Temps facendosi dare una mano da Hacker al clarinetto e dal Delmé String Quartet. Due brani sono presenti anche nella scaletta della bella raccolta delle (im)possibili sonorizzazioni delle tavole del fumetto Spirou, il doppio album «Bandes Originales du Journal de Spirou» (1989). Infine i Melody Four impazzarono nel concept album «Les Films de Ma Ville» (1995) mescolando note e ricordi di celluloide. 

In questa sarabanda di registrazioni (e concerti), di omaggi e sberleffi, Coe trovò modo di suonare il suo Mancini, e proprio nei due brani che volle scrivere appositamente per l’occasione fece capire in modo inequivocabile quanto avesse appreso la lezione del Maestro, fedele ai dettami di una musica al tempo stesso suadente e incalzante, frizzante e sognante. Nei cinque brani manciniani mostrò rispetto e confidenza, prendendosi qualche garbata licenza. Giocò a nascondino, per esempio, con il celeberrimo tema in The Pink Panther, ma in linea di massima evitò gli azzardi. Da notare che per concludere Charade, il brano conclusivo, e ritrovatosi da solo (Hymas e Lawrence erano già tornati in patria), Coe si accomodò anche al piano, che aveva studiato in gioventù con scarsi risultati, e registrò un duo teoricamente con se stesso ma di fatto uno splendido assolo, essendo il suo accompagnamento al piano ridotto ai minimi termini. Si concesse anche un tributo all’attualità dell’epoca con un brano più recente, estratto dal film Victor Victoria (1982) di Blake Edwards, ovvero Crazy World, dando un saggio del suo virtuosismo al clarinetto. 

La storia di Coe non finì lì. Continuò, rallentò, arrivando fino ai nostri giorni, al 16 marzo dello scorso anno, quando a 88 anni il Nostro ci ha lasciato nella sua città natale, da dove si era sempre allontanato malvolentieri (è noto che avesse un insuperabile terrore degli aerei). Ci resta la sua musica, sempre che nei titoli di coda non la rubi la pantera rosa.

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