Barry Altschul: suoni dall’altro spazio/tempo

Membro di alcuni tra i gruppi più innovativi degli anni Settanta, fedele partner di Dave Holland in una ritmica memorabile, Barry Altschul ha lasciato suoi dischi importanti

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Se esistesse una classifica delle migliori sezioni ritmiche di tutti i tempi, quella relativa agli anni Settanta vedrebbe doverosamente ai primissimi posti il duo composto da Barry Altschul e Dave Holland. Sarebbe un meritato riconoscimento per quest’ambo d’assi capace assieme ad Anthony Braxton di scrivere alcune, anzi molte delle pagine più importanti del jazz in quel decennio. Una strana coppia, angloamericana, composta da due bianchi, fronteggiabile solo dagli uomini dell’Arte Ensemble of Chicago e pochi altri. Affiatatissimi, entrambi sin da ragazzini indaffarati a sentir musica e provare a suonarla. Fu così per Altschul, stando a quanto scriveva Robert Palmer nelle note di copertina di «Another Time/Another Place», il secondo album realizzato dal batterista (ma forse è riduttivo definirlo così) nelle vesti di leader. Difatti a quel ragazzo del Bronx nato nel 1943 piaceva ascoltare musica latina e nera, oltre alla classica che ascoltava in casa. Gli insegnanti delle scuole superiori confermavano: il giovane Barry, non faceva altro. Studiò la batteria con Charlie Persip, che vantava trascorsi con Gillespie, e infine lasciò casa quando decise di provare a fare il musicista di professione incontrando l’opposizione dei suoi genitori. Pubblicato nel 1978, «Another Time/Another Place» ebbe una prima e ultima ristampa cinque anni dopo, sempre nel formato lp, finendo poi definitivamente e inspiegabilmente fuori catalogo. A quel disco – e al precedente – Altschul era arrivato vantando già un curriculum a dir poco prestigioso. Intorno ai vent’anni aveva conosciuto per caso Paul Bley, che lo coinvolse nella primigenia Jazz Composer’s Orchestra, in origine Jazz Composers Guild, dandogli spazio in quel «Communication» dall’organico sontuoso che vide la luce nel 1965. Ai tempi, con Bley si affiancò a diversi contrabbassisti oltre a Peacock, da Kent Carter a Steve Swallow e Mark Levinson. A concludere quel valzer di coppie arrivò Holland, che aveva appena messo la firma (e con lui Corea) su una pietra miliare come «Bitches Brew». 

È nel 1970 che il trio si forma, trovandosi in studio il sette e l’otto aprile per registrare i brani di «The Song of Singing», pubblicato l’anno successivo dalla Blue Note, un album nel quale Corea tornava al piano acustico dopo la prima scossa elettrica con Davis. Ne venne fuori un disco agitato da fremiti free e segnato da linee melodiche e atmosfere rarefatte. In scaletta tutte composizioni del trio o dei singoli membri tranne la Nefertiti di Wayne Shorter, mai suonata da Corea nell’abbondante biennio davisiano e che invece divenne un cavallo di battaglia dei futuri Circle (la proposero anche a Bergamo nel 1971). Il disco procurò subito delle serate al neonato trio, e in una di esse al Village Vanguard Jack DeJohnette presentò a Corea il giovanissimo Braxton. Dall’incontro all’invito a unirsi ai tre il passo fu brevissimo. I Circle non durarono molto, ma ciononostante lasciarono un segno profondo. Tra concerti e diverse registrazioni sempre per la Blue Note (se ne è parlato diffusamente su MJ, marzo 2021, in occasione della scomparsa di Corea) iniziarono a tracciare alcune delle direzioni in musica più interessanti prese lungo tutti gli anni Settanta, quella ricerca di equilibrio tra improvvisazione e tradizione, che in particolare Braxton avrebbe coltivato ottenendo i frutti migliori. Il tempo di passare all’ECM, che dapprima porta in studio il trio originario per registrare l’album «A.R.C.», aperto da una nuova versione di Nefertiti, e poi cattura il quartetto in azione a Parigi il 21 febbraio del 1971 (in un medley tornava il brano di Shorter), e in men che non si dica Circle si sciolse.  In ordine sparso i suoi membri dialogano con Braxton anche in «The Complete Braxton» registrato nel febbraio del 1971, Corea per suo conto e la sezione ritmica in altri brani. Chiusa l’esperienza del quartetto, sulle prime rimasero tutti acquartierati in casa di Manfred Eicher, ma il pianista se ne andò per la sua strada scrivendo il primo capitolo di Return to Forever con l’album omonimo, mentre gli altri tre, a loro volta, andarono in studio per registrare l’esordio da titolare di Holland, l’immaginifico «Conference of the Birds». Qui si dispiegava appieno la maestria di Altschul nel dosare l’intera gamma dei timbri e le molteplici soluzioni ritmiche, talora rafforzando gli interventi dei suoi partner, talaltra sottolineandoli, oppure, al contrario, cercando di esaltarli frammentandone il percorso. La sua tavolozza sonora si era arricchita in misura esponenziale, e il suo assolo alla marimba nel brano eponimo pulsa vitale oggi come ieri. Al disco partecipò un’altra personalità vulcanica quanto quella di Braxton, almeno in quegli anni, ovvero Sam Rivers, che di lì a poco sarebbe esploso dopo trascorsi illustri (soprattutto il disco con Davis, «Miles in Tokyo»), che però lo avevano lasciato piuttosto nell’ombra. Fece il botto con la sua uscita al festival di Montreux documentata da «Streams». In seguito, a più riprese, talora assieme a Holland, in differenti trii allestiti nel corso del decennio dal polistrumentista dell’Oklahoma, Altschul si diede un bel po’ da fare mentre al tempo stesso rimaneva impegnato con il quartetto braxtoniano, e altrettanto fece il suo partner inglese. Difatti, dopo «Conference of the Birds», anche il contrabbassista avrebbe avuto a che fare con Rivers, dando anche alla luce un paio di album in duo, pubblicati dall’IAI, l’etichetta di Bley. Un viavai di incontri, molti dei quali documentati in anni recenti dalla lituana NoBusiness Records varando la Sam Rivers Archive Series attualmente composta da sei volumi. Quanto alle imprese delle formazioni braxtoniane dapprima con Kenny Wheeler e successivamente con George Lewis, non c’è da aggiungere altro ai fiumi d’inchiostro che sono stati spesi per elogiarne il valore. Nacquero pietre miliari, «Five Pieces 1975», «New York, Fall 1974», «The Montreux/Berlin Concerts», dischi che ribadivano anche il magistero percussivo di Altschul, la sua abilità nel porre in risalto tutti i suoni possibili del suo strumento. Fatto sta, che quando lo sfavillante quartetto braxtoniano si sciolse, quasi al termine di un decennio costellato di collaborazioni strepitose (Roswell Rudd, Andrew Hill, Julius Hemphill, Pepper Adams), l’infaticabile Altschul pensò bene che fosse venuto il momento di mettersi anche in proprio non rinunciando del tutto al ruolo di partner in progetti altrui. 

Esordì con «You Can’t Name Your Own Tune», pubblicato dalla Muse, etichetta fondata nel 1972 da Joe Fields. Per realizzarlo convocò un parterre di alto profilo. Coinvolse una volta di più Holland e George Lewis già frequentato con Braxton, chiamò anche Rivers e uno dei padri fondatori l’AACM, ovvero il pianista Muhal Richard Abrams. Fu un esordio brillante, in virtù pure del collaudatissimo interplay, e molto discendeva direttamente dalle esperienze precedenti: come si evince sin dall’apertura affidata al brano eponimo, spigliato free-bop con un avvincente assolo di Holland incuneato al centro della composizione e dove anche la zampata di Rivers lascia il segno. Una mutevolezza d’atmosfera segnava il seguito. Si riprende con il funereo andamento del brano (senza pianoforte) For Those That Care, contraddistinto dall’intreccio spiritato di flauto e trombone sostenuto dal lavoro metodico di Holland all’arco e la discreta somministrazione di pause e riprese da parte del leader. Gli fa seguito uno sgangheratissimo swing che rimbalza lungo Natal Chat riuscendo a raddrizzarsi solo nel finale. Sul secondo lato si piazzò una composizione di Abrams, Cmbeh, altro esempio di free-bop cristallino, tutto impostato su una cavalcata pianistica ora furibonda ora liquida, accompagnata altrettanto al gran galoppo dalla sezione ritmica, con Holland che si ritaglia un secondo assolo memorabile. Anche Altschul si dedicò lo spazio per un assolo nel successivo Hey Toots!, per il quale adoperò l’intero set percussivo a sua disposizione, incluso il waterphone, un idiofono brevettato nel 1973 e dalle sonorità talora inquietanti. Una volta di più Altschul mise in mostra la sua fornitissima panoplia di suoni, incluso un favoloso colpo di gong a metà dello svolgimento, poco prima di far ascoltare la voce del waterphone. Per chiudere il disco scelse un brano di Carla Bley, King Korn, eseguito dal quintetto al completo. Un’acrobazia dietro l’altra, tra furia e gioia, una serie di assolo che diedero forma a una versione scoppiettante. 

Barry Altschul

Non ha avuto la stessa sorte «Another Time/Another Place», pubblicato l’anno successivo e attualmente, come detto, tuttora fuori catalogo. Eppure non è lavoro di secondo piano, così come non furono da meno i nuovi partner selezionati per registrarlo. Oltre all’immancabile Holland, diedero il loro contributo Arthur Blythe al contralto, Ray Anderson al trombone, Anthony Davis al piano, un altro contrabbassista, Brian Smith, mentre si avvicendarono al violoncello Abdul Wadud e Peter Warren e il chitarrista Bill DeArango, allora già quasi sessantenne, bopper della prima ora e con precedenti con Dizzy Gillespie, proprio come Persip. Forze fresche che Altschul distribuì in varia misura nei brani in scaletta, ma che non si ascoltano mai tutti assieme.

L’intenzione di Altschul era di dar vita a un nuovo corso dopo aver metabolizzato le sue mille e una esperienza. Sintesi di ieri e di oggi manifestata a lettere cubitali dal medley che occupava la gran parte del lato A, Crepuscule: Suite for Monk, che fondeva assieme tre brani celeberrimi, arrangiati da Anthony Davis con spirito monkiano e personalità invece figlia di quei tempi. Tra fedeltà e tradimento con spazi all’improvvisazione e altrettanti passaggi schiettamente boppistici, assoli ficcanti (superbi quelli di Davis e Blythe a seguire nella centrale Crepuscule With Nellie) l’alta velocità della ritmica (qui al contrabbasso c’è Brian Smith), l’agile supporto di DeArango, l’omaggio riuscì proprio in virtù dell’equilibrio tra composizioni originarie e ri/composizione complessiva. A chiudere la facciata, venne posto Chael, un brano composto da Davis che rimanda alle incursioni più cameristiche e free di Circle. All’opera con Altschul ci sono i soli Davis e Abdul Wadud al violoncello e il dialogo fra i tre è serratissimo, teso, a momenti astratto, ricco di coloriture, punteggiato di silenzi, vibrante e astratto al tempo stesso. Una prova eccellente supportata da tecnica superba da parte di tutti. Sul secondo lato apre le danze il breve Traps, un’altra escursione in solitario di Altschul, ancor più efficace della Hey Toots! presente sul disco precedente sul piano più squisitamente percussivo, un genuino assolo di batteria nel quale metteva insolitamente in mostra anche i muscoli. Un interludio prima di passare a Pentacle, scritta da Holland, maestoso mosaico in perenne cambiamento, intreccio di corde (all’opera due contrabbassi e altrettanti violoncelli) in marcia verso l’oscurità la cui conclusione è un altro show di Altschul che riadopera anche il waterphone e poi si fa da parte per lasciare il campo a un tripudio di archetti danzanti e linee melodiche solitarie. Un viaggio nel tempo chiude l’album, perché nel brano eponimo scritto di proprio pugno da Altschul si avvertono tanto ritmi latini e finanche echi della Swing Era (grazie al rutilante trombone di Anderson), echi degli ascolti d’infanzia, forse, quanto fremiti free, lungo una traiettoria ricca di curve repentine, percorsa con continui cambi di passo. Altschul non si è mai fermato da allora, seppur vivendo momenti di appannamento. Degno di nota sarà un nuovo trio assieme a Mark Helias e a Ray Anderson (Brahma, il progetto) e oggi, ottantunenne è ancora capace di tenere la scena, non solo di registrare in studio ma anche in grado di tenere concerti. Prova ne siano le sue più recenti imprese con OGJB Quartet (assieme a Oliver Lake, Graham Haynes e Jo Fonda) con cui disegna suoni su una tela astratta e il trio 3dom Factor sempre con Fonda e il sassofonista Jon Irabagon, formazione agguerrita che scivola con disinvoltura da situazioni più swinganti ad altre più ferocemente free. È invece fermo al palo quel bel disco che, come reclama il suo titolo, necessita di un altro posto e un altro tempo per essere ristampato. Speriamo di vederlo.

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