Dolomiti Ski Jazz, 7-16 marzo 2025, varie località delle Valli di Fiemme, Fassa e Cembra

di Giuseppe Segala

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La rassegna nel cuore delle Dolomiti ha visto suonare ormai il proprio ventinovesimo compleanno, sempre sotto la cura di Enrico Tommasini, collocando come è consuetudine le sue proposte concertistiche a ogni altitudine, dai teatri nel fondovalle alle baite di alta montagna, spesso avvolte quest’anno da strati densi di nuvole. La cosa non ha impedito lo svolgersi dei concerti là programmati, che casomai sono stati spostati all’interno dei rifugi, dove l’atmosfera si avvicina a quella dei club metropolitani, con la differenza che l’ora è quella di mezzogiorno, piuttosto che attorno a mezzanotte.

Peter Karp foto di Daniele Torresan

E con l’aggiunta, non indifferente, dei panorami mozzafiato incorniciati dai finestroni, allorché le nubi succitate permettano loro di fare capolino. È stato il caso del concerto della Peter Karp Band, un quartetto di ruvido, verace rock-blues con due chitarristi statunitensi che da più di dieci anni lavorano affiancati da una solida ritmica italiana. Certo, lo sappiamo, nelle occasioni intorno ai duemila metri di quota, il cartellone presenta, accanto al jazz, proposte che spaziano ad ampio raggio nella black music, come è opportuno a quell’ora e a quelle altitudini.

Tonolo Deidda Rossy foto di Christian Miorandi

Della programmazione a fondovalle, ci è stato possibile assistere solo a tre serate, ma da quelle possiamo senza dubbio distillare alcuni criteri, alcune tracce di riflessione. Per esempio, partendo dall’assunto che personalità e passione stanno alla base della creazione artistica, vagliare quanto l’identificazione profonda con musicisti maestri sia vitale nella metabolizzazione di un percorso. La cosa, a volte, riesce in maniera alta. Nel concerto del trio che affianca Pietro Tonolo, Dario Deidda e Jorge Rossy si è messa in luce nel modo più evidente e maturo tale passione, partendo dall’affermazione che viene proposta “una lettura personale di celebri brani della tradizione americana”. Su questo criterio semplice, i protagonisti hanno sviluppato lucidamente il loro intento, mettendo in scena un percorso originale, raffinato, ricco di idee, di dettagli e di sapienza costruttiva, dentro un repertorio ampio e non banale, che partiva da Eiderdown di Steve Swallow, passando tra l’altro da una degna versione dello splendido Somewhere. Un Bernstein introdotto magistralmente dal basso di Deidda, in cui si toccava tra l’altro Maria, naturalmente dalla stessa West Side Story.

Le altre tappe del repertorio, sempre basate sul CD pubblicato lo scorso anno con lo stesso titolo «Somewhere», erano calibrate con il massimo intento di fusione timbrica ed emotiva, con Tonolo in stato di grazia al tenore, al soprano o al flauto. Mescolati in varie proporzioni con la batteria o il vibrafono di Rossy, con il basso che teneva gli equilibri in modo saldo. Talvolta sembrava di sentire echi delle sperimentazioni di Jimmy Giuffre, altrove la creatività olimpica di Shorter, o ancora i filtri di una de-composizione cubista, utilizzati sul Parker di Donna Lee.

Kevin Hays foto Fiorenza Gherardi De Candei

Curiosamente, Somewhere compariva anche nel concerto a Predazzo del trio di Kevin Hays, con un preciso, meticoloso Alexander Claffy al contrabbasso ed Eric Harland alla batteria, torrenziale ma come sempre attentissimo alle dinamiche. Il passaggio, anche qui, della musica di Bernstein non è poi così strano, se consideriamo che Hays e Rossy (al vibrafono) hanno pubblicato da poco un lavoro in duo, «The Wait», dove compare una versione più disinvolta del brano. Ecco, disinvolto è anche l’aggettivo adatto a siglare la performance del trio di Hays a Predazzo. Come nel caso del concerto del trio precedente, la proposta spazia in un vasto repertorio, ma con atteggiamento e intenzioni molto diverse. Qui è prevalsa la forma del recital, in cui si passa da un brano all’altro con agilità spigliata, con virtuosismo un po’ compiaciuto, seppure ben misurato. Tra bozzetti impressionistici, episodi di intensa empatia ritmica e melodica che spesso evocano Jarrett, qualche pennellata riconducibile a una fusion garbata e un paio di interventi vocali dello stesso pianista, fanno la loro apparizione brani originali, standard come How Deep Is The Ocean e monili inossidabili come With A Little Help from My Friends di McCartney, con il piccolo aiuto di Lennon.<

For Bicio foto Fiorenza Gherardi De Candei

Il terzo concerto ci riporta nella sfera della passione che alimenta la musica, con l’omaggio a un protagonista della scena italiana prematuramente scomparso nel 1998, il sassofonista Maurizio Caldura Núñez, tributato da alcuni suoi cari amici, tra i quali il pianista Marcello Tonolo, promotore del progetto. Nella selva un po’ oscura di omaggi che si incrociano oggi, questo ha il pregio della schiettezza. Nel sestetto in scena, Six Friends for Bicio, che ricalca lo stesso organico guidato da Caldura per la registrazione dell’album «Murrina Latina», primeggia il sax tenore ruvido e ambrato del suo ex allievo Michele Polga. Ci sono poi due componenti di quello stesso gruppo, il trombonista Roberto Rossi e il contrabbassista Marc Abrams, mentre alla tromba è Giampaolo Casati, che ha preso il posto dell’altrettanto sfortunato e indimenticato Marco Tamburini. Il repertorio è tutto basato su brani dello stesso Caldura, di schietta impronta bop con ingredienti latini. Di Polga sono i vivaci arrangiamenti e un brano, Núñez Dance: un intenso, accorato saluto in forma di ballad.
Giuseppe Segala

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