Fabio Zeppetella: Jazz Masters

ll nuovo album del chitarrista di Terracina, realizzato per Jando assieme a vecchi amici come Fabrizio Sferra, Ares Tavolazzi e Dado Moroni, rende omaggio ad alcuni giganti del passato in maniera del tutto originale

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All’ombra dei giganti, che consolano e ispirano, mentre fuori tutto cambia. Questo potrebbe essere il vascello d’elezione per raccontare le arterie e i capillari di un passato prossimo che recalcitra a farsi storia, nel bilico tra linguaggi antichi e contemporanei che bordeggiano lo smarrimento delle direttrici di senso. 

Questa storia potrebbe cominciare a Roma, strano posto per il jazz (e non solo) negli anni Settanta e Ottanta. L’euforia della cultura musicale americana s’era provata ad appiattare dalle mille luci di Via Veneto in piccoli locali, disseminati nel cuore delle due rive del Tevere, capaci di chiamare a raccolta le stelle d’oltreoceano con una nuova leva di giovani (spesso giovanissimi) musicisti a far da ritmica locale e uno zoccolo duro di pubblico eterogeneo fatto di freak, nostalgici, aristocratici decaduti, elitisti e proletari. Se Milano s’era costruita come la capitale discografica del pop cantautorale, Roma era senza dubbio la capitale del jazz, il punto di raccolta dove far convergere linguaggi ed esperienze, insofferenti all’intrattenimento per se stesso, naturalmente vocati a raccontare una alternativa musicale in cui ribellione alle forme istituzionali e commercializzazione viaggiassero su scale inversamente proporzionali. A Roma accadde pure un fenomeno curioso, per gli amanti dei tratturi del jazz: da un lato molte stelle statunitensi sceglievano di trasferirsi in pianta stabile in Città (ma anche in altri gangli europei), dall’altro le sonorità del free e della prima rivoluzione elettrica di Miles Davis stentavano a trovare albergo nei gusti dei musicisti. Se tra le spiegazioni possibili c’è quella fornita da Enrico Pieranunzi, uno che c’era, in una recente conversazione con MJ, per cui molti artisti non volevano suonare la new thing (che però era l’unica a garantire la sopravvivenza discografica e performativa) mentre trovavano piena tribuna da questa parte del mare, ancora più curioso è guardare agli effetti del fenomeno. Roma accettò di assorbire la latenza significativa con l’evoluzione del jazz verso forme astratte, per strutturare e consolidare le multiformi nuances del bop, sfornando una leva di musicisti di prim’ordine, che oggi, a distanza di quattro decenni, occupano gli scranni senatoriali nazionali ed europei. 

Tra di essi compare, senza dubbio, Fabio Zeppetella, classe 1961 da Terracina, trasferitosi giovanissimo nella Roma dove si muoveva tutto, per vivere da protagonista la seconda primavera del jazz. Da poche settimane ha pubblicato con Jando Music il nuovo progetto, «Jazz Masters», presentato alla Casa del Jazz il 30 novembre scorso. Del chitarrista romano, che vanta collaborazioni strutturate a cinque stelle (Kenny Wheeler, Lee Konitz, Tom Harrell, Enrico Rava, Aldo Romano, Steve Grossman, giusto qualcuno per non indulgere all’elenchismo), si sa curiosamente abbastanza poco; è uno di quelli che tutti gli appassionati conoscono, ma la cui concentrazione sul fatto musicale ha tenuto lontano dai racconti di giornale. 

A maggior ragione, è sembrata ghiotta l’occasione di un nuovo album per provare ad abbozzare un profilo più completo di un artista che, quando la maggior parte delle produzioni spingono verso direzioni minimaliste, astratte, contemporanee, quasi provocatoriamente sforna un album dedicato ai giganti del passato che la rivoluzione l’hanno operata dentro le forme. Parker, Monk, Coltrane, Montgomery, Tyner, Davis sono alcuni dei destinatari delle composizioni originali di Zeppetella; camminano sul filo sospeso tra lettere d’amore e rimodulazioni dei rispettivi linguaggi, per riaffermare la centralità dell’improvvisazione su temi e griglie armoniche, terreno così prossimo alla poesia, che il chitarrista non nega di amare e correlare alla musica jazz. 

Il viaggio di Zeppetella nella memoria dei grandi del passato si compie con musicisti di prim’ordine che, col tempo, sono diventati specchi nei quali riflettere le corrispettive identità espressive, gente che non ha certo bisogno di ghirigori introduttivi: Fabrizio Sferra, Ares Tavolazzi e Dado Moroni, che con Zeppetella suonano da decenni e che messi insieme sono uno dei power quartet di maggior riguardo nel panorama europeo. 

«Jazz Masters» sembra essere la tua storia sentimentale con il jazz. Partiamo allora col raccontarne la genesi e spiegare da dove è venuta l’idea di rendere omaggio ai grandi con composizioni originali.
Non è stato un vero e proprio progetto a tavolino, più che altro è venuto da sé. Ti faccio qualche esempio: qualche tempo fa ho registrato con Umberto Fiorentino «Variazioni e Metamorfosi». Lì il concetto era di prendere quattro standard, ognuno di noi ne avrebbe suonato la variazione e la metamorfosi, per cui i pezzi diventavano dodici. In quel disco ho scritto un brano per Jim Hall, Waltz for Jim, che poi ho riproposto inedito qui in «Jazz Masters»; nel 2020 è morto Mc Coy Tyner, un pianista che amo moltissimo sin da quando ero ragazzo e mi è venuto naturale scrivere Mr. Mc Coy che è il brano di apertura dell’album. Aggiungo pure che quando presentavamo live un mio album del 1995, «Moving Lines» (CAMJazz), in quartetto con Fabrizio Sferra e Ares Tavolazzi c’era anche Kenny Wheeler: lì proponevamo una versione di What Is This Thing Called Love, un superclassico suonato da tutti (da Bill Evans a Keith Jarrett); io provai a riscrivere l’arrangiamento, anche spinto da alcune suggestioni di Wheeler, e lo chiamai Kenny, al quale ovviamente lo dedicai… Ecco perché non c’è un disegno studiato dietro questo ultimo album, che si porta dietro storie diverse. 

Impossibile non essere incuriositi dall’esperienza di suonare con Kenny Wheeler. 
Un’esperienza semplicemente meravigliosa. Per me «Gnu High» in quegli anni era un capolavoro, lo conoscevo a memoria (Jarrett tra l’altro suona in modo sublime) ed è incredibile pensare che quella musica è del 1975 e che ancora oggi suoni così moderna. Ho imparato tanto da Kenny, che col suo fare un po’ svagato, quella tipica ironia inglese e i modi un po’ da Mister Magoo, mi diceva delle cose che erano vere perle e della cui rilevanza mi sono accorto meglio solo dopo. Per esempio, sottolineava con una certa insistenza l’importanza dell’originalità. Ora, io questa idea ce l’avevo fin da ragazzino, con tutta la presunzione del caso: trovare il mio modo di suonare, trovare la mia voce. Ma quell’ambizione giovanile significava avere anche una spinta versa la ricerca, rifiutare l’omologazione. In fondo, diciamolo, se studi e hai tecnica, che ci vuole a suonare copiando Jim Hall o Mc Coy Tyner? Ancora oggi ce ne sono tanti di imitatori e manieristi. A me invece da sempre interessa riuscire ad esprimere cosa sento nell’esatto attimo in cui sto sopra il palco, avere la libertà di suonare quello che sono, che poi è lo scopo dell’artista: avere il cuore aperto, senza la paura dei giudizi, a partire dal proprio. I giudizi possono uccidere. 

Sei severo con te stesso? 
Certo che sì, ma ci si impara a convivere, perché credo sia anche importante guardarsi indietro e rivedere il percorso fatto. Noi essere umani siamo sempre protesi all’evoluzione: in fondo la vita lo è, il linguaggio lo è e così pure le arti e la civiltà; ecco allora che riascoltarsi diventa importante perché è il racconto dello spirito di un periodo. È la storia di una maturazione culturale; considera che io sono uno di quelli che professano la centralità dello studio dei classici: che ti vuoi inventare se non conosci prima la storia? Serve capire i meccanismi, studiarli nei dettagli e solo dopo si possono eventualmente abbandonare per fare altro: non serve diventare come Charlie Parker, ma serve conoscerlo, perché quel linguaggio formativo sarà utile per alimentare la scintilla della ricerca personale. 

In «Jazz Masters» hai fatto un’operazione in qualche modo più complessa: hai scritto melodie e armonie che tenessero ferme e riconoscibili le atmosfere, ma puntando all’originalità di entrambe, un modo diverso rispetto ai vecchi contrafacts.
Scrivendo i temi mi sono fatto suggerire un po’ da loro, prendi il pezzo dedicato a Bird: non è strettamente parkeriano ma punta a ricollegarsi al bebop e così anche quello per McCoy che riporta alle atmosfere aperte, all’uso dei pedali, al suono di Elvin Jones. Restano mondi di riferimento, non è uno studio filologico dell’artista, perché serve mantenere la propria identità artistica, la poetica non deve essere tradita. 

Nell’improvvisazione vince la capacità di raccontare una storia, è tutto molto conseguente e melodicamente coerente.
Su questo devo dire che ho molto, molto lavorato, perché ho tentato di cogliere la lezione di Davis, Rollins, Desmond, Haden, Jarrett (anche se in maniera molto più complessa): sono artisti che in qualunque punto tu prendi l’improvvisazione c’è sempre una connessione tra il prima e il dopo, non ci sono cose infilate per caso, è una narrazione fluida. Questa caratteristica del fraseggio è fondamentale, perché permette di dare una forma architettonica a quello che dici. Non bisogna guardare il particolare, ma il globale. 

I musicisti cui rendi omaggio in «Jazz Masters» vanno grosso modo tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta del Novecento… È una diffidenza verso il ciò che è accaduto con e dopo il free?
Nessuna diffidenza, anzi ho ascoltato tanto di quella musica, ma mi sono soffermato su determinati artisti perché per me sono da sempre al livello dei supereroi che si hanno da ragazzi. Ci sono cresciuto, oltre a Wes Montgomery o Jim Hall, i due padri della chitarra jazz, ascoltavo soprattutto Miles che amavo in ogni suo aspetto: un musicista che poteva suonare hip hop, rock, collaborare con Michael Jackson o Wayne Shorter restando un poeta, pur cambiando il contesto sonoro, cosa che semmai lo aiutava a raggiungere un pubblico più vasto. Il punto è che il chitarrismo, a parte Wes e Jim, mi sembrava in qualche modo più ristretto, come se mancassero delle cose al linguaggio. Non c’era l’energia debordante di Coltrane, che percepivo più completo e ricco. Le soluzioni dei chitarristi, al confronto, mi sembravano standardizzate, più semplici, ovvie. Pensa che io stesso, per tentare di trovare soluzioni diverse, a un certo punto passai dalla chitarra semiacustica a cassa alta alla Fender; volevo allargare l’espressione evitando gli schemi strettamente chitarristici. Lo stesso, in fondo, avendo riguardo ai sassofonisti, lo stavano facendo Metheny, Scofield, Frisell negli Stati Uniti. Probabilmente erano gli stessi anni in cui era percepibile la necessità di un cambiamento nell’aria. 

Obiettivamente la formazione dei chitarristi e il ruolo nel contesto musicale sono molto cambiati negli ultimi decenni. Era impensabile un livello di tecnica e conoscenza così diffusa e di alto livello. Questo ha fatto bene, da un punto di vista creativo, allo strumento o tende a standardizzare un po’ di più i risultati? 
È chiaro che ci sono tante cose nuove alle quali ascoltare con attenzione, penso in primo luogo a Rosenwinkel, che ha cambiato il linguaggio, dando una svolta e forse creando una vera rottura, come ogni tanto nella storia del jazz avviene: Parker e Gillespie cominciarono a fare quei temi difficilissimi e raggiungere la complessità anche per rivendicare il fatto di essere artisti, di non voler più fare musica di intrattenimento. 

Allo stesso modo, quando è arrivato Jaco Pastorius, tutti volevano suonare come lui. Non aggiro però la domanda: il rischio di uniformità c’è eccome! In parte è determinato dal momento storico, in cui tutto è più veloce, preciso, quantizzato, mentale, mi verrebbe da dire. Sembra essersi spostato musicalmente il risultato dalla pancia alla testa e trovare qualcuno che ti faccia uscire la lacrima, come faceva Bill Evans, diventa un’impresa, ci si sente antichi. Io mi sento antico. Lo stesso Rosenwinkel, di cui ti dicevo prima, non raggiunge quel risultato di cuore; è difficile, quasi fuori moda. Non c’è più spazio per la poesia. 

Complice anche un eccesso di concettualizzazione didattica? In fondo, fino agli anni Settanta di fatto i musicisti italiani ed europei si formavano esclusivamente con metodi old school: tirare giù gli assolo, ascoltare, senza un bagaglio tecnico o corsi ad hoc. 
Forse sì, ma tutto dipende da cosa e come si apprende. Un punto sul quale insisto molto anche da docente è la qualità dell’attenzione: quella che ci vuole sul palco, nello studio, nell’imparare e che non può essere né tutta mentale né tutta istintiva. Il punto di svolta, lo scarto artistico lo hai se si riesce a bilanciare, mettere in parallelo questi due fattori: se accade si riesce a toccare con mano, a sentire chiaramente. Ma finché si resta in balia dell’uno o dell’altro elemento non si riuscirà a essere buoni musicisti, l’evoluzione artistica si interromperà. 

Tornando all’album, è una vita che suoni con Ares Tavolazzi, Fabrizio Sferra, Dado Moroni. Che compagni di viaggio sono? 
Con Fabrizio e Ares suoniamo dal 1985! Una volta, a mia memoria, fu decisiva: Umbria Jazz nel 1987 con Ciammarughi, fu un concerto pazzesco, un’energia magica. E da lì abbiamo continuato a suonare e registrare. Parliamo la stessa lingua ed è importante per questo motivo la scelta dei musicisti; sono tutti bravi, per carità, ma trovare l’incastro giusto, lo spazio in cui l’ego si annulla a favore del rispetto, dell’ascolto, dell’apertura di cuore è qualcosa che accade – anche umanamente, con loro siamo fratelli – col tempo. Pensiamo alle grandi formazioni del passato: il trio di Bill Evans, il quintetto di Miles, il quartetto di Coltrane erano gruppi fissi, non è un caso! Non si cambiava sempre, soprattutto perché si stabiliva la giusta energia, compariva il filo che cuce tutto in modo coerente. 

Vi siete conosciuti praticamente quarant’anni fa. Certo, era un altro mondo per suonare jazz. Che ricordi hai di quella Roma? 
La prima cosa che mi viene da dire è che suonavamo tanto! All’inizio ho avuto un po’ di difficoltà a inserirmi; io venivo da Terracina e quando sono arrivato, poco più che ventenne, ho iniziato piano piano a frequentare i musicisti e a fare le sessions. C’erano tanti grandi con cui confrontarsi: Gatto, Puglisi, Marcotulli, tanto per fare qualche nome. Si suonava al Music In, ma anche al Saint Louis di Mario Ciampà (lì feci uno dei miei primi concerti con Rita Marcotulli, Massimo Moriconi e Ettore Fioravanti). Oltre a ciò, a Roma c’erano concerti incredibili…  Ho ascoltato Barney Kessel, Jim Hall, Miles Davis un mucchio di volte; mi resta solo il rammarico di non essere riuscito ad andare a sentire Bill Evans quando venne qui. 

Anche il mondo della produzione musicale è cambiato molto, il produttore che faceva da intermediario tecnico tra musicista e pubblico è di fatto scomparso. 
Dunque, iniziamo col dire che, come è noto, tutto è diventato più semplice, puoi fare autonomamente in casa da solo, anche se non avrai i risultati di uno studio professionale attrezzato; questo per un ragazzo è importante anche per registrare provini e proporre un suo disco. Io, da un punto di vista tecnologico, resto un somaro! (ride, ndr) Mi piace ancora scrivere a penna e non uso molto il computer, al limite solo per sentire come un pezzo suona, ma poco altro. Certo, non è un momento semplice, ci confrontiamo con le piattaforme, che non fanno arrivare che pochi centesimi agli artisti. Io vengo dagli anni Ottanta e Novanta, il mercato era diverso, e ho potuto sempre tenere il punto (per niente scontato) di non sborsare una sola moneta per fare un album, è un fatto etico, di principio, ma so che di media devi comprarti le copie, promuoverti… Ma via! 

Con Jando com’è andata? 
Giandomenico Ciaramella è fantastico, anzi una perla rara! Certo, si confronta con un mercato complesso e lui stesso mi diceva che non sa per quanto potrà proseguire il lavoro fatto sin qui, ma bisogna riconoscere che il jazz italiano gli deve moltissimo, è un vero mecenate come non ce ne sono più, anche perché ha conservato intatto il grande amore e la competenza per questa musica, producendo tanti artisti di qualità che meritavano di essere conosciuti. 

Negli scorsi anni hai anche fatto due album con Umberto Fiorentino, che hanno avuto un notevole successo, c’era l’idea della metamorfosi degli standard, che è stato uno dei punti per arrivare oggi a «Jazz Masters». Una collaborazione che proseguirà? 
A proposito di quello che dicevamo poco fa, abbiamo in mente di fare – e spero che accada – una cosa autoprodotta; sarebbe bello registrare in casa, per raggiungere il livello di naturalezza e di apertura totale che spesso lo studio non ti può garantire, perché lo si prenota a tempo. Umberto, poi, è uno di quei musicisti, anzi fratelli, che conosco da oltre quarant’anni, anche non avendo mai registrato insieme prima (anche perché per un periodo abbiamo seguito percorsi stilistici diversi). Quando lui è tornato al suono acustico, fra una pausa e l’altra delle lezioni a scuola, ci facevamo delle gran suonate insieme, divertendoci, e così sono nati i due dischi. Il lavoro con due chitarre richiede una grande sensibilità, la massima attenzione a cercare l’interazione tra ciò che ascolti e ciò che suoni, se non sei in grado di cancellare il tuo ego il risultato non sarà naturale, ma sarà sempre una imposizione di uno sull’altro; questo con Umberto viene molto spontaneo e per questo è stato bello fare quei due album. 

Si torna sempre all’idea di un linguaggio che possa essere vicino alla poesia. 
Oggi la poesia sembra non avere spazio, anche se io sono uno di quelli che continua a illudersi che possa cambiare il mondo. L’impressione è che tutto si stia sempre più spostando verso la complessità del pensiero, la ricchezza di elementi, l’intelligenza musicale, ma che ci fai se poi non arriva qualcosa a toccarti dentro? E parli con chi è comunque affascinato dallo studio, dalla scienza, dal sapere complesso, ma so che non basta: ascolti due secondi il suono di Coltrane e ti arriva quel mix irraggiungibile di scienza inaudita e commozione, è tutto lì! 

Certo, rispetto a dove sembra andare la musica hai fatto un disco in parte controcorrente, perché riafferma la centralità del cuore, trascurando il nuovo gusto contemporaneo e tendenzialmente astratto. 
Sì, lo so, hai ragione. Sai che a volte mi viene da pensare che i musicisti che per me sono preziosi, quelli di «Jazz Masters», per esempio, oggi forse faticherebbero a trovare uno spazio? Un nome su tutti? Tom Harrell, per me un gigante assoluto che non credo abbia il riconoscimento che meriterebbe. Tom è la poesia musicale, quando registravo con lui mi emozionava sentirlo suonare. Non è che, anche oggi, manchino punte di diamante capaci di arrivare cuore, ma sembra quasi che la musica debba essere «difficile» a tutti i costi; se non costruisci tempi dispari o altre complessità esecutive sei un sempliciotto. Ma chi l’ha detto? Lee Konitz ha suonato per quarant’anni Alone Together in modi incredibili, Harrell ti suona in tromba solo Joy Spring e ti stende, Rava non è certo stato estraneo al free, ma quando suona senti la poesia della verità, la comunicazione di qualcosa di intimo! Poi, proprio a voler parlare di modernità nella scomposizione delle forme, attenzione: Stravinsky l’ha fatto più di cent’anni fa e così Schoenberg. Ovvio che con qualche pratica, si possono creare percorsi tecnici per poter improvvisare su strutture complesse, ma diventa tutto molto calcolato, dove sta l’anima? Mi redo conto che possa suonare come il pensiero di un «anziano» e sarà pure così, ma non si possono dimenticare i valori fondativi dell’arte, che non deve necessariamente a stupire per la complessità o affascinare per l’intelligenza, ma comunicare, toccare. Ecco, questo sembra essere passato di moda ed è un peccato. 

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