Il titolo dell’album è una domanda: «Where Are We?» (Blue Note, 2023). Nelle note di copertina a sua firma ne rivolge al lettore ulteriori quindici a risposta aperta, fattori radicali del tipo: «Cosa ci tiene lontani? La strada non pavimentata? La porta chiusa a chiave? La mappa perduta? Il codice sbagliato? Il fatto alternativo? Il volto sconosciuto? Il suono inaudito? La fede non condivisa? I rischi delle giornate sono troppo duri per il nostro passo lieve? L’oscillazione dei battiti è troppo forte per i nostri cuori che affondano?». Ogni risposta definita è di per sé chiusura, ostentazione di certezze per loro stessa natura ineffabili alla presa, l’improvvisazione vissuta come racconto sincero dell’attimo è, per contro, apertura e possibilità. Vincendo la prevedibile ritrosia a rispondere, Joshua Redman, nel bel mezzo del tour europeo di presentazione del disco, conferma grande generosità quando si tratta di raccontare la sua musica e le sue visioni civili. Più che ritrosia, in effetti, si tratta di introversione; è una sua tipica rifrazione caratteriale che rimarca in ogni conversazione con i media; né serve tirare in ballo le bibbie della teoresi junghiana sulle personalità per avere evidenza, una volta in più, di quanto l’espressione artistica e creativa trovi nella riservatezza il match perfetto, locus amoenus in cui mettere a fuoco idee, arrangiamenti, possibilità melodiche ed improvvisative, che in Redman scoppiettano come le girandole dei dipinti seicenteschi.
Ancora una volta, e con maggior acribia, l’album è anche l’attestazione di come al centro dell’interesse del sassofonista californiano ci sia la tradizione, propulsore privilegiato per navigare in linguaggi tutti ancora da esplorare. D’altronde nel 2018, aveva pubblicato il magnifico Still Dreaming (con Scott Colley, Brian Blade e Ron Miles), sulle tracce del padre Dewey e della sua Old and New Dreams, formazione attiva nel decennio 1975-1985, a sua volta tributaria degli ensemble di Ornette Coleman con i quali Redman padre aveva militato. L’adesione familiare alla voglia di shape of jazz to come, la voglia di modellare il nuovo jazz dalla tradizione è comun denominatore. E tutto torna, in un legame senza soluzione di continuità fino a questo «Where Are We?», per il quale Josh ha chiamato a raccolta, oltre a Brian Blade (più che un batterista di riferimento, una vera miniera d’ispirazione), Aaron Parks al piano, Joe Sanders al basso, e, per la prima volta nella sua esperienza discografica una voce, Gabrielle Cavassa, talentuosissima cantante dai mille colori, scovata una notte a New Orleans da Ann Marie Wilkins, rocciosa manager di Redman (dirà di lei: «Ha la capacità di farti entrare dentro la musica. È il tipo di intimità e vulnerabilità con cui riesce ad esprimersi, è il suo suono a renderla unica a accattivante»).
A questo parterre, non esattamente di seconda fila, Redman ha pensato di accostare una serie di ospiti d’eccellenza (Peter Bernstein, Kurt Rosenwinkel, Joel Ross, Nicholas Payton), assegnando loro un brano che si riferisse alla città d’origine. E infatti «Where Are We?» finisce per essere il suo personalissimo Greyhound tra città-simbolo del jazz, passando anche per strade fuori mappa: da una irriconoscibile Streets of Philadelphia di Bruce Springsteen alla Chicago di Sufjan Stevens.
Dal patriottismo modulato nella citazione del tema di This Land Is Your Land di Woody Guthrie in apertura dell’album fino alla chiusura con Alabama di Coltrane, scritta per l’attentato razzista del Ku Klux Klan a Birmingham nel 1963, Redman viaggia a bordo della speranza razionale, con radici nella storia degli Stati Uniti, non chiudendo gli occhi di fronte alle mille contraddizioni di un Paese che, comunque la si guardi, ha tentato di affermare i valori di libertà ed autodeterminazione dei destini sotto il nome – pur ambiguo – di democrazia.
Partiamo dal contenuto dell’album, tredici brani che in realtà sono molti di più, perché hai fuso in molti casi più di uno standard. La valorizzazione della tradizione sembra centrale
Certo, la tradizione jazz si è sviluppata attraverso le inclinazioni, le pratiche esecutive, i linguaggi musicali del passato: è storia ricca e vibrante, offre sempre un grande serbatoio al quale poter attingere. Questo fa sì che il materiale disponibile sia qualcosa di vivo, puoi sentirlo respirare, non è solo una scatola chiusa. Resta al contrario un dato che alimenta e ispira il presente ed è così che mi fa sentire la tradizione. Sono stato influenzato in modo profondo e radicale dai musicisti del passato; si potrebbe pensare che esistano principi fondanti cui riferirsi, ma per me si è sempre trattato di utilizzare quelle esperienze per tentare di esprimere me stesso con il massimo della schiettezza, onestà, energia e vitalità nell’attimo espressivo.
Per questo viaggio hai scelto, per la prima volta nella tua produzione discografica, di avvalerti di una cantante: Gabrielle Cavassa. È stato difficile comporre la natura melodica del sax con un altro strumento affine come la voce?
Non voglio dirti che sia stato semplice, ma forse neanche complicato. È stato appassionante entrare dentro un universo sonoro differente; ovviamente non era la prima volta che suonavo con una cantante, ma è stata la prima volta che ho cercato di trarne un intero mondo musicale; molte cose le abbiamo imparate strada facendo, alcune funzionavano meglio di altre e così il processo di realizzazione è stato per un verso inusuale, ma per un altro naturale e senza strappi. Abbiamo instaurato un buon rapporto tra di noi e abbiamo imparato a dialogare, riconoscendo ciò che ci sembrava riuscire meglio. Gabrielle è una cantante che, fondamentalmente, utilizza il lato lirico della voce, non fa scat e questo va benissimo, in fondo c’era il sassofono per quello, ma lei ha mantenuto nell’album un rimarchevole controllo dei range melodici e dell’espressività.
A proposito di scat e improvvisazione, il tuo linguaggio dimostra di avere ancora una volta una spiccata vocazione narrativa; trascrivendo le tue frasi si vede quanto coerente sia il flusso tra ciò che viene prima e ciò che viene dopo quello che stai suonando
Quando sono in un particolare stato di grazia, quando improvviso, la sensazione è quella di non pensare a nulla, forse neanche a raccontare una storia in sé. Vivo solo dentro quel momento, cerco di connettermi a ciò che io e gli altri musicisti stiamo provando a comunicarci. L’esperienza più vicina a ciò è a quando parlo di musica, in quel caso ho un eloquio molto più fluente rispetto a quando devo discutere di faccende che riguardano strettamente me, sono un tipo introverso: riesco molto di più a sentirmi dentro un gruppo sociale quando suono con altri musicisti. Del resto per me il jazz resta una forma di linguaggio e anche se non esiste un traduttore automatico tra le note e le parole, percepisco che tutto ciò che dico è collegato a ciò che ho detto prima per aiutare a determinare cosa dirò dopo. È una magnifica senzazione: parlo con i musicisti, li ascolto.
Non esiste più alcuna difficoltà tecnica, a quel punto…
Direi di no. Devi imparare il più possibile della tecnica – per fortuna lo faccio da anni – poi usarla come linguaggio. Sia chiaro, è un processo in espansione: continuo ad imparare un mucchio di cose, non mi sento mai abbastanza pronto tecnicamente e allora studio, perché magari quello che mi sembrava di aver capito, lo facevo in realtà nel modo sbagliato e allora trovo vie migliori, soluzioni più efficaci. Non se ne sa mai abbastanza. Però poi la faccenda cambia quando salgo su un palco per suonare: a quel punto non esiste più nulla, non sto più esercitandomi, cerco solo di dare voce a ciò che ha senso in quel momento specifico, qualunque cosa sia.
Quando parli di confronto con altri musicisti, mi viene in mente che in «Where Are We», ancora una volta, c’è Brian Blade alla batteria, si direbbe il partner ideale per la tua musica
Assolutamente sì. Brian ha accompagnato la mia intera vita di professione musicale, non riesco neanche a trovare le parole giuste per parlarne, è semplicemente speciale, uno dei più grandi con cui abbia mai suonato. Sai cosa? Il punto è che ciò che fa alla batteria non ha nulla a che fare con la batteria. Lui riesce a governare ciò che stiamo suonando e, dopo averlo inserito al centro del discorso musicale, imprime le sue idee, il suo mondo, la sua anima; questo conferisce forza ed energia incredibile a tutti, è un’esperienza davvero fenomenale suonarci insieme. Posso dire, con una sintesi, che Brian è la musica; capisci? Empatizza, assorbe e irradia. Quello che sarebbe difficile per qualunque strumento, e per la batteria in particolare, in lui diventa naturale: è magico vedere in azione la sua sensibilità verso la melodia e l’armonia che sono tutto fuorché faccende strettamente batteristiche.
Il brano d’apertura dell’album, After Minneapolis, è piuttosto cupo, hai scritto anche le parole (molto dure) di questa unica composizione a tua firma nel disco. È stato composto sulla scia dell’assassinio di George Floyd il 25 maggio del 2020 e alla riaffermazione del #Blacklivesmatter. In chiusura hai scelto Alabama di Coltrane. È sbagliato mettere in connessione questi due brani?
Diciamo subito che sento di non meritare in alcun modo di essere messo in relazione con John Coltrane. Quel suo brano, comunque lo si voglia definire, è semplicemente uno dei più grandi esempi di giustizia sociale nella storia della nostra musica jazz, quindi, mi ci sono accostato con grande umiltà, deferenza e senso di rispetto; è questo il mood con cui mi sono azzardato a registrarla. Ora, non voglio dire che After Minneapolis faccia parte dello stesso contesto, ma certamente è una specie di unicum nella mia produzione, considerato che non ho mai composto riferendomi a fattori politici. In realtà non sono neanche sicuro che sia una canzone politica, ma certamente riguarda un fatto politicamente orribile e trasformativo a livello sociale nella vita della nostra Nazione. L’ho posizionato in apertura, questo è vero, così come Alabama è la vera chiusura del disco, una specie di epilogo, in questo senso c’è un filo rosso tra i due, in termini diacronici. Dall’attentato di Birmingham del 1963 all’omicidio di George Floyd nel 2020 sono passati ben settant’anni e in qualche modo ciò fa riflettere e interrogarsi.
Tra l’altro nelle note di copertina scrivi che vivere in America è allo stesso tempo un dono e un debito. Cosa intendi nello specifico?
Intendevo dire che l’America ha ancora tanto da offrire. È un dono per la grande generosità e bellezza che questa terra dispensa. C’è un motivo per cui le persone continuano a venire, è uno spazio tanto vasto e vario, in grado di offrire ancora speranza. E poi restano forti gli ideali fondativi del Paese: la democrazia, il rispetto per la diversità, i diritti individuali e quelli umani. Tutto ciò che è scritto nella Costituzione e nel Bill of Rights, diciamo. Sono questi gli ideali ai quali ci aggrappiamo, io personalmente ci credo e credo siano un dono da condividere. Ma non possiamo dimenticare che l’America si è costruita sull’oppressione di altri uomini: c’è stato il massacro dei nativi americani, la schiavitù della gente nera e questi sono crimini orrendi contro l’umanità. È questo il debito da saldare in futuro da chiunque voglia continuare a perpetrare quello che s’è definito il sogno americano.
Tra l’altro tu sei nato e vivi a Berkeley, pochi chilometri da San Francisco. Le cronache dei giornali raccontano di una ripresa forte della criminalità e della povertà che stanno rendendo la città difficile da vivere.
Sì, hai ragione, San Francisco sta vivendo un momento particolare e ha grandi sfide davanti, ma resta un posto magnifico. Ovviamente la mia città è molto diversa, anche se a sua volta ha i suoi problemi. Non so se vivrò nella Bay Area per il resto della vita, d’altronde in passato sono stato dieci anni a New York e poi sono tornato. Ma ci tengo a sottolineare che è ancora un posto bello da vivere, speciale a suo modo. Intendiamoci, si respira una sorta di paralisi delle politiche liberali e progressiste e questo, oltre a essere una sfortuna, ha portato diversi problemi, ma, ancora una volta, c’è qualcosa di profondo nello spirito e negli ideali di questa regione degli Stati Uniti in cui mi riconosco e in cui credo, il progressismo culturale.
Allo stesso tempo, anche per il concept di questo «Where Are We?», il viaggio ha una dimensione importante per te.
Anche questo lo considero un dono: poter viaggiare tanto per lavoro. Adesso mentre parliamo sono a Vienna, che è una città d’arte incredibile, ma diventa sempre più complicato riuscire a godersi lo spirito dei posti, soffro un po’ gli spostamenti continui che rendono più anonimi i luoghi.
Appena posso provo a riprendermi i miei spazi, per esempio vado a correre con una certa frequenza e questo mi consente di esplorare le città nelle quali suono, così come resto un appassionato di caffè e quindi mi informo sempre su quale sia il migliore in città, ci resto un po’, osservando le persone, le cose fuori dal vetro, cercando di cogliere qualcosa dei luoghi. Va anche detto che, pur non essendo sempre possibile, l’esperienza irripetibile è poter suonare musica con colleghi fortissimi e per un largo pubblico in giro per il mondo.

Tra i luoghi più sorprendenti di questo tuo viaggio musicale, c’è un brano nel disco, New England, che è uno degli standard meno noti e più rari dell’American songbook, credo sia stato eseguito solo da Betty Carter.
Si tratta di un’intuizione di Gabrielle Cavassa, è lei che ha tirato fuori questa canzone, che a dire la verità non conoscevo. Appena abbiamo iniziato a progettare un album con canzoni che riguardassero luoghi, mi ha proposto New England e l’ha cantata: è semplicemente perfetta per lei. Non credo sia solo una questione legata alle parole, è proprio il fraseggio della melodia che la rende speciale nella sua interpretazione e così è diventata una di quelle che facciamo sempre durante il tour, perché viene particolarmente bene. A me è venuta l’idea di fondere quel brano con una parte di Three Places in New England di Charles Ives, che ho utilizzato come intro. È uno dei casi in cui nel disco abbiamo mescolato elementi di brani diversi, questo ci ha consentito di esprimere al meglio l’idea alla base del progetto.
Un progetto che hai realizzato, per la prima volta nella tua discografia, con Blue Note e Don Was. Come è andata l’esperienza con un’etichetta tanto importante per la storia della musica jazz?
Sinceramente mi hanno dato una mano incredibile a concretizzare le mie idee; considera che quando l’ho ideato non avevo etichetta e l’ho realizzato per conto mio, e solo quando l’ho finito ho voluto portarlo alla Blue Note per capire se potesse piacere. Una bella emozione, perché su quei dischi io ho imparato a suonare jazz, credo sia la più importante etichetta per la storia di questa musica. Don lo conosco da un mucchio di anni, trenta o trentacinque, neanche ricordo più, è stata una bella fortuna aver potuto finalmente lavorare insieme.
Però registrare per etichette così prestigiose, così come esibirsi nei templi sacri del jazz dal Village Vanguard in poi, ti fa sentire la responsabilità di essere parte integrante di una storia antica e in continua evoluzione?
Provo a non pensarci! Però devo dirti che avverto la responsabilità ogni singola volta che suono; tuttavia non mi sento mai, come dire, degno o paragonabile agli standard qualitativi dei grandi musicisti che per me sono stati degli idoli. Certo, in qualche modo non riesco a non provare un’emozione fortissima in alcuni contesti: quando sono al Vanguard e scendo i gradini del locale e inizio a suonare in quello spazio, arrivano i fantasmi dei giganti e in qualche modo riverberano dentro di me. Lo stesso quando si è trattato di registrare per Blue Note: sono consapevole di che razza di catalogo storico di registrazioni abbiano ed è difficile solo pensarlo. Però, ti ripeto, la musica è sempre un fatto speciale e sacro e voglio onorare questa sacralità, dargli un senso tutte le volte che prendo in mano lo strumento ovunque sia.
Negli ultimi anni sei reduce anche da tre magnifici album con Christian McBride, Brad Mehldau e Brian Blade, siete un quartetto davvero fuori scala per qualità, ognuno singolarmente all’apice delle proprie possibilità espressive. Com’è lavorare con loro, c’è mai il rischio di qualche forma di competitività o leaderismo da fronteggiare?
Al contrario, è magnifico! Perché siamo quattro musicisti che di fatto appartengono alla stessa generazione e quindi è un piacere riuscire a connetterci insieme, imparare e crescere ascoltandoci l’un l’altro. Oddio, poi in realtà quando ho iniziato io a suonare loro erano già top players ed era oltre ogni mia immaginazione pensare che avremmo potuto lavorare insieme. Dico sempre che il modo in cui scelgo i musicisti è determinato dal fatto di avere gente migliore di me, così da poter approfittare della loro eccellenza. Questo è esattamente uno dei casi: loro tre sono – fuor di ogni dubbio – tra i migliori musicisti di tutti i tempi. C’eravamo conosciuti tanti anni fa, venticinque credo; a suo tempo, abbiamo suonato per circa un anno e mezzo insieme ed è stato emozionante ritrovarsi dopo tanti anni come quartetto, ho pensato: «Diamine, questa sì che è una band!».
Merito anche del groove che tirate fuori, molto diretto. A questo riguardo, tempo fa hai dichiarato che il jazz ha un linguaggio molto complicato. Eppure, è nato come musica per la gente, non c’è il rischio che un eccesso di intellettualizzazione allontani il pubblico?
La domanda è interessante. Certamente il rischio c’è. Tutto dipende da che obiettivi e valori ti poni come musicista. Ovviamente, non appena la musica diventa più complessa, rifinita e, in alcuni casi, sofisticata è inevitabile che non soddisferà un ampio spettro di pubblico né potrà farsi interprete di ogni classe sociale. Parlando nello specifico di jazz, credo che la questione di confine tra arte e intrattenimento sia sempre esistita. Dai suoi esordi fino al bebop è stata molto vicina alla musica popolare del tempo, ne incarnava lo spirito; ma dal bebop in poi c’è stata una diversa presa di consapevolezza: quella di essere un movimento artistico e i musicisti si sono dovuti confrontare con il fatto di essere più artisti che intrattenitori.
Questo non significa che la musica non debba essere intrattenimento, ma un Rubicone da allora è stato attraversato. Personalmente, il mio desiderio è di connettermi col pubblico al livello più alto e sofisticato possibile, anche quando suono in modo viscerale e ruvido. Non ho mai avuto la preoccupazione di essere un musicista popolare e non sono interessato a sfornare hit per avere successo. Il mio obiettivo è solo di suonare la mia musica nel modo più profondo e complesso, in contemporanea raggiungere il cuore delle persone. Penso che sia possibile, sinceramente.
Quando sei arrivato a New York per iniziare a studiare legge a Yale, ti eri appena laureato in scienze sociali ad Harvard, poi il destino ha preso tutt’altra piega. Ma i tuoi studi sono stati utili per il futuro da musicista?
Non in modo diretto, mi hanno certamente arricchito come essere umano, però non ero felice da studente universitario, nonostante ancora oggi la consideri un’esperienza utile. Tuttavia, quegli studi mi hanno insegnato a rapportarmi al mondo in modo diverso, a sviluppare meglio il pensiero critico. Questo è ciò che ti insegnano gli studi umanistici, e questo è filtrato senza dubbio nella mia personalità. Dopo di che, io volevo a tutti i costi essere un musicista e sapevo che sarei dovuto andare a scuola per colmare tutte le lacune che non avevo avuto modo di affrontare durante gli anni di istruzione universitaria: un bell’arretrato, insomma.
Per concludere, c’è da dire che nell’album rispondi così alla domanda del titolo: dove siamo? Siamo dove siamo. Il resto è una precisa mappa geografica attraverso gli Stati Uniti. Eppure noi due per questa intervista ci stiamo connettendo grazie alla tecnologia e quindi dove siamo? In altre parole, ti spaventano questi cambiamenti anche nelle relazioni?
Stiamo vivendo nel bel mezzo di una incomprensibile rivoluzione tecnologica. In particolare in quest’ultimo periodo, il mondo è cambiato radicalmente e probabilmente anche gli esseri umani lo sono, ma non abbiamo ancora realizzato il grado di questo cambiamento, la portata reale. Quando parliamo di intelligenza artificiale, per esempio, parliamo esattamente di questo. I prossimi anni saranno qualcosa in più che un semplice shock; non riesco a trovare le parole giuste, mi verrebbe in mente «cataclisma», ma non sarebbe corretto perché implicherebbe un giudizio negativo, che non necessariamente questo cambiamento ha.
Non so immaginare che umanità saremo tra cinque anni né quanto la tecnologia impatterà sulle nostre vite. Io non resto estraneo a questi processi: ho il mio iPhone, utilizzo il web o Google Maps, ma non mi sento ancora schiacciato dalla tecnologia; considera che non uso videogiochi, non guardo la tv, non mi aggiorno, anzi mi considero una persona low-tech. Non mi interessa la realtà virtuale, non ho voglia di utilizzare alcuna chat, immagino che GPT sia divertente ma non voglio averci a che fare. Un giorno magari queste cose sovrasteranno la mia vita senza darmi possibilità di scegliere, ma finché potrò scegliere voglio restare la persona disarticolata, imperfetta, inefficiente, torturata e ansiosa che sono!