Ci sono diverse cose che rendono affascinante l’idioma afro-americano. Una di queste è la sua vitalità, che gli rende estranea qualsiasi accademizzazione, la stessa che ha trasformato la grande musica sinfonica europea in un’esclusiva per borghesi ben educati. Per la verità un tentativo di questo tipo c’è stato all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, un periodo in cui si è cercato di trasformare il termine «jazz» in sinonimo di rispettabilità. Molti iniziarono a parlare di «musica classica americana», una musica raffinata e sicura, buona come sottofondo in una sala da caffè o come colonna sonora di una pubblicità di alta moda. L’obiettivo era cercare di ricatturare l’atmosfera della fine degli anni Cinquanta beneficiando del sostegno di istituzioni come il Jazz at Lincoln Center o il National Endowment for the Arts e l’uomo comune, pensando al jazz, ricreava nella sua mente qualcosa di elegante ma inerte, qualcosa che aveva più a che fare con l’iconografia che con la musica che, a sua volta, diventava impeccabile, preziosa, ma leggermente noiosa. Il jazz, però, come si diceva, è vitale ancora oggi, nonostante il cicaleccio dei sempre presenti detrattori, e i suoi musicisti – molti tra quelli delle nuove generazioni – riescono ancora, all’interno della tradizione, a sviluppare una voce assolutamente individuale che l’ascoltatore riesce a riconoscere immediatamente, come quella di un vecchio amico al telefono. È la ricerca di uno stile ma anche la ricerca di una «voce interiore». Se questo è vero per alcuni strumenti (tromba, sassofono, pianoforte) il discorso diventa un po’ più complicato per gli strumenti ritmici, primo fra tutti la batteria. Riconoscere un batterista per un ascoltatore medio è impresa ardua, troppe le trasformazioni che hanno portato questo strumento, inizialmente considerato dal profano «buono per fare baccano», a diventare prima indispensabile per creare lo spazio in cui avviene la musica – è il batterista che crea lo swing – e poi strumento solista a tutti gli effetti. «L’uso della batteria nel jazz non ha precedenti nella storia della musica» ha scritto il compianto e autorevole Stanley Crouch «È un modo originale di assemblare e suonare tamburi e piatti facendo venir fuori un tipo di virtuoso dotato di una coordinazione indipendente di tutti e quattro gli arti». Johnathan Blake, quarantasette anni, figlio d’arte (suo padre era il violinista John Blake, che ha collaborato, tra gli altri, con McCoy Tyner e Grover Washington Jr.) è uno di quei batteristi moderni che sono riusciti a crearsi uno stile riconoscibile, in perfetto equilibrio con gli insegnamenti dei grandi batteristi neri del passato. Johnathan suona abitualmente nel quintetto di Tom Harrell, nel trio di Kenny Barron ed è il batterista di riferimento di Jaleel Shaw (un altosassofonista non molto conosciuto in Europa che però riscuote consensi, e non da ora, nella Big Apple), ma è anche un leader. Ha inciso finora cinque album, tra cui l’ultimo, il recente «Passage» (Blue Note), già recensito su queste pagine e che si avvia a diventare, almeno a nostro avviso, il miglior disco di jazz di questo 2023. Con lui Immanuel Wilkins al sax contralto, David Virelles al pianoforte, Joel Ross al vibrafono e Dezron Douglas al contrabbasso, gli stessi che hanno inciso con lui un paio d’anni fa «Homeward Bound» sempre pubblicato con la Blue Note.
Ho ascoltato il tuo disco con grande attenzione. Per me è «il» disco di jazz dell’anno. C’è una dedica ad un batterista, Lament For Lo, una a tuo padre, Passage, una ballad deliziosa, Out of Sight, Out of Mind, e la mia track preferita, West Berkeley St. Parlami della genesi di questo disco…
In realtà è il seguito del mio penultimo disco inciso sempre per la Blue Note, «Homeward Bound», che era dedicato a Ana Greene-Marquez, la figlioletta del sassofonista Jimmy Greene e della flautista Nelba Marquez, che fu assassinata alla Sandy Hook Elementary School, nel Connecticut, da un ventenne ex studente della stessa scuola: un vero e proprio massacro in cui morirono ventisette persone, venti bambini e sette adulti. Jimmy era molto legato a quella bimba e loro per me erano come la mia famiglia. Io e Jimmy suonavamo insieme nella prima band di Tom Harrell e ho sviluppato con lui un rapporto molto intimo. Quando Jimmy e Nelba persero Ana per me fu come aver perso mia figlia. Era una bimba così positiva, piena di energia, è stata una vera e propria tragedia. «Passage» è il seguito di quel disco ed è pervaso da un’aura di malinconia che inevitabilmente mi ha portato alla mente i miei ricordi, quelli di mio padre, per esempio, che non mi ha mai forzato in nulla. Lui non ha avuto alcun ruolo nella mia scelta di voler suonare la batteria, ti dirò di più, non mi ha mai influenzato nella mia scelta di voler diventare un musicista. Ovviamente quando si accorse che il mio era qualcosa in più di un interesse è stato una guida molto importante per me. Ed è per questo che ho deciso di dedicare questo disco a lui. Ho voluto, con la stessa formazione, passare dalla celebrazione di una persona per me importante (la piccola Ana) a quella di un’altra persona importante (mio padre). Quindi questo disco è dedicato a lui. Come sai era un grande violinista, ha suonato per cinque anni con McCoy Tyner, con Grover Washington Jr. per tre anni, e nello stesso tempo è stato sempre molto attento alla sua famiglia, cui dedicava molto spazio. Ogni volta che poteva ci portava in tour con lui. Considero questo disco un’occasione per far conoscere a più gente possibile la sua musica: la title-track non è una dedica a mio padre bensì proprio una sua composizione che non fu mai registrata. Era una gran bella persona, e in tutto il disco c’è lui: Out of Sight, Out of Mind (lontano dagli occhi, lontano dal cuore) vuole riferirsi al fatto che quando una persona non la si vede per molto tempo si tende a dimenticarsi di lei, e non voglio che accada per mio padre.
Raccontami della tua vita: com’è iniziata la tua passione per la musica, dove sei nato, appunto il rapporto con tuo padre, eccetera.
Sono nato a Filadelfia e in quel periodo mio padre aveva da poco iniziato a lavorare professionalmente con Grover Washington Jr. Era la metà degli anni Settanta. Da piccolo ero spesso in giro con lui, ho delle foto con mamma e papà in giro per San Francisco con me nel passeggino. Sono cresciuto con la musica in casa, ho due sorelle più giovani di me e la musica è importante per tutti noi. Abbiamo preso lezioni private, io ho iniziato suonando il violino che ho avuto come primo strumento quando avevo tre anni e che ho suonato fino alle scuole medie. Purtroppo è uno strumento che ho abbandonato. A dieci anni ho iniziato a suonare la batteria. I miei genitori mi dicevano che ero affascinato dal ritmo già in tenera età, suonavo le pentole e le scatole in cucina costruendo delle batterie molto rudimentali. Passavo le mie giornate così, cercando di riprodurre gli stessi ritmi che ascoltavo in radio. Quando avevo cinque anni a scuola presi delle lezioni gratuite da un professore il quale faceva test attitudinali (che io superai). Ricordo che se riuscivi a superare quei test potevi scegliere lo strumento cui dedicarti. Io, all’epoca, suonavo il violino nell’orchestra della scuola, ma quando quel professore mi chiese di scegliere lo strumento gli dissi che volevo suonare la batteria. Ci fu un periodo, di circa un anno, in cui suonavo entrambi gli strumenti, il violino e la batteria, ma ricordo che mio padre venne da me e mi disse che se volevo dedicarmi alla batteria dovevo imparare a suonare il pianoforte. Non fui molto contento però dopo un momento in cui non volevo seguire il suo consiglio, capii che era importante e decisi invece di fare come diceva lui. Presi delle lezioni di pianoforte in modo da avere una preparazione sull’armonia e sulla melodia e quando i miei genitori si accorsero che avevo ottenuto dei risultati mi regalarono una batteria. Nella tavernetta della nostra casa a Filadelfia, mio padre aveva costruito un piccolo studio dove passavo le mie giornate a suonare la batteria e in cui c’era la sua collezione di dischi con la quale mi sono fatto i rudimenti della mia cultura musicale. È così che ho iniziato ad esplorare la musica. Verso i quattordici anni ho iniziato a suonare in una band e in città c’era un programma sociale che aveva favorito la formazione di un sacco di scuole di musica di cui mio padre faceva parte. Fu in quel periodo che approfondii la conoscenza del pianoforte suonando anche la batteria in una big band di cui lui era il direttore. Conobbi Jaleel Shaw di cui divenni molto amico – lo siamo tuttora – e quella esperienza nella big band fu per me estremamente formativa. Ricordo un direttore che divenne per tutti noi un vero e proprio mentore, non solo per me ma per gente come Joey DeFrancesco, Christian McBride, Immanuel Wilkins, Justin Faulkner. Ero un teenager e ricordo quella della big band come un’esperienza fantastica.
Quanto tempo al giorno dedichi alla pratica del tuo strumento?
Dipende. Mi piacerebbe avere un sacco di tempo a disposizione per farlo ma sono costretto a programmare tutto in anticipo e, compatibilmente con il tempo a disposizione, cerco di focalizzare gli obiettivi e studiare qualcosa di specifico. Di solito mi scrivo le cose da fare in modo da avere le idee molto chiare evitando di sprecare tempo. Tieni presente che ho due bimbi e devo trovare anche il tempo da dedicare a loro, oltre al fatto che insegno e bisogna trovare anche spazio da dedicare all’attività didattica anche se, devo dire, l’insegnamento è un modo per poter continuare a studiare.
Dove vivi adesso?
Nel nord del New Jersey, molto vicino a New York City.
Quali sono le tue principali influenze artistiche? Come batterista e come compositore…
Innanzitutto i batteristi dell’area di Filadelfia che ho avuto modo di vedere all’opera dal vivo, gente come Mickey Roker, Bobby Durham, Liang Jordan che è stato uno dei miei insegnanti, la lista è lunga. Ma la mia influenza maggiore sulla batteria è stata quella di Elvin Jones: ho avuto la fortuna di incontrarlo quando avevo quattordici anni e già dalla prima volta in cui lo sentii mi innamorai immediatamente del suo modo di suonare. Tutto quello che faceva, lo spirito con cui suonava, il muro di suono che creava ebbe un forte impatto su di me. Volevo suonare in quel modo, almeno avvicinarmi a quel modo di suonare. Come compositore innanzitutto mio padre che è stato il primo ovviamente ad aiutarmi da quel punto di vista quando stavo ancora imparando l’armonia, le progressioni armoniche ecc. Mi aiutava a sviluppare delle prospettive, le più variegate possibili. Poi Béla Bartók, Stravinsky, Mozart e infine i grandi jazzisti come Wayne Shorter, Herbie Hancock, Joe Henderson…
Quanto è importante la tradizione per te?
Molto importante. Non puoi andare avanti se non sai cosa c’è stato prima di te. Vale anche per la conoscenza dello strumento. La devi conoscere se vuoi fare progressi su di esso. Non puoi non imparare il drumming di Philly Joe Jones, Roy Haynes, Elvin Jones, Tony Williams, ma anche Max Roach, Art Blakey. Tutti loro hanno avuto un ruolo nell’evoluzione dello strumento e di come il suo ruolo è cambiato nell’equilibrio di una band negli anni. Un batterista deve conoscerli. Una cosa che li accomunava era il fatto che spingevano in avanti la musica, per esempio Roy Haynes, che a 98 anni ancora è in attività, non suona sempre la stessa cosa, tuttora alla sua età spinge la musica in avanti, cerca sempre qualcosa di nuovo, e c’è sempre da imparare da gente come lui. Tutti questi musicisti che ho nominato erano dei pionieri.
Cosa pensi dell’idea di chiamare la musica afro-americana con un altro nome? Non più jazz ma BAM (Black American Music). Sembra che il termine jazz sia considerato offensivo da molti afro-americani…
Quel termine può essere considerato offensivo se si pensa al fatto che questa musica agli inizi veniva suonata in ambienti in cui si esercitava la prostituzione o attività illegali o con un’accezione negativa. E questo è in contrasto con il fatto che noi cerchiamo di fare musica che vada in una direzione positiva. Sì, qualche volta quel termine suscita in me delle sensazioni sgradevoli, suona così sporco che penso che sia meglio chiamare quella musica in altro modo. Perché allora non definirla pensando a chi l’ha creata, a chi ha avuto un ruolo nel farla partire? Chiamarla «Black American Music» non esclude nessuno, soprattutto non esclude i bianchi. Dobbiamo sfatare l’idea che sia un termine esclusivo: è il contrario, per noi è inclusivo. La musica classica indiana è stata creata dagli indiani ma questo non vuol dire che i non indiani non possano imparare a suonarla, devi però semplicemente chiamarla per quello che è.
Ascolto la tua musica da un po’ di tempo. Sento la grande vibrazione della soul music in quello che fai. Se sei d’accordo parlami della tua relazione con il soul…
È la musica con la quale sono cresciuto. I miei genitori la adoravano, erano grandi fan della Motown, di Stevie Wonder, di Marvin Gaye, delle Supremes. Io sono cresciuto ascoltando i loro dischi e mi piace anche l’hip-hop soprattutto quello degli anni novanta. E devo aggiungere che su di me quella musica ha avuto forse un’influenza ancora maggiore del jazz per cui credo che tutto questo abbia inevitabilmente un ruolo nel modo in cui suono e compongo. Il tuo pezzo preferito dell’ultimo disco, West Berkeley St., racconta proprio della strada in cui sono cresciuto e parla della musica che ascoltavo in radio, appunto la soul music, in gran parte quella della Motown.
Mi piace che tu mi abbia parlato della tua passione per l’hip-hop…
Quando mi sono trasferito a New York ho iniziato a suonare con Q-Tip che suonava con gli A Tribe Called Quest, la mia band preferita dell’epoca. Se ti capiterà di assistere ad uno dei miei concerti, vedrai che ci sono almeno un paio di brani che hanno un beat hip-hop.
E cosa pensi della nuova generazione dell’hip-hop? Quelli della trap per esempio…
La trap, quella che chiamano mumble rap, non mi piace molto. Preferisco l’hip-hop old school. C’è una band che sto seguendo e che si chiama Coast Contra, sono bravi.
Se dovessi scegliere di essere un musicista del passato chi sceglieresti di essere?
Domanda difficile. Ce ne sono tanti. Forse Miles Davis per il modo in cui suonava e perché dava la sensazione di non andare mai di fretta. Più vado avanti negli anni e più mi intriga quel modo di essere rilassato. Altre volte mi piacerebbe essere Max Roach o Elvin Jones. Comunque, a conti fatti, mi accontento di essere me stesso, è ancora la cosa più stimolante per me.
Ti considero davvero uno dei grandi batteristi di questa epoca e credo che tu abbia realizzato tanti dei sogni che avevi da bambino, ma mi piacerebbe sapere se ce n’è uno che non hai ancora realizzato…
È al di fuori della musica e mi piacerebbe che ci rendessimo conto che siamo tutti uguali in un mondo che non deve vivere di disuguaglianze. Dobbiamo capire che apparteniamo tutti a una sola razza, quella umana. Questo è il mio sogno non ancora realizzato.