Una volta chiesero a Thelonious Monk in che direzione lui pensava stesse andando il jazz. Il pianista rispose: «Non ne ho idea. Forse sta andando all’inferno. Non si può spingere qualcosa ad andare da qualche parte. Ci va e basta». Quella era una delle domande che facevo frequentemente ai miei interlocutori durante le interviste. Ma dopo aver letto quest’affermazione di Monk non l’ho fatta più. Se ci pensate, quella risposta contiene una saggezza che si sposa alla perfezione per una forma d’arte che non segue una linea retta e soprattutto oggi si nutre di continui rimandi e rimescolamenti così fitti e variegati che risulta davvero difficile, se non impossibile, delinearne una traiettoria o, peggio ancora, stabilire una previsione. Nel jazz moderno si muovono una serie di personaggi ognuno portatore della propria verità. Provate a fare una domanda del genere a Samara Joy o a Jazzmeia Horn, i cui riferimenti sono le grandi voci del passato, oppure a Aaron Diehl, il cui pianismo evoca quello di John Lewis del Modern Jazz Quartet, oppure a Riley Mulherkar, un trombettista di Seattle, di formazione Juilliard, che milita in una brass band chiamata Westerlies e le cui passioni partono da King Oliver e passando per Louis Armstrong arrivano al massimo a Dizzy Gillespie. Ognuno di loro vi darà una risposta diversa. Il jazz oggi è un gran calderone, una grande spugna assorbente, in cui convivono da un lato musicisti il cui potenziale espressivo si estrinseca con un’articolazione sempre più avanzata di armonia e ritmo e il cui materiale spesso si evolve con una metrica complessa e intricata, e dall’altro musicisti, per lo più di colore, in cui le sinergie tra jazz, hip-hop, soul e musica elettronica rappresentano la loro àncora di salvezza creativa. Alla prima categoria appartiene gente come Ambrose Akinmusire, Steve Lehman, James Brandon Lewis, Vijay Iyer, Tyshawn Sorey, Craig Taborn, Matthew Shipp, Kris Davis, i chitarristi Miles Okazaki e Liberty Ellman, alla seconda ovviamente Robert Glasper, Terrace Martin, Kris Bowers, Nicholas Payton, James Francies, Keyon Harrold, i più giovani Joel Ross, Lakecia Benjamin, Immanuel Wilkins, Giveton Gelin, e l’elenco potrebbe continuare all’infinito. Ma questa è comunque una semplificazione perché ognuno di questi musicisti ha la sua personalità in cui si muove una continua ricerca in bilico tra rispetto della tradizione e esigenze innovative che alla fine è la vera scommessa del jazz moderno. Chi può dire, per esempio, a quale delle due appartiene il sassofonista JD Allen, continuamente in bilico tra le due modalità espressive? Provate ad ascoltare la sua splendida raccolta di ballads del 2018, «Love Stone», e ditemi se non è uno degli omaggi più intensi che un musicista può rendere alla grande tradizione della musica afro-americana. C’è poi un ulteriore genia di musicisti che rifiuta qualsiasi tipo di categorizzazione in cui si muovono, a mio avviso, alcune delle personalità più attraenti dell’ultimo periodo. Il trombettista Theo Croker (il nipote di Doc Cheatham) è uno di loro, Tomoki Sanders (il figlio di Pharoah) si muove in questa direzione, e poi c’è Kassa Overall, che definire batterista è riduttivo. La sua cifra è quella del compositore dalle molteplici sfaccettature, attratto dalle sonorità più disparate in cui i loops elettronici hanno un ruolo preponderante. I più attenti si ricorderanno di lui per averlo ascoltato nel 2009 con Geri Allen in un progetto intitolato Timeline che fu pubblicato nel 2013 da Motéma con il titolo «Timeline Live». Dopo essersi fatto le ossa studiando con Billy Hart e con mentori come Tootie Heath, Billy Higgins e Elvin Jones, ha suonato e registrato – per citare i più famosi – con personaggi come Vijay Iyer, Mayer Hawthorne, Wallace Roney, Ravi Coltrane e Gary Bartz. Kassa è quindi abituato a interagire, con il suo strumento e la sua creatività, in ambiti che spaziano dal jazz all’hip-hop, dall’indie all’avant-garde. La sua musica, un modernissimo concentrato delle influenze più diverse, è piena zeppa di citazioni. Ascoltate il suo album d’esordio, «Go Get Ice Cream and Listen to Jazz», in cui c’è una versione rap di What’s New, una canzone del 1939 composta da Bob Haggart su testo di Johnny Burke, oppure un brano intitolato La Casa Azul, in cui la citazione del riff al pianoforte di Strasbourg/St. Denis di Roy Hargrove (brano del 2008 contenuto in un album intitolato «Earfood») che nello stesso brano interviene alla tromba. Vi renderete conto immediatamente di essere di fronte a un fuoriclasse. Kassa ha inciso finora tre dischi: il secondo si intitola «I Think I’m Good» e l’ultimo è «Animals», uscito da pochissimo sul mercato ein cui il musicista continua a proporci la sua personale scia di un flow inarrestabile e davvero attraente. Solo che ci ha concesso un’intervista durante la quale, oltre a rispondere, non faceva altro che sbadigliare. Non ho ancora capito se fosse stanco, se le mie domande lo annoiavano oppure se quello fosse il suo atteggiamento di difesa di fronte a un interlocutore sconosciuto.
Ti seguo sin dai tuoi esordi. Finora hai inciso tre album l’ultimo dei quali, «Animals», è il motivo per il quale ti sto intervistando. Sono colpito dalla tua idea di musica globale che spazia dall’avant-garde all’hip-hop al jazz. Mi piacerebbe che mi parlassi delle tue influenze musicali e degli ascolti che ti hanno portato a suonare la musica che suoni oggi…
Sono cresciuto in una famiglia in cui si ascoltava un sacco di musica, i miei avevano una nutrita collezione di album in vinile. All’inizio ho ascoltato tantissimo reggae e dub, le produzioni di Lee «Scratch» Perry, i dischi di Bob Marley, quella roba ha influenzato fortemente la mia idea di concepire il prodotto musicale. Con quella musica è venuta fuori la mia indole di produttore. Gli effetti che utilizzo nella mia musica vengono da lì. Poi il jazz, naturalmente, ha avuto su di me un grande impatto a partire da Coltrane, Miles Davis, Thelonious Monk. Infine l’hip-hop rappresenta la mia terza (ma non ultima) fortissima influenza. Sono cresciuto in un momento in cui l’hip-hop iniziava ad avere una forte diffusione. Questi sono i tre pilastri della mia formazione musicale.
Ho ascoltato il tuo ultimo disco e ho letto la lista degli ospiti. Conosco Anthony Ware, Theo Croker, Vijay Iyer ma, perdona la mia ignoranza, non conosco Wiki, Ian Finkelstein, Andrae Murchison, Francis and the Lights, J. Hoard. Mi piacerebbe che mi parlassi di loro. Qual è il mondo dal quale provengono?
È un po’ difficile per me parlarti del loro background. Ti posso solo dire che tutti loro sono delle persone estremamente creative e uniche nelle cose che fanno. È di solito ciò che voglio quando decido di chiedere a un musicista di lavorare con me. Quando cerco un musicista da ospitare in un brano dev’essere qualcuno con una prospettiva unica, non riproducibile, dev’essere uno che nel suo campo ha approfondito tutto quello che c’era da approfondire.
Tu vieni da Seattle, la patria del grunge. Quanto quel genere di musica ha influenzato la tua musica?
Ero un ragazzo, e crescendo mi rendevo conto che c’era una frattura, una divisione tra quelli che seguivano il rock e quelli che seguivano il rap. Il grunge rappresentava un po’ lo spartiacque tra quei due mondi. Solo che con la mia formazione non c’entra quasi per niente. In tutto l’ambiente di Seattle si respirava quell’humus, ma con me non ha quasi niente a che vedere.
Spiritualità, profondità, afro-futurismo. Non credi che oggi queste parole siano troppo usate? E quanto c’è di questi termini nel tuo modo di esprimerti musicalmente?
La parola spiritualità può significare così tante cose. Io non credo che siano troppo usate. La spiritualità è molto importante, anche la profondità ovviamente. Rispetto all’afro-futurismo credo non sia stato detto ancora tutto, comunque si tratta di concetti complessi, da approfondire, e non credo sia questa la sede per poterlo fare. Mi limito a dirti che non sono d’accordo, c’è ancora spazio, e molto, per queste tre parole.
Se esiste, qual è il limite, il confine, tra la vita e l’arte?
Esiste, ma bisogna fare in modo che diventi una cosa sola. Non ci può essere vita senza arte né arte senza vita.
Quali sono i batteristi che ti hanno influenzato di più? E perche?
Elvin Jones: ha suonato con Coltrane, uno dei miei miti, e ho avuto la fortuna di vederlo in azione per ben nove volte. Credo che il suo modo così naturale di suonare sia unico. Poi Billy Hart, il mio insegnante. Questi sono i due più importanti, ma come puoi immaginare l’elenco potrebbe diventare molto lungo.
Se fossi un musicista del passato chi vorresti essere?
Me stesso, ma nel passato. Non riesco a vedermi nei panni di nessun altro.
Qual è il tuo sogno segreto, se ne hai uno?
Vorrei essere un comico!
Il tuo prossimo progetto?
Non è ben definito, ho da poco iniziato a lavorarci e ho delle idee ma sono tutte ancora da sviluppare.