Helen Merrill: la musica è sempre la mia vita e le appartengo così come lei appartiene a me

Anni dopo la nostra ultima intervista – era il 2009 – torniamo a casa di Helen Merrill, che nel 2023 ha compiuto 94 anni ed è da poco riapparsa in pubblico, dopo un lungo periodo in cui non ha dato notizie di sé, per assistere a un’importante serata in suo onore

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Spesso chi fa un mestiere come il nostro, nel rincorrere le vite tortuose e le vicende del tutto inusuali dei musicisti che abbiamo a cuore, sogna di possedere una macchina del tempo. Uno di quegli aggeggi fantascientifici – che forse un domani potrebbero diventare reali – che permettono di viaggiare indietro o avanti negli anni per potere vivere sul serio certi avvenimenti speciali. Una serata al Three Deuces di New York seduti ad ascoltare Charlie Parker? Una prima a Broadway del nuovo show di Cole Porter, con lui presente in sala? Miles Davis al Plugged Nickel? Louis Armstrong mentre incide West End Blues con gli Hot Five? Duke Ellington e la sua orchestra nel 1929 al Cotton Club? Abbiamo i dischi, per fortuna, ma l’immaginazione a volte non si accontenta. E poi ci viene incontro la storia, quella vissuta davvero dai protagonisti con i quali abbiamo la fortuna di poter entrare in rapporto e magari in amicizia. Uno di questi casi è quello di Helen Merrill, che avremmo visto volentieri mentre registrava il suo primo album con Clifford Brown oppure poco dopo, con il geniale Gil Evans. Helen ha avuto una vita non facile, anche se possiamo dire fortunata: cantante di raffinata sensibilità, dalla voce carezzevole ma allo stesso tempo affilata come una lama di rasoio, ha attraversato sette decenni di musica con alti e bassi, a volte lontana dall’America, dove è nata nel 1929 da genitori croati, preferibilmente in Giappone o da noi, in quell’Italia così vitale fra gli anni Cinquanta e Sessanta. La prima volta che abbiamo incontrato Helen a casa sua era il 2009 (l’intervista uscì su Musica Jazz di quell’ottobre), quando aveva «solo» ottant’anni, suo marito – l’arrangiatore Torrie Zito – era ancora vivo e lì con lei (sarebbe scomparso quello stesso anno), e c’era sempre chi la voleva on stage soprattutto dal Giappone, dove tuttora conta una lunga schiera di ammiratori irriducibili. Poi le frequentazioni, i concerti nei club di New York dove ostinatamente voleva venire da sola, con l’autista, per ascoltare qualche nuovo musicista (mai una cantante, se non in rare eccezioni), i premi: uno davvero straordinario in suo onore alla sede della BMI (una delle principali società degli autori negli USA). La grande tragedia arriva nel 2020: il covid le porta via l’unico figlio, Alan, musicista anche lui, ma attivo nel pop. Da allora scompare: forse si è ritirata tra i nipoti, e comunque si teme molto per la sua salute. Infine il ritorno inatteso e tanto sperato: una serata speciale al Birdland lo scorso maggio dove l’orchestra di Ryan Truesdell ripropone dal vivo per la prima volta tutto «Dream of You», l’album che Helen incise nel 1956 con la direzione d’orchestra e gli arrangiamenti di Gil Evans, con quella sua bella foto in copertina, il sorriso smagliante da ragazza piena di vita in primo piano. Helen è lì, seduta davanti all’orchestra, a godersi la serata in suo onore accanto all’amica Sandy Stewart (cantante anche lei, nonché madre del pianista Bill Charlap). Di fronte a Helen la cantante della band, Wendy Gilles, è visibilmente intimorita al confronto con la star originale di un tempo, che viene salutata da tutti con una standing ovation. L’occasione per un nuovo appuntamento è dunque imperdibile: Helen appare ancora lucida nonostante gli acciacchi e l’età, ma è il suo spirito indomabile che le ha fatto superare tutto e tutti. La sua badante è una signora amorevole, che ci tiene a preparare un caffè italiano nello stesso appartamento dell’Upper East Side di quattordici anni fa. Central Park non è lontano, così lei esce ogni tanto a fare due passi accompagnata dall’amica.

Helen, canti ancora o ti sei fermata?

Certo che continuo! È tutta la mia vita! Perché dovrei fermarmi?

Non sei stanca?

No, mi stanco solo a stare ferma. I giapponesi mi chiedono ancora di andare lì a cantare: la settimana scorsa al Birdland, quando c’era la celebrazione di «Dream of You», uno di loro si è avvicinato e in ginocchio mi ha fatto un sacco di complimenti. Diceva che ero stata straordinaria l’ultima volta che mi aveva ascoltata a Tokio. Voleva che tornassi di nuovo nella sua città. Era molto insistente e garbato come lo sono certi uomini giapponesi, ma io ora non me la sentirei di fare un viaggio così lungo. Il Giappone a suo tempo fu una scelta un po’ folle per me: mi volevano ma io avevo paura, non sapevo nulla di quella cultura. Mi tuffai verso il nuovo, spinta come al solito dalla curiosità. Andò benissimo. 

Ora ti chiedono di registrare un album?

No. Forse questo richiede un certo investimento economico che oggi è diventato difficile sostenere. Però mi esercito a casa, anche se molto meno di una volta. So che faccio male. Dovrei impegnarmi di più. Spesso gli amici musicisti mi venivano a trovare e cantavo con loro. 

Recentemente mi è capitato di trovare due tuoi dischi piuttosto rari: uno con John Lewis in quintetto, «Django» (1977, Mercury), l’altro con Ron Carter, «Duets» (1989, Emarcy). Ambedue splendidi.

Oh! Li ricordo molto bene! Prima di tutto devo dire che John Lewis era un uomo molto difficile, ma io volevo assolutamente fare un disco con lui. Mi diceva: «Di solito non suono per le cantanti», e io: «Oh, sì, vedrai, vedrai…». Poi le cose andarono molto bene e diventammo anche amici. Sua moglie era croata, per cui John mi disse che aveva una certa conoscenza del nostro modo d’essere. Quando dico difficile, nel suo caso significa che era molto esigente, anche duro a volte, e all’inizio io ero tanto nervosa. Con Ron Carter è stato diverso, siamo ancora in contatto. Andò tutto molto liscio, fu piacevole. Se lo senti salutamelo, è una persona molto cara, gentile.

Sono stati loro a cercarti per registrare?

No, io. Sono sempre io a scegliere i musicisti con cui fare i miei dischi. So cosa voglio. 

Anche quando ti trasferisti in Italia?

Bellissimo periodo. Mi ricordo quel bravo pianista e direttore d’orchestra, Armando Trovajoli: mi disse che ero la migliore cantante con cui avesse lavorato. Anche Piero Umiliani, col quale ho inciso molte canzoni, e naturalmente Romano Mussolini, che non era affatto male come pianista e col quale, come saprai, ho anche avuto una storia. Ma scappai da Romano: sapevo che la nostra storia d’amore era impossibile. Sua madre fu splendida con me, si mise a piangere quando capì che ero veramente innamorata di lui. Romano però era già legato alla sorella di quella famosa attrice italiana, Sophia Loren. Dunque la situazione era davvero difficile, anche per via della famiglia, di quel cognome. Non lo avrei portato via da lì soprattutto per rispetto a sua madre. Non poteva continuare serenamente, quella storia, ma io amavo davvero Romano: era un uomo gentile, anche molto divertente. L’Italia mi ha dato molto, e solo a ricordare quegli anni mi commuovo. C’è anche un bel disco fatto con Piero Umiliani e la sua orchestra su standard americani, «Parole e Musica»: quei musicisti erano bravissimi. In quegli anni cantai alla Bussola quando c’erano le gemelle Kessler, favolose!

Mi sai dire perché sei andata in Italia? Eri una giovane cantante jazz di successo in America.

Perché volevo cambiare aria. E poi l’America non è il solo posto al mondo dove si fa bella musica. Certe volte ho semplicemente bisogno di cambiare e l’Italia mi attirava.

Anni dopo, quando sei tornata a New York, hai incontrato Torrie Zito, famoso arrangiatore, col quale hai lavorato per poi sposartelo.

Torrie era un genio. Ha lavorato con tutti, con i più importanti musicisti. Facevano la fila per potere incidere con lui. L’arrangiamento degli archi su Imagine di John Lennon è opera sua. Aveva iniziato a studiare l’italiano, sai? Una volta l’ho portato con me in Italia: era così felice! Non pensavo avesse imparato bene la lingua, poi un giorno qualcuno gli si è rivolto in italiano e lui gli ha risposto in maniera perfetta. Torrie era un tipo meticoloso e non gli piaceva fare sfoggio delle sue conoscenze. L’avevo incontrato perché desideravo lavorare con lui: avevo ascoltato certi suoi arrangiamenti per cantanti e anche qualche colonna sonora. Accettò di collaborare con me, ma quando tutto sembrava pronto lo chiamarono per fare l’ennesima colonna sonora. Mi arrabbiai tantissimo, ma lo aspettai. Poi fu tutto molto bello, anche facile. Abbiamo fatto molti dischi assieme, mi manca tanto, sai? Torrie era l’uomo che avevo aspettato tutta la vita.

Con Zito hai registrato uno dei tuoi dischi più belli, «Lilac Wine», nel 2002.

Oh, mi fa piacere che tu ti ricordi di quell’album, che io adoro! Con Torrie c’erano Lew Soloff, George Mraz, l’orchestra sinfonica di Praga e anche mio figlio Alan. Una bellissima produzione che ho voluto fare a tutti i costi. 

Fra i musicisti con i quali hai collaborato e inciso, c’è qualcuno in particolare che ti piace ricordare?

Al Haig. Pianista di grande talento, forse poco ricordato oggi, ma certamente amato da tanti musicisti. Con una brutta storia alle spalle: pare che avesse ucciso la moglie. Fu prosciolto, ma molti mi dissero che era vero. Comunque al mio ritorno dal Giappone negli anni Settanta non avevo granché da fare, quindi decisi di produrre tre album con tre musicisti diversi. Uno di questi era proprio Al Haig, che ammiravo molto. Ho registrato con lui solo un brano in duo, They Didn’t Believe Me. Era su un suo disco interamente dedicato alle musiche di Jerome Kern («Helen Merrill Presents “Al Haig Plays the music of Jerome Kern”», EmArcy 1978). 

Parlando con te si sente in maniera forte il tuo amore per la musica, che viene prima di tutto. Da dove ha origine? La famiglia?

Mia madre. Era una brava cantante, non una professionista: amava l’opera e la musica popolare croata. Era religiosissima e mi portava a sentire le opere in teatro, mai il jazz che considerava una musica «non adatta» allo spirito religioso. Da bambina abitavo nel Bronx con i miei genitori, poi ci trasferimmo a Manhattan e io da ragazza cominciai ad interessarmi al jazz, che era la musica di quei tempi. Andavo ad ascoltare il jazz ai club, ma da fuori perché ovviamente non potevo entrarci per ragioni d’età. Stavo lì, in piedi o seduta sul ciglio da qualche parte e sentivo quella musica che usciva dalle porte e dagli sfiatatoi. Era anche pericoloso per me, che ero una teenager, ma mi piaceva da morire. Tutto di nascosto dai miei, naturalmente!

Poi come sei riuscita a diventare una cantante professionista?

Ero all’ultimo anno di college, mia madre era in ospedale e mio padre spesso fuori per lavoro. Quindi per me era più facile andare a sentire il jazz e diventai amica di molti musicisti. Il jazz mi dava un grande senso di libertà. Non ho mai seguito un’educazione formale al canto, però ho cominciato con i jazzisti, durante i party dove ero invitata. Mi sentivo a mio agio e capivo che mi veniva bene cantare quella musica. Leonard Feather organizzava spesso dei party a casa sua. Fu lì che incontrai Billie Holiday. Era seduta al piano e cantava. Feather mi disse: canta assieme a lei! Iniziai a cantare con Billie, ma ero emozionata e alla fine non riuscivo a chiudere il brano. Fu lei a spiegarmi come fare. Diventammo amiche e poi lei mi invitò a cantare nel suo club, a Harlem. Mi aiutò molto, era una donna dolce, disponibile. Il suo problema è che era sempre circondata da uomini che non andavano bene, cattivi. Ogni volta che lei cantava, il suo boyfriend parlava ad alta voce, non gli importava nulla. Poi lei si lamentava di lui. Billie era sensibile, gentile, ma mi sembrava davvero una donna perduta, triste in fondo. L’altra cantante che amavo molto e rispettavo era Sarah Vaughan. Andavo ad ascoltarla ogni volta che potevo, anche se non l’ho mai conosciuta di persona. Ecco, da queste due cantanti posso dire di avere appreso molto, soprattutto il loro timing nel porgere la voce. La tradizione dei canti gospel e spiritual mi interessava tantissimo: li andavo ad ascoltare nelle chiese ad Harlem. Credo che sia stato un insegnamento importante per tutti i cantanti jazz afro-americani che io sentivo molto dentro di me. 

Hai avuto la fortuna di incidere il tuo primo disco con un dei grandi trombettisti del jazz: Clifford Brown.

Anche lì, fin da subito desideravo cantare con Clifford. Avevo Quincy Jones come produttore e arrangiatore, ma il mio chiodo fisso era Clifford, che avevo avuto modo di ascoltare dal vivo e che mi piaceva molto. Ho insistito e l’ho avuto. 

So che hai avuto modo di conoscere anche un altro grande trombettista: Miles Davis. 

Ah, Miles era un uomo particolare, un po’ strano. Mi portò a casa sua a conoscere sua madre, che era una brava donna ma mi sembrava impaurita dal fatto che suo figlio potesse stare con una donna bianca. Avrei potuto avere una storia con lui, ma non era il mio tipo. Mi piaceva molto la sua musica. Geniale. Però non abbiamo mai suonato assieme. Mi ricordo che aveva dei cavalli, che mi portò a vedere. Mi spaventai con quei cavalli, e lui scoppiò a ridere come un matto. Gli piaceva scioccare le persone. Miles era fatto così. Erano tempi diversi da quelli di oggi: la musica era ciò che ci accomunava. Per altri erano anche le droghe, ma io non le ho mai prese, non ho mai voluto neanche provare. Mi sentivo già fortunata a essere dentro quella comunità di musicisti. Certo non volevo distruggermi. Conobbi Cicely, la moglie di Miles: bella e bravissima attrice. Una donna gentile che però lui trattava in maniera un po’ dura. Li andai a trovare nella bella casa che avevano nel West Side. 

Sembra un curioso destino il tuo: donna di sangue croato, nata a New York e presto diventata una cantante jazz molto nota in America. Hai davvero un animo volitivo.

È vero. Il fatto è che ho sempre avuto coscienza di me stessa e sapevo bene cosa volevo. Comunque non è stato facile per me, anche se ero molto amata e rispettata dai musicisti. La musica è sempre la mia vita: mi appartiene come io appartengo a lei.

 

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