Nativa di Filadelfia, Marilyn Crispell ha seguito un rigoroso percorso di studi classici diplomandosi al New England Conservatory of Music di Boston nel 1968. Si è avvicinata al jazz e all’improvvisazione solo verso la metà degli anni Settanta, attraverso l’ascolto della musica di John Coltrane e Cecil Taylor e la partecipazione ai laboratori del Creative Music Studio di Woodstock, diretto da Karl Berger. Senza dubbio la chiave di volta di una carriera progressivamente proiettata verso una ricerca rigorosa in termini timbrici, ritmici e armonici è stata la sua decennale militanza nel quintetto di Anthony Braxton. Crispell ha al proprio attivo innumerevoli collaborazioni in molteplici contesti con colleghi americani ed europei, sempre all’insegna dell’affinità estetica e della comunanza di intenti: Anthony Davis, Reggie Workman, Gerry Hemingway, Tyshawn Sorey, Barry Guy, Anders Jormin, Joëlle Léandre, solo per citarne alcuni. Questa complessità si riflette in un pianismo cristallino, icastico e pregnante in cui convivono le due anime della sua formazione. Nell’ultimo quinquennio ha dato il suo sostanzioso contributo al Trio Tapestry, con Joe Lovano e Carmen Castaldi. Un valido pretesto per avviare questa intervista.
Vorrei iniziare la nostra conversazione dal suo contributo al Trio Tapestry. Al pari di «Garden of Expression» e «Trio Tapestry», «Our Daily Bread» ci offre l’immagine di un trio comunitario. In altre parole, tre musicisti – ognuno dotato di una forte personalità – che contribuiscono in ugual misura a formare un’identità collettiva. Com’è nato il suo sodalizio musicale con Joe Lovano e Carmen Castaldi?
Ho incontrato Joe e Carmen separatamente. Loro si conoscevano già da molto tempo, essendo cresciuti e avendo suonato insieme a Cleveland, Ohio. Alcuni anni fa Carmen mi aveva invitato a Cleveland per un concerto in duo. Joe l’avevo incontrato in varie occasioni, in alcune delle quali avevamo suonato insieme. Fu Joe ad avere l’idea di formare il trio. Suonammo un concerto improvvisato a Beacon, New York, nel 2017. Poi Joe inviò degli estratti di quel concerto a Manfred Eicher, che ci invitò a realizzare un cd. È così che Trio Tapestry ha avuto inizio.
È corretto affermare che il lavoro di questo trio deve molto a Paul Motian in termini di approccio, libertà di espressione e unità formale?
Non sono cose semplici da esprimere con le parole, ma sono sicura che Paul Motian ha avuto un’influenza sulla musica del trio. Io e Joe avevamo suonato e registrato con lui in trio, ma in contesti differenti.
Cosa ha rappresentato per lei interagire con Motian e Gary Peacock in «Amarillys» e «Nothing Ever Was, Anyway»?
Suonare con Paul e Gary è stato molto semplice e naturale. Entrambi erano dei maestri provvisti di un grande senso della libertà, del tempo e della melodia, e dotati di altrettanta sensibilità. Spesso mi sorprendevano con delle soluzioni completamente inaspettate. Paul suonava spesso contro il tempo prevalente; addirittura, una volta si mise ad eseguire una marcia durante una ballad.
Considerando anche le sue esperienze con gente del calibro di Mark Dresser e Gerry Hemingway o Joe Fonda e Harvey Sorgen, la dimensione del trio sembra essere per lei un ambiente perfetto che la mette in condizione di esprimere appieno il suo potenziale. Inoltre, in varie circostanze ha anche suonato e registrato in duo. Per esempio, «Affinities», con Gerry Hemingway ha un titolo esplicativo. Secondo lei, quali sono le principali affinità necessarie per suonare in questi particolari contesti? E infine, cosa rappresenta per lei la performance in solo: una sfida, un’introspezione o semplicemente un mezzo per esplorare le risorse dello strumento?
Ho suonato in tantissimi contesti differenti: in trio, duo, solo, quartetto, quintetto, big band, jazz ensemble con la New York City Opera Orchestra, improvvisazioni con la poesia, la danza, le arti figurative ecc. Ogni situazione presenta le proprie gioie e le proprie sfide. Cerco di suonare in modo appropriato in ogni frangente, rispettando le composizioni e lo spirito di ogni compositore ed esecutore. Più il gruppo è piccolo e più spazio si ha a disposizione. La chiave è sempre l’ascolto, anche nell’esecuzione di un solo: nella performance solistica mi ascolto come se fossi seduta tra il pubblico. Si tratta di un equilibrio delicato, tra l’essere in uno stato ricettivo verso la musica che scaturisce e il guidarla in una direzione che crei una composizione spontanea. Amo esibirmi in duo, dato che c’è tanto spazio nel quale suonare. Proprio perché si è in due, ne risulta una comunicazione emotiva di grande intensità che combina la libertà dell’esecuzione in solo e la relazione con un altro musicista.
Il suo approccio al piano è piuttosto misurato. Questo è dovuto al suo solido retroterra classico? Oppure ha qualcosa a che fare col suo passato contributo ai gruppi di Anthony Braxton?
Misurato è un termine che non userei mai per descrivere il mio modo di suonare! Suggerisce una sorta di super-controllo e predeterminazione. Né l’una né l’altra cosa fanno parte della mia estetica. Il più delle volte non so cosa suonerò finché non lo faccio effettivamente. Posso avere delle idee, o in qualche modo averci lavorato in anticipo, ma in generale sono piuttosto spontanea. Aver suonato musica classica certamente ha contribuito a mettermi in condizione di eseguire la musica di Braxton. Con lui tutti dovevamo essere bravi a leggere la musica a prima vista, dovevamo possedere una tecnica che ci rendesse in grado di eseguire quello che aveva scritto ed avere uno spiccato senso dello sviluppo tematico. In altre parole, quando eseguivamo le sue composizioni, improvvisavamo in un modo tale che sviluppava le idee compositive di Braxton senza che per questo suonassimo liberamente. Suonando in un ensemble di dieci elementi con la New York City Opera Orchestra nell’esecuzione dell’opera X: The Life and Times of Malcolm X di Anthony Davis, aprivo con Middle Passage – un’altra composizione di Davis, lunga undici pagine e che incorporava l’improvvisazione – e dovevo anche essere in grado di leggere la partitura dell’orchestra. La musica di Barry Guy richiede l’abilità di leggere e suonare composizioni complicate indipendentemente dai contesti, che sia il trio o la big band. Al giorno d’oggi molti musicisti hanno una preparazione sia in ambito classico sia in altri generi. Credo che tutto quello che si è imparato ed ascoltato, in ogni ambito musicale, contribuisca a fare di noi quello che siamo come musicisti. Se dovessi usare un termine per descrivere la mia estetica musicale, sceglierei appassionato piuttosto che misurato. C’è passione perfino nella musica meditativa, e questo ha a che fare con il modo in cui ci si cala profondamente nella musica: in un tutt’uno con la musica.
L’esperienza con Braxton può essere considerata una svolta nella sua carriera e nella sua crescita di musicista?
Suonare con Braxton ha costituito un punto di svolta per me fondamentale: la mia prima vera esperienza dal vivo con un ensemble, insieme a uno dei più grandi spiriti creativi dei nostri tempi. Abbiamo sempre avuto una forte intesa sul piano intellettuale fin dall’inizio, quando nel 1977 suonammo in duo. Quella circostanza è documentata sul secondo cd della serie di registrazioni effettuate presso il Creative Music Studio. Da lui ho imparato tantissimo in termini di spazio, silenzio, composizione e ascolto. Il suo quartetto è stato come una famiglia per parecchi anni.
A proposito, quali prospettive le aveva aperto la partecipazione alle sedute del Creative Music Studio?
Il Creative Music Studio offriva tante opportunità di incontrare e suonare con numerosi grandi compositori e improvvisatori di quell’epoca in un ambiente intimo, la qual cosa probabilmente non sarebbe stata possibile in un posto come New York. Mi aprì molte porte. Lì ho incontrato Braxton e suonato con lui per la prima volta. Ho anche conosciuto molti altri grandi musicisti provenienti da tutto il mondo. Era un luogo unico, differente da qualsiasi altro per quei tempi. La morte di Karl Berger, che ne era stato il fondatore con Ornette Coleman, è una grande perdita. Tuttavia, Karl ci ha lasciato un’eredità formidabile come insegnante, musicista, filosofo e amico.
Lei ha al suo attivo numerose collaborazioni con dei musicisti europei, fra i quali Barry Guy e Anders Jormin. Qual è la sua opinione sulla scena musicale europea?
In Europa ci sono così tanti grandi musicisti! Mi ritengo fortunata ad aver avuto l’opportunità di suonare con molti di loro. Barry Guy è uno dei personaggi principali con cui ho suonato nel corso degli anni: in trio con Gerry Hemingway e Paul Lytton, in quartetto con Evan Parker, con la Barry Guy New Orchestra e la London Jazz Composers Orchestra. Barry è uno dei più grandi e creativi contrabbassisti al mondo, e tutti i musicisti della BGNO e della LJCO sono spettacolari. Più di recente ho suonato con dei musicisti scozzesi: il sassofonista Raymond MacDonald e il chitarrista George Burt, con i quali abbiamo realizzato vari progetti in collaborazione con l’artista figurativa Jo Ganter. In Svezia avevo formato un trio con il bassista Anders Jormin e il bassista Raymond Strid, con cui eseguimmo le composizioni di Anders contenute nel cd «In Winds, in Light», che trovo particolarmente riuscito. Quest’ultima esperienza mi ha aperto una porta totalmente nuova verso una sensibilità nordica mistica e lirica, il che ha avuto un’enorme influenza sulla mia musica. Ho suonato anche con la sassofonista Lotte Anker e la batterista Marilyn Mazur, entrambe danesi. Ancor più recentemente, ho suonato in un trio diretto dalla batterista e compositrice danese Michala Østergaard, e completato dal bassista Thommy Andersson. E poi vorrei menzionare «Shifting Grace», un bellissimo disco registrato anni fa con il percussionista e compositore Michele Rabbia e Vincent Courtois; le varie registrazioni effettuate a Siracusa con Stefano Maltese; il Quartet Noir, con la straordinaria Joëlle Léandre e gli svizzeri Urs Leimgruber e Fritz Hauser. Inoltre, aggiungerei un duo di pianoforti scordati col pianista tedesco Georg Gräwe e un altro duo con la pianista svizzera Irène Schweizer. Tutti questi musicisti sono semplicemente fantastici. Poi sicuramente ce ne sono altri che ho dimenticato di citare. In Europa c’è una scena davvero ricca e vivace, diversa da quella americana a causa della differenza tra le nostre storie e culture. Le sento entrambe essenziali, sia per le loro somiglianze sia per le loro diversità, oltre che per un elevato grado di contaminazione.
Come definirebbe il rapporto con un produttore esigente come Manfred Eicher?
Mi piace moltissimo lavorare con Manfred Eicher. Possiede grande intuizione e sensibilità, notevole conoscenza e comprensione della musica, e la percezione di quello che funziona o meno. Non siamo sempre d’accordo su tutto, ma lui è sempre ben disposto a considerare le mie opinioni. Spesso se ne viene fuori con delle idee a cui io non avrei mai pensato, ma che funzionano sorprendentemente bene. Quando lavoro con lui, cerco spesso di ascoltare la musica attraverso le sue orecchie, il che mi proietta su un altro livello.
Quali sono i principi essenziali su cui basa il suo approccio didattico durante i suoi workshop?
Quando insegno, sono ben consapevole del fatto che gli studenti sono anche i miei insegnanti. Le mie lezioni sono più o meno improvvisate, nel senso che non sono mai sicura di quello che farò finché non avrò veramente incontrato e ascoltato gli studenti. Lavoro senza seguire degli stili particolari. Gran parte di quello che faccio comprende la composizione di gruppo e l’improvvisazione strutturata. Naturalmente ho delle idee, ma l’obiettivo principale è quello di creare uno spazio dove i musicisti si sentano sicuri e liberi di esprimersi.