Il 23 febbraio del 2003 al Madison Square Garden di New York Norah Jones si aggiudicò ben cinque Grammy Awards: registrazione dell’anno (il singolo Don’t Know Why), album dell’anno («Come Away With Me»), migliore artista esordiente, migliore performance pop vocale al femminile e migliore album pop vocale. Quella sera c’erano i Roots di supporto a Eminem e Erykah Badu ritirava il premio per Love of My Life (An Ode to Hip Hop) (che vantava tra gli ospiti Common e Raphael Saadiq) acclamata come «miglior canzone r&b» del 2003. Tra le varie categorie dei Grammy quell’anno faceva capolino per la prima volta l’etichetta «urban/alternative» che, subito dopo, per brevità, fu trasformata in «neo soul» un genere di musica rappresentato dai succitati artisti ma anche da gente come D’Angelo, Floetry, CeeLo Green, India.Arie. Erano tutti accomunati dalla caratteristica di infarcire il loro modo di concepire il soul con inserti che pescavano a piene mani dal grande calderone del jazz utilizzando jazzisti a tutto tondo come il compianto Roy Hargrove o il tastierista Marc Cary. Quella sera, qualche ora dopo la cerimonia dei Grammy, si spostarono in massa al B.B King Blues Club & Grill a Times Square perché era stato organizzato un after party con relativa jam presentata da Common e da Erykah Badu. Sul palco si alternarono Musiq Soulchild, Jaguar Wright, Mos Def (oggi Yasiin Bey), Talib Kweli, Jill Scott, Anthony Hamilton, Q-Tip, Bilal, insomma il gotha del neo-soul. Chi ha assistito a quella serata ricorda l’atmosfera incandescente e il groove che per diverse ore tenne sulla corda il pubblico e i musicisti. Tutto merito della band residente che comprendeva Questlove alla batteria, James Poyser alle tastiere e Michelle Lynn Johnson, in arte Meshell Ndegeocello, al basso elettrico. Il compito di quest’ultima fu arduo quella sera perché il bassista di riferimento del neo-soul era considerato Pino Palladino (il bassista di «Voodoo» il capolavoro di D’Angelo) ma Meshell superò l’esame a pieni voti. Tutti si accorsero di lei, della sua maestria strumentale, della sua versatilità, della sua capacità di macinare linee di basso così coinvolgenti da tenere il pubblico – che affollava la pista da ballo e che chiedeva bis in continuazione – in continua tensione. La musica andò avanti sino alle quattro del mattino. Tutti si accorsero di lei, ma non tutti sapevano che Meshell Ndegeocello era già sulla scena da dieci anni, sin da quando, nel 1993, il suo debutto discografico, «Plantation Lullabies» ricevette tre nominations ai Grammy e innumerevoli recensioni entusiastiche da riviste come Rolling Stone, Vibe, Spin, Village Voice e chi più ne ha più ne metta. Fu anche lei, con quell’album (pubblicato per la Maverick Records di Madonna), a tracciare le coordinate di quello che qualche anno più tardi fu etichettato come neo-soul. Erano già dieci anni che Meshell non smetteva di sperimentare evitando accuratamente di sedersi sugli allori di un facile consenso di pubblico: la ragazzina rapata a zero che, in canottiera bianca e reggicalze accarezzava il basso nel video di If That’s Your Boyfriend (He Wasn’t Last Night) (uno dei singoli tratti da «Plantation Lullabies») aveva fatto passi da gigante e la sera di quel 2003 – quella sera dei Grammy – era entrata di diritto a far parte del who’s who della musica nera moderna. Il suo modo di suonare il basso elettrico, in questi ormai trent’anni di carriera, ha mantenuto inalterata una caratteristica così enfatica e precisa da dare l’impressione a chi l’ascolta di sentire un respiro tra la nota e la corda coinvolta. Se non l’avete capito, stiamo parlando di una delle personalità più creative e avanzate di quel genere di musica che fonde in una unica grande bolla tutto quello che oggi fa parte dell’immaginario sonoro contemporaneo. Una grande musicista capace di mettere insieme il jazz più avant-garde e il pop più mainstream e farlo diventare un messaggio comprensibile ma non banale. È quello che ci si aspetta dalle grandi personalità musicali del nostro tempo, categoria alla quale Meshell appartiene senza alcun tipo di forzatura. Il campo d’azione in cui eccelle – ma è comunque una validissima performer, parola di chi l’ha vista in azione più volte dal vivo – è lo studio di registrazione, lì dove ha maturato una esperienza così sofisticata da portarla a collaborare con buona parte delle star di oggi, da Madonna a Robert Glasper a Jason Moran, con il quale ha collaborato in «All Rise» (2014) una deliziosa rivisitazione della musica di Fats Waller. Cinquantatrè anni, nata a Berlino da un sassofonista dell’esercito americano, cresciuta a Washington, matura la sua crescita musicale a New York dove si trasferisce per studiare. Finora ha inciso tredici album tra i quali il penultimo «Ventriloquism» (2018) (una raccolta di rivisitazioni di hit r&b) è stato nominato miglior album urban contemporary ai Grammy Awards del 2018: ascoltatelo, se non l’avete già fatto, e potrete apprezzare le versioni rarefatte di Private Dancer dell’appena scomparsa Tina Turner, di Smooth Operator di Sade e di Nite and Day di Al B. Sure, un cantante soul che verso la fine del millennio scorso godette di una discreta popolarità negli Stati Uniti.
A distanza di cinque anni da «Ventriloquism» Meshell Ndegeocello debutta per la Blue Note di Don Was regalandoci un vero e proprio capolavoro, «The Omnichord Real Book», un lavoro decisamente aperto al mondo che la circonda («il lockdown dovuto alla pandemia è stato un bellissimo periodo per me» ha dichiarato) e che guarda alle variegate sonorità che affollano la tavolozza multicolore della musica nera moderna. Fortemente influenzato dal jazz – un termine dal quale già nel comunicato stampa Meshell prende le distanze – il disco è impreziosito da una produzione di eccellente livello e dalla collaborazione di alcuni dei nomi di punta della black music contemporanea: Ambrose Akinmusire, Jeff Parker, Joel Ross, Jason Moran, Julius Rodriguez, Cory Henry, Brandee Younger, solo per citarne alcuni. Sono tutti artisti dei quali la nostra rivista si occupa già da diversi anni. Meshell Ndegeocello è uno dei riferimenti della musica nera moderna. Questo è il risultato della nostra chiacchierata.
Ciao, Meshell. Mi fa molto piacere conoscerti. Ti seguo fin dai tuoi esordi, dai tempi di «Plantation Lullabies». Sono sempre stato colpito dalla tua abilità a mischiare tra loro un sacco di cose diverse: l’hip-hop, il jazz, il funk, la musica elettronica, l’afro-futurismo, ecc. Ma soprattutto questo tuo debutto discografico per la Blue Note mi ha letteralmente impressionato: uno spiegamento di forze come non si vedeva da parecchio tempo. Vi collaborano molti dei musicisti di riferimento della musica moderna: Jeff Parker, Cory Henry, Jason Moran, Ambrose Akinmusire, Joel Ross, Julius Rodriguez, Mark Guiliana, Brandee Younger. E la musica è così coinvolgente, davvero straordinaria. Insomma un piccolo capolavoro. Mi piacerebbe che mi parlassi da dove viene tutto questo, delle tue influenze musicali…
Viene dalla vita, dall’ascolto. Amo la musica, adoro ascoltare la musica di altri musicisti, mi piace che mi venga presentata nuova musica. Ho composto musica per la TV, ho lavorato attorno a colonne sonore, ho vissuto a Los Angeles per molto tempo. Lì mi è capitato di ascoltare dal vivo Jeff Parker, succedeva una volta alla settimana, per mesi. Quei concerti sono stati per me una grossa fonte di ispirazione e anche un’occasione per tornare indietro a quella che io chiamo Black American Music e che voi chiamate jazz, comunque, in qualsiasi modo la si voglia chiamare, musica improvvisata. Cerco semplicemente di allenare la mia attitudine all’ascolto e di circondarmi di bravi musicisti che condividano la mia mentalità.
Quando e dove inizia la tua storia?
Sono nata in Germania. Mio padre era un musicista, suonava il sax tenore, è stato lui a insegnarmi i rudimenti del suo strumento, ho iniziato suonando il clarinetto. Sono andata via da lì quando avevo circa tre anni, ho vissuto prima nel Sud degli Stati Uniti, poi a Washington D.C. I miei genitori hanno vissuto il periodo dei diritti civili degli afro-americani, ho imparato a suonare da sola insieme a mio fratello che suonava la chitarra. Mio padre era una persona molto seria e rigorosa, ho imparato molto da lui, è stato quello che mi ha regalato il mio primo real book, che come sai è una raccolta di standard del jazz, il suo era un modo per spingermi ad imparare dei brani da suonare con lui alle gigs in cui si esibiva. Avevo quindici o sedici anni quando ho iniziato ad esibirmi. Tu suoni?
No, mi occupo di musica sulla carta stampata ma non suono…
Dove hai studiato?
Nella città in cui vivo. Bari, nel sud dell’Italia…
Si fa un festival jazz da quelle parti?
Si, diversi…
Hai studiato giornalismo?
In realtà pratico il giornalismo ma i miei studi accademici riguardano la medicina. Sono un medico e anche un giornalista di jazz…
Davvero? Wow… Che strana combinazione… Mi piace però… hai una particolare specializzazione o ti occupi di tutto il corpo?
Mi occupo prevalentemente di medicina generale in questo momento…
Pensi che quando il corpo muore l’anima continua a vivere?
Sono interrogativi che non ho ancora ben chiarito. Non saprei, forse sì… Dove vivi in questo momento?
New York, Brooklyn. Adoro questa città. E tu?
Naturalmente, amo New York. Ci sono stato per più di un mese, circa dieci anni fa, per scrivere un libro. In quella occasione ho conosciuto diversi tuoi colleghi che poi sono diventati famosi. Il mio libro si intitola «BAM, il jazz oggi a New York»…
Davvero? (ride…)
Si. Ritengo di essere uno specialista per quel che riguarda la musica nera.
Cosa te lo fa pensare?
In realtà non lo so. I miei ascolti sono sempre stati orientati in quel senso, sin da quando ero piccolo e di conseguenza i miei gusti musicali sono andati in quella direzione…
Ah, OK! [sento un po’ di delusione nel suo tono di voce…]
Quando siamo piccoli solitamente accade qualcosa che ci segna e che in qualche modo orienta le nostre scelte. Quali sono i dischi che hai sentito e che ti hanno spinto a decidere di diventare una musicista?
Quelli di Clifford Brown, «Kind Of Blue» di Miles Davis, tutta la musica di Prince, i dischi dei Police, di Illinois Jacquet. «Sugar» di Stanley Turrentine ha letteralmente cambiato la mia vita.
Cosa in particolare ti ha attratto di quella musica?
Non parlerei di attrazione. Sono cresciuta nel disordine, nel caos. Il mio era un mondo caotico e la musica era la mia medicina. La utilizzavo proprio come terapia, mi calmava. Ascoltavo dischi in continuazione, per ore e ore. Quando mi sono trovata a rivestire i panni del produttore ho capito che l’ascolto di tutta quella musica mi ha aiutato in tutto quello che ho fatto. Ero un’ascoltatrice attenta e la musica la sento dal di dentro, non è solo attrazione, è qualcosa di più profondo. Quando ascolto musica sono sempre alla ricerca di qualcosa.
Mi hai detto che hai iniziato suonando uno strumento a fiato. Cosa ti ha spinto a dedicarti al basso?
All’inizio mi permetteva di interagire con mio fratello che suonava la chitarra, e quella è stata la mia prima vera spinta verso l’attrazione che poi ho provato sempre più per quello strumento.
Conosco un sacco di donne che suonano il basso e di cui si parla molto oggi. Penso a Esperanza Spalding, a una giovane contrabbassista molto brava, Endea Owens, la bassista dei Talking Heads era una donna, Tina Weymouth. Che cos’ha il basso che attira le donne?
(sorride…) Di nuovo con quest’attrazione. Sei un po’ fissato con questo termine… L’attrazione per me è qualcosa che ha a che fare con gli occhi… Non saprei risponderti. Il basso è uno strumento straordinario, dà forma all’arrangiamento, il bassista ha il compito di mantenere tutte le cose insieme, fa girare l’armonia, il suo aspetto ritmico è estremamente attraente, col basso puoi influenzare la pulsazione, la puoi cambiare a tuo piacimento. Ecco è quest’ultimo aspetto che a me piace molto, il basso ti dà sempre la possibilità di interagire a tuo piacimento con la musica. Il bassista è un giocatore fondamentale per tutta la squadra. Non vorrei sembrare arrogante ma ritengo di essere una bassista molto solida, non mi interessa l’aspetto virtuosistico del mio strumento, mi interessa che la musica, la sua pulsazione si muovano bene.
Prima mi hai detto che i Police hanno influenzato la tua formazione musicale e di conseguenza immagino che Sting abbia, in qualche modo, influenzato il tuo modo di suonare il basso. Ma quale Sting, quello dei Police o lo Sting moderno? Perché c’è una differenza…
Sicuramente lo Sting dei Police.
Quali tra i musicisti con cui hai suonato finora hanno lasciato una traccia indelebile dentro di te?
Deantoni Parks, batterista e compositore. È quello che più di tutti mi ha spinto a fidarmi di me stessa e a creare il mio mondo. Compone musiche per film ed è un batterista pazzesco, suona con John Cale ed è un musicista molto creativo oltre a essere un vero pensatore, quasi un filosofo. Ha contribuito molto al mio cambiamento.
Groove, swing, soul. Che significato hanno queste tre parole per te?
Ognuna di esse ha un significato. Per te cos’è il groove?
Per me è il cuore di un certo tipo di musica, soprattutto di un certo tipo di musica nera. È una parola che non puoi definire entro limiti ristretti, è qualcosa che ha che fare con il feeling…
Per me il groove rappresenta il movimento. Cose differenti fanno muovere persone differenti e ognuno ha il suo groove. Ma generalmente il groove è quello che ti fa muovere la testa. Su e giù. Lo swing invece è indefinibile, è veramente difficile spiegare cos’è e non mi piace nemmeno parlarne. Il soul non è paragonabile con nessuna altra cosa ed è ciò che ti permette di perdonare. Anche questo è un concetto per me difficile da definire.
Tecnica, emotività. Quale di queste due è più importante per te quando suoni?
Dipende. Pat Metheny è tecnica ed emozione nello stesso tempo, ben miscelate tra loro. Mike Moreno è solo tecnica, a volte mi annoia. Stevie Wonder è sia tecnica sia emozione benchè magari venga più fuori quest’ultima. Le cerco entrambe e soprattutto mi piace quando sono in equilibrio tra loro.
Conosci Nicholas Payton?
Sì, molto bene.
Cosa pensi della sua idea di non chiamare più la musica afro-americana jazz bensì Black American Music?
Sono assolutamente d’accordo con lui. Io suono Black American Music, non sono per niente connessa con la parola jazz e preferisco l’acronimo BAM. All’interno di esso troviamo Nicholas Payton, Chaka Khan, Prince e tutta la black music. Sono una persona di colore che ha vissuto in America in questo periodo. Anche se devo aggiungere che non mi piace essere catalogata, mi piace muovermi libera nell’ambito di quel territorio. Sono un’allieva di Sun Ra e di Marshall Allen, tutta gente che ha cercato di definire il potere delle onde sonore, ovvero la cosa che anch’io sto tentando di fare. Mi interessa essere considerata una brava bassista ma anche scrivere delle belle canzoni che possano piacere e che nello stesso tempo i musicisti si divertano a suonare. La mia ambizione è essere in grado di creare connessioni.
BAM, Black Lives Matter, qualcosa si sta muovendo nel mondo degli afro-americani all’inizio di questo millennio. E c’è anche uno sgradevole rigurgito di razzismo non soltanto in America ma in tutto il mondo occidentale. Tu sei una donna nera di questo millennio. Come stai vivendo tutto questo?
Fa male, ovviamente. A volte è molto doloroso. Devi cercare di riallinearti con te stessa. Il primo brano del nuovo album, Georgia Ave, parla proprio di questo. Ogni giorno ti risvegli e cerchi di essere chiara nelle intenzioni di quello che cerchi. Cerco di essere una buona madre per i miei figli e fare il meglio perché le cose possano cambiare. Ma purtroppo sarà difficile. È sempre stato così e probabilmente lo sarà sempre.
So che sei una donna impegnata socialmente. Ricordo il tuo contributo alla Red Hot Organization. Qual è la cosa più bella che ti è accaduta finora?
L’aver dato vita ad un altro essere umano. La nascita per me è una delle cose più belle cui assistere. Ho assistito anche alla nascita di altre persone ed è qualcosa che cambia completamente la prospettiva di vivere. A tutti. Ho visto molto da vicino anche una balena ed è stata un’altra delle cose belle che mi è capitato di vivere. Vedere che esiste un’ enorme forma di vita che sopravvive è stato per me un evento straordinario.
E qual è il sogno che non hai ancora potuto realizzare?
Vedere Beyoncè che canta degli standard. Ne abbiamo scelti alcuni con Jason Moran e speriamo che la cosa possa andare in porto. Mi sono stancata di sentirla alle prese con superproduzioni. Dovrebbe proprio recuperare la sua dimensione più umana.