Betty Davis Mabry: molto più che la musa di Miles

Betty Mabry Davis (1944-2022) è stata una figura complessa e innovativa, il cui ruolo certo non si esaurisce all’ombra del celebre trombettista: fu allo stesso tempo cantante, autrice, produttrice e performer, come mai era successo alle cantanti afro-americane

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«…Avevo incontrato una cantante giovane e bella che si chiamava Betty Mabry, la cui foto è sulla copertina di “Filles de Kilimanjaro”. Avevo fatto anche un pezzo lì sopra che prendeva il nome di lei: Mademoiselle Mabry. (…) Betty influenzò molto la mia vita personale, così come quella musicale. Mi fece apprezzare la musica di Jimi Hendrix, mi presentò a lui e a un mucchio di altri musicisti di rock nero. Conosceva Sly Stone e tutti questi tizi e anche lei era grande. Se Betty cantasse oggi sarebbe qualcosa tipo Madonna; del genere di Prince, solo donna. (…) Era semplicemente più avanti del suo tempo». Più avanti nel testo il giudizio muta: «troppo giovane e selvaggia», «…una donna di strada, una del rock…lasciva, sensuale», «una groupie di gran classe».

Quando Miles Davis scriveva queste parole nella sua autobiografia di fine anni Ottanta, la cantante aveva lasciato da tempo sia il trombettista sia la scena musicale. Dal matrimonio gli era rimasto solo il cognome acquisito. «Ogni giorno che ho passato come sua moglie – ebbe a dire, alludendo ai maltrattamenti che le infliggeva lui – mi ha fatto guadagnare il cognome Davis». Per il pubblico del jazz la figura di Betty è rimasta legata a quelle descrizioni. Seconda moglie e musa del trombettista, volto raffigurato in «Filles de Kilimanjaro», stimolo alla svolta elettrica in «Bitches Brew» per la spinta esercitata su Miles verso il funk e il rock. Solo pochi critici e studiosi (in Italia Maurizio Comandini, negli USA Vernon Gibbs, Oliver Wang e John Ballon) hanno ampliato l’attenzione alla sua attività artistica complessiva.

Betty Davis è stata una figura complessa e innovativa, il cui ruolo non si esaurisce all’ombra del trombettista: fu allo stesso tempo vocalist, autrice, produttrice e performer, come mai era successo alle cantanti afro-americane. Nell’ultimo decennio la cantante è diventata un’icona musicale e culturale di nicchia e alcune ricercatrici statunitensi – legate a differenti istituzioni universitarie – hanno analizzato la sua figura, rivalutando il ruolo che ha svolto nella New York di fine anni sessanta e nella Black popular music del decennio successivo. Ricostruzioni biografiche approfondite, che gettano nuova luce su Betty Davis e sul suo mondo, spesso in relazione al jazz. Lo studio più approfondito è una tesi di laurea: Sound Projector: Reissuing, Representing, and Reclaiming the Music of Betty Davis (2020) di Danielle Maggio, dottoranda in etnomusicologia all’Università di Pittsburgh. Ancora interessanti sono i saggi She Was Too Black for Rock and Too Hard for Soul (2013) di Cheryl L. Keyes, docente di etnomusicologia e studi jazzistici all’UCLA (University of California, Los Angeles), il capitolo dedicato a Betty Davis da Maureen Mahon nel suo Black Diamond Queens (Duke University Press, 2020) e quello di Vivien Goldman in Rip It Up – The Black Experience in Rock ‘N’ Roll (Candia Crazy Horse 2003). Gran parte del merito nella rivalutazione critica di Betty Davis nasce dalla riedizione dei suoi dischi da parte dell’etichetta Light In The Attic. Dopo tre decenni d’assenza, quando molti la credevano ormai defunta, nel 2007 sono stati ripubblicati i suoi primi due album: «Betty Davis» del 1973 e «They Say I’m Different» del 1974. Due anni dopo sono usciti «Nasty Gal» del 1975 e un disco mai edito, «Is It Love Or Desire?» del 1976. L’interesse suscitato da quei lavori ha portato la stessa etichetta a pubblicare nel 2016 altri brani: le inedite sedute Columbia incise nel 1969 (con la supervisione di Teo Macero e Miles Davis più un cast stellare) e quelle dimenticate del 1968 con Hugh Masekela e alcuni membri dei Jazz Crusaders («The Columbia Years»). Sull’onda di questa riscoperta, nel 2017 è stato realizzato il film documentario di Philip Cox Betty: They Say I’m Different.

Non è casuale che gli studi citati siano opera di studiose donne, cui aggiungiamo la poetessa e performer di Detroit Jessica Care Moore, fondatrice nel 2004 del gruppo Black Women Rock, che ha reso più volte omaggio a Betty Davis. La riscoperta della cantante e la sua trasformazione in icona culturale di nicchia s’è coniugata con le istanze del femminismo militante e del nuovo orgoglio afro-americano, che ha portato a rileggere la sua storia e valorizzare i suoi protagonisti. Di Betty vengono esaltate le istanze d’indipendenza artistica (come autrice, performer, produttrice) nel mondo dello spettacolo e nei rapporti con l’industria discografica e il pubblico. In lei emerge la sfrontata (per l’epoca) rappresentazione della sessualità e l’espressione di una soggettività femminile non ancora consentita alle performer afro-americane. Nei primi anni Settanta l’impatto del suo trasversale funk rock – grezzo, sessualmente provocante e dalla presenza scenica oltraggiosa – suscita sconcerto e la reazione è netta. È esclusa dalle trasmissioni radiofoniche e televisive, su pressione di chiese afro-americane e organizzazioni progressiste come la NAACP («Betty Davis è una disgrazia per la nostra razza»): temono che la sua immagine pubblica comprometta «la morale della prossima generazione di donne afroamericane, ostacolando l’elevazione della razza». Come ha scritto Maureen Mahon: «Il suo abbraccio alla sessualità che aveva sempre pervaso il rock & roll era pericoloso perché si trattava di un immaginario usato troppo a lungo ed efficacemente per disumanizzare le donne nere». A differenza della quasi coetanea Millie Jackson – unica cantante nera cui si può accostare per trasgressione erotica – la carriera artistica di Betty dura pochi anni. Tornata a vivere nella città della sua infanzia, in lotta con la depressione dopo la morte del padre, Betty si eclissa, rifiutando interviste e apparizioni pubbliche. Sulla stampa jazzistica, il ruolo della cantante e autrice è stato visto prevalentemente in rapporto a Miles Davis, e sulla nostra rivista è uscito un lungo articolo di Maurizio Comandini ricco di particolari (Miles Davis, le donne e la rivoluzione elettrica, aprile 2014); cerchiamo quindi di non eccedere su cose note, spostando invece il fuoco sulla sua multiforme personalità.

Per comprendere appieno il percorso umano e artistico di Betty è cruciale partire da quegli aspetti poco noti dell’infanzia che ne hanno plasmato memoria culturale e identità. Betty Gray Mabry era nata il 26 luglio 1944 (e non 1945 come spesso si legge) nella rurale Durham (North Carolina). Intorno ai dieci anni segue la famiglia che emigra a Nord e si stabilisce a Homestead in Pennsylvania, dove il padre trova lavoro come caposquadra nella locale acciaieria. La ragazzina s’immerge nella vita urbana e musicale della Black community (vari gruppi doo-wop e r&b) ma d’estate torna nella fattoria della nonna a Reidsville, dove alimenta un forte legame col blues. Questo avviene soprattutto grazie ai dischi di blues della nonna Buella Blackwell, che diventano strumento didattico e colonna sonora delle memorie trasmesse alla nipote. «Aveva un’ottima collezione di blues e cantavamo, e parlavamo mentre mi raccontava le sue esperienze musicali – ha detto Betty a Danielle Maggio – È così che ho iniziato a scrivere musica. Clapton rimase molto colpito quando gli raccontai della collezione di blues di mia nonna». Sono le cantanti, e in particolare Bessie Smith, a suscitare il suo interesse per l’esplicita rappresentazione dell’amore e della sessualità, della solitudine femminile, delle sofferenze domestiche, fino alla critica alle norme tradizionali e al dominio maschile.

Le storiche blues singers operavano nel mondo dello spettacolo spostandosi di città in città al di fuori del potere patriarcale e dei doveri materni. Esprimevano talvolta una sessualità non convenzionale (come Bessie Smith), con sfacciata irriverenza verso le convenzioni sociali dominanti. Usando il blues come strumento pedagogico, Buella Blackwell diventa così il tramite di una mediazione culturale alternativa ai valori del patriarcato cristiano e della middle class afroamericana. «Ogni volta che facevo domande a mia nonna sulla vita e su come comportarmi – ricorda Betty – lei mi faceva ascoltare dei dischi». È in questo substrato socializzante che vanno colte le scelte di vita e professionali di Betty come autrice e performer. A dodici anni inizia a scrivere canzoni e partecipa ai talent shows nell’area di Homestead. Nel 1958 compone un brano intitolato Boys, Boys, Boys dove prefigura i possibili problemi nella relazione con l’altro sesso: «Quando ti piace un ragazzo hai davvero un problema per le mani». Negli anni seguenti nasce anche la passione per la moda e il design ma la musica e la scrittura di testi restano centrali. Betty vuole diventare cantautrice. Eccellendo negli studi, si diploma con un anno d’anticipo alla Homestead High School e all’età di diciassette anni si trasferisce a New York, portandosi dietro le sue canzoni.

NEW YORK
In attesa di trovare occasioni nel mondo dello spettacolo si trasferisce da sua zia e frequenta il Fashion Institute of Technology, specializzandosi in design dell’abbigliamento. Nel frattempo studia recitazione all’American Musical Dramatic Academy. Nel 1961 a New York l’industria della moda è fiorente e i locali Greenwich Village ospitano i protagonisti del Folk Music Revival. Per mantenersi Betty vende i suoi disegni e la sera frequenta la scena musicale. Fornita di notevole avvenenza e intraprendenza, dopo i tre anni di scuola, ottiene un contratto da modella con la Wilhelmina Modeling Agency, una delle massime negli Stati Uniti. A ventun anni, Betty Mabry è una delle prime modelle afro-americane ad apparire su riviste come Glamour e Seventeen, con alti compensi professionali. Ma il suo chiodo fisso resta la musica e le amiche di allora ricordano che continua a scrivere canzoni e vuole emergere come cantautrice. Un amico gli offre l’opportunità di trasformare un piccolo scantinato tra la 90th e Broadway in un night club privato. Non si fa sfuggire l’opportunità e nasce The Cellar, dove Betty è Mistress of Ceremonies e dj. Il locale è frequentato da amici del mondo della moda, artisti, musicisti e personaggi della New York alternativa. Grazie al suo amico cantautore Louis Pegues (che poco dopo emergerà nella soul music come Lou Courtney) incide il suo primo brano: una canzone dedicata al club, di cui non resta traccia. Ha però modo di conoscere Don Costa, A&R alla United Artists Records, già scopritore di Paul Anka e arrangiatore per Frank Sinatra, che la porta a pubblicare la sua prima composizione Get Ready For Betty, in un 45 giri contenente sul lato B I’m Gonna Get My Baby Back. Arrangiato da Teddy Randazzo col nuovo stile orchestrale wall of sound di Phil Spector, è un brano soul dinamico, con la ricca voce di Betty in call and response con le coriste. Il testo è in prima persona, senza sentimentalismi e in sfida alle coetanee: «Tutte voi ragazze fareste meglio a nascondere i vostri ragazzi perché prenderò il primo che cattura il mio sguardo». Il disco non entra in classifica e Betty torna al suo lavoro di modella, diventando una protagonista della vita notturna del Village come membro delle Cosmic Ladies, collettivo artistico molto attivo a NYC, guidato dall’amica Devon Wilson, occasionale ragazza di Jimi Hendrix. Il gruppo ha incarnato la connessione tra rock d’avanguardia, controcultura psichedelica, istanze di liberazione sessuale ed emancipazione afro-americana. In quei mesi presenta la sua canzone Uptown to Harlem al gruppo Chambers Brothers che l’incide nell’album di esordio «The Time Has Come», pubblicato nel novembre 1967. L’album ha successo e il brano è pubblicato come singolo. Betty ottiene così un contratto di prova dalla Columbia per incidere due canzoni.

Alla fine del 1967 si reca a Los Angeles su invito di Devon Wilson e conosce il trombettista Hugh Masekela, da poco divorziato da Miriam Makeba e già interprete di successo. I due hanno una storia di qualche mese e Betty coglie l’opportunità di registrare tre suoi brani negli studi di Hollywood della CBS, con Masekela che cura gli arrangiamenti: Betty spiega a voce cosa vuole ottenere e Hugh organizza le parti per i musicisti. Tra questi ci sono il trombonista Wayne Henderson e il pianista Joe Sample, entrambi dei Crusaders. L’incisione è ufficialmente accreditata il 18 ottobre 1968 ma la data è errata perché il 20 febbraio 1968 il 45 giri della seduta è già pubblicato – soprattutto come promo per le radio – con Live, Love, Learn e It’s My Life. Il primo brano è una soul ballad leggera, tra i pochissimi della discografia di Betty non cantato in prima persona. Il secondo è un serrato r&b, con la sua voce impetuosa che afferma piena indipendenza affettiva: «È la mia vita. Amerò chi voglio amare. Tu pensa a modo tuo e io penserò a modo mio. Non faccio promesse». Purtroppo viene scartato l’avvincente My Soul Is Tired, dal groove pressante che riecheggia i classici della Stax. Questo brano, i due precedenti e quelli rimasti inediti della successiva session di Miles Davis, sono presenti in «Betty Davis – The Columbia Years 1968-1969» (Light in the Attic, 2016). Il disco non va in classifica e la Columbia non le propone un contratto. Betty torna a New York non immaginando che di lì a poco avrebbe sposato Miles Davis.

MILES DAVIS
Betty e Miles s’erano conosciuti due anni prima e visti sporadicamente. Lui divorzia nel febbraio 1968 da Frances Taylor e inizia a frequentare l’attrice Cicely Tyson. In un mondo musicale dominato dalla soul music e dal rock, il jazz in calo di ascolti e la Columbia che lo pressa, Miles è a disagio. Teme di diventare stantio e cerca un rinnovamento. Vede in Betty Mabry la porta per entrare in quel nuovo mondo e nella primavera del 1968 il suo corteggiamento si fa continuo. «Ci conoscevamo, ma non è nato niente fino a sei mesi fa – dice Betty alla rivista Jet il 17 ottobre 1968 – Non eravamo nemmeno fidanzati fino a cinque giorni prima del matrimonio. Ora che ci penso, non mi aveva mai chiesto di sposarlo. Poi mi ha telefonato da Chicago dicendo: Baby, raccatta le tue cose e vieni, che ci sposiamo». A Chicago per una scrittura al Plugged Nickel, il trombettista decide improvvisamente per il matrimonio, che ha luogo il 30 settembre. Alla stessa rivista Betty dichiara che non sarà una band wife ma che vuol continuare a fare la modella, cantare e studiare. Nello stesso numero di Jet c’è una foto sorprendente, con Miles a torso nudo che tiene Betty in braccio.

L’influenza della giovane cantante sulla trasformazione di Miles Davis inizia nella primavera ed estate 1968 e si stempera progressivamente fino al divorzio, un anno dopo il matrimonio. Della relazione qualcosa resterà, come vedremo. Il trombettista rivoluziona abbigliamento, vita sociale, ascolti musicali. Per adattarsi ai nuovi ambienti sociali che frequenta con Betty getta i classici completi Brooks Brothers e indossa abiti di camoscio e pelle, camicie colorate, scarpe con tacchi, pantaloni attillati. Non ascolta solo i dischi ma conosce personalmente i protagonisti del r&b e del rock, in particolare Jimi Hendrix, che orbita a New York e che incontra spesso. Il chitarrista ha un forte impatto su lui e su Gil Evans. È il periodo in cui Miles incide «Filles De Kilimanjaro» (giugno e settembre 1968) dove Gil ha un ruolo chiave e misconosciuto nell’incorporazione e trasfigurazione del nuovo lessico. Per limitarci a Hendrix, l’introduzione di Mademoiselle Mabry è un evidente adattamento di The Wind Cries Mary da cui trae l’iniziale successione ascendente di tre accordi in un analogo clima ritmico. Quel tema di Hendrix era presente nell’edizione statunitense di «Are You Experienced» del settembre 1967 e aveva colpito sia Miles sia Gil. In quei mesi Miles Davis sembra voler rompere ogni legame col jazz e la sua tradizione. Leonard Feather va a casa sua per un «Blindfold Test» e vede in giro dischi di James Brown, Aretha Franklin, Byrds, The Fifth Dimension. Nelle risposte al test Miles liquida con giudizi pesanti Freddie Hubbard, Archie Shepp, Ornette Coleman, Don Ellis, Sun Ra e altri. Betty è l’elemento propulsivo di questa trasformazione, ma crediamo sia esagerato – come fa Danielle Maggio – esaltare il suo ruolo in ambito prettamente musicale. È noto che il trombettista aveva già iniziato quella transizione estetica come dimostrano le incisioni del dicembre 1967 (Water on the Pond) e del gennaio 1968 (Paraphernalia). Diretti contributi di Betty Davis sull’opera davisiana non sembrano andare oltre il volto in copertina di «Filles de Kilimanjaro» e il suggerimento del titolo «Bitches Brew»(Miles aveva pensato a «Witches Brew»).

Torniamo invece al suo ruolo di cantante, che Miles incentiva. È lui che organizza la seduta Columbia di Betty del 14 e 20 maggio 1969, pubblicata solo nel 2016 (nel citato disco che riunisce i brani con Masekela). Un po’ per far piacere alla moglie ma soprattutto per vagliare energiche soluzioni ritmiche e timbriche: animare la ricerca elettrica, ancora apollinea e formalmente controllata, di «In a Silent Way» con l’energia del caustico funk di Betty. Quest’ultimo album risale a tre mesi prima e la session di Betty anticipa di altri tre le registrazioni di «Bitches Brew», dove esplode l’impatto tribale e dionisiaco della nuova musica davisiana. Non a caso Miles convoca in studio gli hendrixiani Billy Cox al basso e Mitch Mitchell alla batteria con il nucleo di «In A Silent Way» prossimo a registrare «Bitches Brew». A Betty sarebbero bastate una marcata ritmica funk e una sezione fiati. Anni dopo dirà a Greg Errico: «Miles ha portato i musicisti chiave e tutto il resto, ma non è quello che volevo fare io». I brani evidenziano la prima maturazione della cantante, che si stacca dai modelli del soul per abbracciare l’energia di Sly Stone e del nascente funk. Hanging Out è poco più di un grezzo demo tape, ma la voce di Betty è audace e si staglia sul concitato groove ritmico del basso in evidenza. Sullo sfondo si muovono gli intrecci metallici delle chitarre di McLaughlin e Jim McCarty, un coretto femminile e un vociante background di risate e battimani. L’estetica del feroce funk del Davis anni Settanta è già delineata. Il vamp ritmico di Politician Man dei Cream è accelerato rispetto all’originale, il clima si tinge decisamente di rock (con spazi per McLaughlin) e la voce di Betty si fa melliflua, rispettando il senso del testo. Miles, che l’aveva chiamata bitch all’inizio del brano, le suggerisce dalla sala controllo di sovrainciderlo ma ottiene una risposta piccata. Dopo Down Home Girl e la serrata revisitazione di Born On The Bayou dei Creedence Clearwater Revival, lil brano di prova I’m Ready Willing & Able (take 1) mostra il piglio dell’autrice che ferma la band e la guida, cantando la linea melodica che vuole sia ripetuta. Non è chiaro perché quella seduta sia rimasta nei magazzini della CBS per 48 anni. Secondo Betty fu Miles a insabbiare la pubblicazione, ma resta una sua opinione.

LA CARRIERA SOLISTA
Alla fine del 1969 Betty rompe la relazione a causa della violenze domestiche, riprende il lavoro di modella e il 1970 lo trascorre tra Londra (dove Jimi Hendrix l’introduce nella scena artistica locale) e gli Stati Uniti. Continua a vedersi occasionalmente con Miles Davis e ci sono foto che li ritraggono assieme al festival Isle of White, di fine agosto 1970, e al servizio funebre per Jimi Hendrix il Primo ottobre a Renton (Seattle). Nel 1971 Betty scrive alcune canzoni per il demo che la prima band di Lionel Richie (i Commodores) presenta alla Motown. Il gruppo viene scritturato e l’etichetta le propone un contratto come autrice ma Betty rifiuta, non volendo perdere i diritti di pubblicazione. Torna a Londra per cercare nuove opportunità: ha una breve relazione affettiva con Eric Clapton e una amicale con Marc Bolan, che l’incoraggia a scrivere. I loro tentativi di farla incidere non vanno in porto e nel 1972 Betty lascia Londra per San Francisco, immergendosi nella scena funk della West Coast. Qui firma con la piccola Just Sunshine Records di Michael Lang, un organizzatore del festival di Woodstock, che le lascia pieno controllo artistico e diritti di edizione. Il suo ragazzo del momento è Michael Carabello, il percussionista di Santana che le presenta Greg Errico, ex batterista di Sly & Family Stone, e a cui Betty chiede di produrre il suo primo disco.

Betty Davis
Errico è di fondamentale importanza per quel debutto. Non solo mette assieme una band impressionante (col magistrale bassista funk Larry Graham, l’ex chitarrista di Santana Neal Schon, la sezione fiati dei Tower of Power, le Pointer Sisters e Sylvester come coristi) ma collabora con lei in piena fiducia. Betty è accreditata come autrice e arrangiatrice dei brani, tutti suoi. In studio mostra una leadership che nessuna cantante nera aveva mai avuto: non conoscendo la scrittura musicale usa un registratore per documentare e comunicare le sue idee ai musicisti. Col suo modo di fare – molto empatico e corporeo – riesce a sviluppare la sua idea iniziale in un prodotto finito. «L’ho davvero ammirata – ha dichiarato la corista Patryce Banks – perché non avevo mai visto una donna in studio fare così, essere al comando in quel modo. Diceva a tutti cosa fare. Cosa le piaceva e come farlo. Ma nel modo che usava nessun uomo si offendeva, perché non metteva in crisi il loro ego. Ha finito per ottenere proprio quello che voleva». Quel metodo di composizione orale lo ripropone anche negli album successivi, sul modello degli head arrangements.

Il risultato è l’album «Betty Davis» del 1973, con lei che sorride spavalda in copertina, in stivali e hot pants. Il testo d’apertura (If I’m In Luck I Might Get Picked Up ) non lascia dubbi sull’immagine di sfacciata bad girl da presentare: «Se ho fortuna magari qualcuno mi rimorchia / Sono un’esca golosa e puoi chiamarlo come vuoi / Sto dimenando il mio sedere (…) È nottata di baldoria, questa / Quindi tutti voi che odiate le donne cercate di trattarmi bene / Non sciupatemi i vestiti, non prendetemi per il verso sbagliato/ Sono matta e scatenata / So far del male (…) Se t’incontro stasera, baby, non è che mi rimorchi? / Portami a casa / Portami a casa». Betty canta con voce cruda e urlata, su un vamp martellante di basso e chitarra che domina il brano. Spinge all’estremo il registro vocale, con un vibrato stridente e un ringhio gutturale.

Diversamente dalle colleghe afro-americane della sua generazione, Betty non ha cantato in chiesa e non ha assimilato l’enfasi vocale del gospel. Il blues è il suo unico modello. Uno stile vocale tanto ruvido quanto innovativo, che semmai estremizza quanto fatto da Janis Joplin in ambito rock. Lei stessa non è pienamente consapevole del suo valore come cantante, considerandosi soprattutto un’autrice. A chi le chiede come ha sviluppato quello stile vocale risponde: «Non penso di essere una grande cantante. Quando registravo ero legata alla canzone. Il mio tastierista Richard Kermode diceva che ero come un proiettore, proiettavo il sentimento della musica. Non sono una grande cantante come Chaka o Aretha. Quelle sono grandi interpreti che cantano davvero a squarciagola. (…) Io proietto ciò che la musica sta dicendo». Il disco nasce senza prove. «Non abbiamo nemmeno fatto una jam con lei – ha poi dichiarato Errico – solo un paio di riunioni insieme come band per creare il clima». Tutti i brani nascono in modo estemporaneo. Solo la ballad finale In the Meantime viene composta in modo tradizionale, sviluppando la melodia. Il punto più alto dell’album – esemplare sintesi tra hard rock, funk e accenti soul – è Game Is My Middle Name. Su un vamp ritmico che sarebbe piaciuto ai Led Zeppelin, la voce di Betty Davis libera la sua vocalità agli estremi, in un arrangiamento che fonde efficacemente assoli di chitarra distorta alla Hendrix, le armonie di un organo Hammond, il coro soul delle Pointer Sisters. Anche grazie al contributo di Gregg Errico, quell’incisione diventa un cult, un classico del funk.

«They Say I’m Different»
Nel 1973 il batterista è chiamato dai Weather Report, ma per l’incisione del successivo «They Say I’m Different» Betty è ormai in grado di prodursi da sola, organizzando varie sedute ai Record Plant Studios di Sausalito, con una sezione ritmica funk, un coretto soul e solisti di rilievo come i chitarristi Buddy Miles e Jimmy Godwin, i tastieristi Merl Saunders e Tony Vaughn. Tutte componenti che s’integrano al meglio, sostenendo la sua voce con una bella sintesi di funk, soul e rock. Oltre a riproporre la sua singolare cifra d’interprete, Betty s’impone come cantautrice in febbrili e ruggenti esposizioni che alternano dimensione vocale e colloquiale. Il brano d’apertura Shoo-B-Doop And Cop Him è particolarmente azzeccato nel suo sinuoso e seducente groove che supporta il testo sessualmente allusivo. La cantante è attratta da un ragazzo e immagina – in call and response col coretto femminile – una notte d’amore: «Farò shoo-b-doop tutta la notte / Vai avanti e amalo, ragazza. Vai avanti e amalo, ragazza / Lo proverò fino all’alba». In qualche brano c’è solo un ritmo a sostenere testi corrosivi (il rapporto sadomaso di He Was A Big Freak) ma in altri c’è maggiore elaborazione musicale. Si ascolti l’ossessivo funk di Don’t Call Her No Tramp a difesa della libertà sessuale femminile («Prenditela pure, quella tipa / Puoi fartela come ti pare e piace / Quando scoprirai che ti sta solo usando / Non chiamarla sgualdrina / Quando ti lascerà perché non le servi più, ti sentirai uno stupido»).

Betty Davis esalta la sua identità plasmata dal blues nei magistrali 70’s Blues e They Say I’m Different. Nel primo brano il blues ha già le sembianze di un rap, con un testo desolante («Avevo voglia di piangere, ma le lacrime non volevano piangere / Avevo voglia di parlare con qualcuno / Ma non c’era nessuno / Ho iniziato a pensare / E più pensavo, più crollavo / Ho continuato a sprofondare / Perché non potevo fermarlo / Il blues aveva preso il sopravvento»). Nel secondo blues Betty cita Robert Johnson, B. B. King, John Lee Hooker, Bessie Smith, Muddy Waters, Leadbelly e altri, mentre rievoca l’infanzia al Sud («Alla mia bisnonna non piaceva il foxtrot / No, invece sputava tabacco e ballava con Elmore James / Dicono che sono diversa perché mangio frattaglie / Non posso farci niente, sono nata e cresciuta con loro, è vero / Ogni mattina dovevo badare ai maiali / Mentre loro se la spassavano con John Lee Hooker»). La morbida soul ballad conclusiva (Special People) dimostra le potenzialità dell’ensemble nel tipico terreno del soul. All’inizio del 1974 Betty Davis mette insieme una band stabile, coinvolgendo i cugini di primo grado Nicky Neal alla batteria e Larry Johnson al basso più i loro amici Fred Mills alle tastiere e Carlos Morales alla chitarra. Nascono così i Funk House, musicisti già attivi nella scena r&b di Greensboro e dintorni. A questi aggiunge due coriste, Debbie Burrell ed Elaine Clark.

Le esibizioni pubbliche
Sugli spettacoli di Betty Davis s’è scritto molto, enfatizzando in particolare la dimensione trasgressiva e provocatoria della cantante. A distanza di 45 anni sarebbe interessante una verifica ma dei suoi concerti non esiste alcun filmato, eccetto un frammento di pochi secondi. Anche le foto on stage sono poche. Come in sala d’incisione, anche sul palco Betty ha il pieno controllo. Agisce come direttore di scena e indica anche l’abbigliamento del gruppo (spesso pretende che gli strumentisti suonino a torso nudo, cosparsi di olio per far risaltare le forme). L’esibizione del dicembre 1974 al Bottom Line di New York suscita scalpore. Betty e il suo gruppo aprono per il concerto del bluesman Freddie King. Nel citato «Black Diamond Queens», Maureen Mahon riporta la testimonianza del chitarrista Michael Hill: «All’inizio dello spettacolo lei entrò completamente coperta da un lungo impermeabile. Poi se lo tolse rivelando d’indossare solo una sottoveste bianca. Era molto aggressiva sul palco. Non parlava col pubblico e non cercava d’ingraziarselo. Era solo un “eccoci qui, iniziamo”. Lei era molto sensuale e mentre lo spettacolo andava avanti sudava, facendo diventare trasparente la lingerie. Io e i miei amici eravamo molto soddisfatti. (…) Eravamo davvero eccitati ma gran parte del pubblico era stordito. Non era ostile ma scioccato. Era un pubblico di blues venuto per Freddie King, e Betty Davis fu una sorpresa. Suonava un intenso funk rock …la sua voce non veniva dal gospel o dal r&b. Era molto più singolare, più di una performance artistica».

Senza avere canzoni in classifica, in quei mesi Betty suscita l’interesse dell’ambiente artistico di New York. Ai suoi concerti vanno Ahmet Ertegun, proprietario dell’Atlantic, l’attore Richard Pryor, Muhammad Ali e ovviamente Miles Davis e Gil Evans. S’esibisce a Washington, Filadelfia, Los Angeles anche come spalla di George Clinton, Graham Central Station, Commodores e altri gruppi funk. Soggiogata dall’impavida esibizione corporea di Betty, la stampa specializzata non ne coglie quasi mai gli aspetti musicali innovativi. «Lei geme, urla, sibila, implora e esige quando canta una delle sue canzoni. Si pavoneggia, si agita, si contorce, si gira e tira fuori la lingua con fare libidinoso» (New York Times, 1974); «I suoi spettacoli sul palco, ancor più dei suoi album sono affari rauchi, volgari e molesti» (Melody Maker, 1975); «Ad aprire lo spettacolo era Betty Davis, un’artista dal gusto discutibile e dal talento ancor più discutibile» (Billboard, 1976). Le reazioni negative vengono soprattutto dagli uomini, siano essi spettatori che critici musicali mentre le poche giornaliste musicali donne sono più acute: «Betty è una categoria tutta sua. Lei giustamente accumula paragoni e ribatte alle critiche ingiuste della gente che dovrebbe francamente smettere, ammettendo semplicemente di non capirla» (Robin Katz, Sounds, 1975); «È l’interprete femminile più vicina al funk di Sly o Larry Graham. In più, per me, ottiene punti per aver scritto e prodotto il suo album. Potere alle donne!» (Vicki Wickman, Melody Maker, 1974).

Nonostante il tour le vendite dell’album sono scarse, anche per la difficoltà d’inquadrarla in un preciso genere musicale. Troppo rock per i neri, troppo funk per i bianchi. La proposta è estrema rispetto alle forme consolidate della Black popular music dell’epoca e i suoi dischi sono censurati delle radio. Il critico musicale Vernon Gibbs testimonia nel 1975 sulla rivista rock Crawdaddy: «Betty Davis è un fenomeno a Washington, Baltimora e soprattutto Filadelfia ma nessuna delle radio di New York suona i suoi dischi e nella sua città natale è quasi sconosciuta». Ricorda poi la serata al Bottom Line di New York: «La stampa alla moda sedeva inorridita mentre una donna vera allargava le gambe nell’estasi della musica (…) Le donne erano tutte gelose e gli uomini si sentivano castrati. Il gruppo della Davis, uno dei migliori negli anni post-Sly [Stone], veniva indicato incompetente e lo spettacolo definito disgustoso»

«Nasty Gal»
I due dischi con la Just Sunshine suscitano l’interesse di Chris Blackwell della Island Records, una delle massime etichette indipendenti dell’epoca (Traffic, Bob Marley, King Crimson). Michael Lang cede senza problemi il contratto e Betty spera in migliori possibilità promozionali e distributive. Tutto sembra iniziare bene, con alte aspettative da ambo le parti, e nel maggio 1975 la cantante inizia a lavorare sul nuovo disco con i Funk House. Betty mantiene i diritti di pubblicazione e produzione ma Blackwell è abituato ad alti livelli di vendite che il disco non farà, portando a incrinare il loro rapporto.
Ma fermiamoci alla musica e ai testi. Con una band collaudata alle spalle, la cantante estremizza la sua performance in una rabbiosa sfida alle convenzioni che nasce da reali esperienze di vita. Le sue espressioni artistiche non sono tanto un espediente spettacolare ma un’abreazione. Dal suo inconscio sembra emergere quel lato rimosso della personalità che Carl Gustav Jung chiamava Ombra. Un’istanza psichica speculare alla coscienza, che l’esibizione artistica slatentizza. Non a caso nella vita quotidiana Betty Davis è tutt’altro che trasgressiva: è ricordata per la scelta di vita salutista, la netta chiusura agli stupefacenti, anche leggeri, e una personalità sensibile. Alcune sue amiche d’infanzia hanno espresso forte stupore assistendo ai suoi concerti.

L’iniziale Nasty Gal («sporcacciona»), il brano che dà il titolo all’album, prende alla gola fin dalle prime battute. Sulla martellante base ritmica funk, Betty rende pubblico con voce strozzata i conflitti col partner (forse è intuibile chi) con rimandi alla sfera sessuale: «Adesso non sono altro che una sporcacciona / Hai detto che ero una puttana / Non è vero, non è vero / Hai detto che ero una strega / E adesso dico io perché / Ti piaceva, eh, montare la mia scopa, tesoro (…) Hai detto che ti amavo in tutti i modi tranne che nel tuo / E il mio modo era troppo sporco per te / Ma se davvero l’ho fatto a modo mio, mi chiedo, perché vuoi ancora questa sporcaccione?»Dopo il serrato blues Talkin’ Trash esposto in call and response con Fred Mills, la Davis regola i suoi conti con la stampa musicale. In Dedicated to the Press, canta con voce intimidatoria sulla potente base funk: «Avete letto di me? / Dicono che sono volgare / E che certa gente fare a meno di me / Beh, posso dire solo che è un vero schifo / Perché mi incolpano per quel che sono?» In un sorprendente cambio di clima, il brano successivo (You And I) è una dolce ballad arrangiata da Gil Evans (coi suoi inconfondibili impasti dissonanti) e quasi certamente con Miles Davis sullo sfondo. Con voce infantile Betty canta: «Sono solo una bambina che cerca di essere una donna / E tu / Ah tu sei un tipo strano / Che cerca / Di essere il mio uomo. E conclude: Che cerca di non essere un bambino». Il percorso successivo contiene altri brani significativi, sia nelle variopinte soluzioni musicali che nei testi (F.U.N.K., Shut Off The Light, The Lone Ranger) e l’album entra tra i massimi esempi del funk anni settanta.

«Is It Love or Desire?»
Come abbiamo detto, «Nasty Gal» non vende quanto la Island spera, i giudizi della stampa sono freddi e Blackwell tenta di rendere accettabile l’immagine pubblica e la musica di Betty Davis. Per il nuovo album suggerisce di lasciare ad altri la produzione, registrare una canzone stile disco, cantare brani non suoi e vestirsi in modo meno provocante.
Riuscendoci solo parzialmente (Betty resta unica autrice, mantiene un buon controllo sulla produzione musicale e cede solo sulla cover, appena maliziosa) la Island archivia l’incisione, che resta inedita fino al 2009 quando è pubblicata dalla Light in the Attic. La registrazione è effettuata nell’estate 1976 a Bogalusa (Louisiana) e mostra le doti della cantante di saper cambiare senza perdersi, in un momento in cui funk e black rock cedono terreno alla disco music. Il timbro di Betty è meno acre e si fonde in un lavoro di gruppo dall’articolata gamma espressiva. C’è piena relazione coi partner che intervengono con assoli, in veste di coristi o in vivaci scambi vocali (Fred Mills). Musicalmente più accattivante dei precedenti (intriso di Southern blues e del funk di New Orleans) l’album mantiene un graffiante impatto nell’esecuzione di Stars Starve, You Know dove Betty denuncia le pressioni della Island. Il brano è un rap ante litteram, espresso con voce ringhiante che nessun cantante (tanto meno una donna afroamericana) avrebbe osato fare: «Hanno detto che se volevo fare un po’ di soldi / avrei dovuto cambiare il mio stile / mettermi un sacchetto di carta sulla faccia / cantare piano e indossare abiti aderenti / non gli piace il mio aspetto quindi è difficile per il mio agente farmi avere degli ingaggi / a meno che non mi copra le gambe, mi arrenda e commetta uno di quei peccati commerciali. E in vari punti del rap aggiunge con scherno: Dimmi se puoi darmi un centesimo / Ho fame / Ah ehi ehi, Island».

Betty Davis Mabry

«Crashin’ From Passion» e l’uscita di scena
Senza più un’etichetta e una band (i Funk House si sciolgono nel 1978) Betty Davis trascorre gli ultimi anni Settanta tra Los Angeles, New York e Londra, scrivendo nuovi brani e sperando di pubblicarli nella nuova situazione di mercato, dominata della disco music. A Londra conosce Simon Lait, un produttore indipendente con alcune connessioni nell’industria musicale (sarà poi manager di Toni Basil, futura collaboratrice di David Byrne). Lait organizza una seduta nel 1979 a Los Angeles con il bassista Chuck Rainey, il batterista Alphonse Mouzon e addirittura Herbie Hancock alle tastiere. Betty chiede aiuto a Martha Reeves per arrangiare la parti vocali delle Pointer Sisters. Ne esce un album stilisticamente disomogeneo anche per i conflitti che sorgono in studio tra Betty e Lait (che è produttore esecutivo). Il furore della Davis è un ricordo, annacquato in un clima tardo soul con venature funky e brani pop. Solo Crashin’ From Passion regge appena il confronto col passato. Il disco viene pubblicato nella metà degli anni Nnovanta anche col nome «Hangin’ Out in Hollywood». Nei giorni del missaggio a Londra Betty riceve la notizia della morte del padre, cui è sempre stata legata. Torna a casa per il funerale e dopo un breve tour giapponese nei primi anni Ottanta con la band Arakawa, si ritira definitivamente a Homestead. Un isolamento segnato dalla depressione, durante il quale Betty rifiuta relazioni con l’ambiente musicale e interviste con la stampa.

Negli anni Novanta i suoi dischi iniziano a essere campionati da artisti hip hop come Ice Cube, Method Man, Talib Kweli e dal rocker Lenny Kravitz. Album da tempo fuori catalogo sono ricercati da collezionisti e dj, raggiungendo alte quotazioni. Come abbiamo detto in apertura, nel 2007 l’etichetta Light in the Attic inizia un programma di ristampa dei suoi dischi e nel 2013 Betty accetta di partecipare (senza mostrare il volto: nessuno è interessato a una vecchia, dice) al progetto di Philip Cox per un film sulla sua vita, firmando i diritti esclusivi con la londinese Native Voice Films. «Sento che è importante contribuire a plasmare il mio lascito mentre sono viva – dichiara – rielaborando la mia storia e la mia musica per le persone che vorranno apprezzarla e apprendere da essa». Nel luglio 2019, il 75º compleanno di Betty fu festeggiato (in sua assenza) presso un locale di Homestead con la proiezione del film di Philip Cox. Su Bandcamp uscì poi un suo brano, scritto nei primi anni Ottanta in Giappone (A Little Bit Hot Tonight) che lei stessa ha riarrangiato per l’esecuzione di Danielle Maggio. A chi le chiedeva un commento su questi tardivi riconoscimenti Betty era solita rispondere: «Beh, sai, meglio tardi che mai, come si dice».
Betty Davis è scomparsa un anno fa, il 9 febbraio 2022, a seguito di una grave malattia. Aveva 77 anni e viveva in un piccolo appartamento per donne anziane gestito dalle Catholic Charities di Pittsburgh.

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