Di recente ho ascoltato con molta attenzione due dischi. Il tuo ultimo lavoro, «Return to Casual», e quello di Kendrick Scott, «Corridors» con un trio pianoless nel quale suoni anche tu. Sono rimasto colpito dalla tua abilità a restare in equilibrio tra tradizione e avanguardia e dal tuo affiatamento con Kendrick…
Siamo cresciuti insieme a Houston, lo conosco dai tempi delle scuole medie. È stato il primo con cui ho iniziato a suonare, ascoltavamo gli stessi dischi, insieme abbiamo fatto le prime gig, passavamo insieme gran parte della giornata. Abbiamo frequentato lo stesso college, insieme ci siamo trasferiti a New York dove abbiamo abitato nello stesso appartamento. Sicuramente Kendrick è la persona con cui ho suonato di più nella mia vita. Ho imparato ad ascoltare la musica anche attraverso lui e le sue orecchie, e quindi capirai che abbiamo un rapporto di grande intimità. Kendrick è un musicista molto attento e molto dinamico, sa come creare moods differenti, sa come sostenere la band, insomma è un fuoriclasse.
Anche gli altri musicisti che suonano con te nel tuo ultimo disco – Taylor Eigsti, Harish Raghavan, Matt Stevens – collaborano con te da molto tempo. Cosa ti attrae di ognuno di loro?
Sono gli stessi con cui ho registrato «Still Casual» circa dieci anni fa, infatti «Return to Casual» non è un titolo scelto a caso! Con loro mi trovo molto bene perché mi hanno permesso di realizzare l’ensemble che avevo in testa. I musicisti che cercavo non dovevano necessariamente essere dei grandi solisti, dovevano avere voglia di lavorare attorno ad un suono specifico. Se tu senti come Taylor e Matt accompagnano, ti rendi conto che il loro modo di fare scantona dalla maniera in cui di solito si sostiene un solista, con accordi o linee di note, c’è un sacco di ritmo in quello che fanno. Lo stesso Harish spesso frammenta il ritmo e la sua maniera di utilizzare lo strumento, il contrabbasso, è assolutamente inusuale. Proprio per questo, per questo loro modo di suonare, succedono tante cose musicalmente che spingono in avanti tutto il gruppo. La musica va avanti all’unisono, non ci sono soltanto dei grandi momenti solistici ma è tutto il concetto del gruppo nella sua totalità che funziona.
Se tu dovessi sintetizzare quali sono le caratteristiche che fanno di te uno dei sassofonisti più ricercati del momento che cosa mi rispondi?
Probabilmente i miei capelli! [risate… Walter è quasi calvo, NdA]. Parlando sul serio, forse perché è riconosciuto che tengo molto a fare il mio lavoro con il massimo di professionalità che mi è concessa. Lavoro sodo, molte ore al giorno, e quando i colleghi mi mandano la loro musica la studio a fondo, mi preparo con grande attenzione nella speranza che si ricordino di me e mi richiamino.
Finora hai fatto parte di molti progetti importanti, alcuni dei quali hanno segnato una traccia indelebile nel jazz moderno. Penso al Next Collective, alla tua collaborazione con Ambrose Akinmusire e a parecchi altri. Quali sono stati quelli che ti hanno rappresentato di più dal punto vista musicale e da cui hai potuto trarre maggiori gratificazioni?
Sicuramente il gruppo con Ambrose è quello che mi ha permesso più di tutti di capire come si lavora attorno al suono. Da lui ho imparato molto musicalmente ma anche su come condurre un ensemble. Un altro con il quale ho lavorato e dal quale ho imparato davvero tanto è stato Terence Blanchard; poi Eric Harland e il suo quintetto, The Voyager, sono stati un’esperienza formativa attraverso la quale sono cresciuto molto. Scegliere tra queste tre esperienze per me è davvero imbarazzante, direi tutte e tre in egual misura.
Hai frequentato un liceo artistico, ricevuto premi, borse di studio, ti sei laureato alla Berklee con una borsa di studio, hai conseguito un master presso il Thelonious Monk Institute di Los Angeles. Cosa pensi dell’idea che il jazz sia diventata una musica istituzionale e abbia perso il suo spirito iniziale, quello della strada?
Questo può essere vero per chi si limita a suonare ciò che ti viene insegnato a scuola, ma molti dei musicisti che conosciamo io e te, e alcuni li abbiamo nominati, pur avendo avuto un insegnamento accademico si sono formati al di fuori della scuola, che deve essere vissuta come un punto di partenza e anche come un punto di incontro per poi intraprendere il proprio percorso. Certo, se tutto si riduce ad apprendere e a suonare quello che ti insegnano nelle scuole, sicuramente ti stai perdendo una parte importante di questa musica.
Oltre a essere un performer fai anche l’insegnante. Raccontami di come riesci a mettere insieme questa tua dimensione con quella dell’esecutore…
Nell’insegnamento cerco di rappresentare una fonte di ispirazione per i miei allievi ,sforzandomi anche di far capire loro cosa li aspetta dopo la scuola. Il mio intento è quello di insegnare alcuni rudimenti dell’essere musicista oggi, su cosa è meglio prepararsi per affrontare questo lavoro così difficile, qualche volta faccio sentir loro la musica che ho appena registrato o che ho suonato di recente in un tour, mostro gli spartiti, cerco di farglieli imparare, qualche volta parlo con loro di come gestire gli aspetti organizzativi della professione dal punto di vista economico. Insomma, cerco di ispirarli fornendo loro il mio punto di vista e faccio per loro da punto di riferimento. Ma questo non è a senso unico, perché a me interessa molto anche il loro punto di vista. Molto spesso li faccio incontrare con musicisti che stanno avendo successo in quel momento così che raccontino ai ragazzi la loro esperienza: ritengo sia più formativo che stare sempre a parlare di ciò che è successo in passato.
Parlami delle tue influenze musicali come sassofonista e come compositore.
Sono cambiate nel tempo. Ai tempi del mio primo album ascoltavo molto Sam Rivers, Ornette Coleman, ascoltavo «Fellowship» di Brian Blade, Terence Blanchard, Mark Turner. Devo dire che molte delle mie influenze, soprattutto per quel che riguarda la mia maniera di scrivere, derivano dalla frequentazione di Terence Blanchard, il quale mi ha mostrato alcuni metodi di scrittura che mi hanno fatto crescere sia come improvvisatore sia come compositore.
Cosa ti ha spinto a prendere in mano il tuo strumento? E qual è stato l’insegnante, o gli insegnanti, che ti hanno aiutato a progredire sino al livello che hai raggiunto oggi nel tuo modo di suonare?
Mio padre era un sassofonista, suonava il mio stesso strumento, il tenore. Era di New Orleans e ha frequentato la Southern University studiando con Kidd Jordan, era anche un maestro di scuola. Lui è quello che mi ha messo in mano lo strumento per la prima volta a sei anni. Da allora non ho più smesso. Ho avuto, oltre a lui, altri maestri piuttosto conosciuti a Houston: Conrad Johnson, David Caceres. Poi sono andato alla Berklee e lì ho studiato con George Garzone e Bill Pierce. A New York ho studiato con Dick Oatts. Insomma non avrei potuto volere di più dal punto di vista dell’insegnamento.
Quali sono stati per te gli album migliori del 2022?
Ho un po’ di problemi a ricordarmi le date. Non riesco neanche a ricordare la data del mio ultimo album, quello che ho inciso prima di «Return to Casual». Comunque mi sono piaciuti il disco di Immanuel Wilkins, quello di Micah Thomas, l’album di DOMI & JD Beck.
Qual è il miglior disco di jazz che hai ascoltato nella tua vita?
Probabilmente «The Shape of Jazz to Come» di Ornette Coleman.