Kendrick Scott: Corridors

Lo spettacolare album in trio del batterista di Houston sta facendo drizzare le orecchie al mondo del jazz. Ne parliamo quindi con il suo autore

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Hai fatto uscire un disco straordinario, «Corridors». È davvero difficile scegliere il brano più riuscito. Tutti i pezzi sono costruiti su questo interplay a tre che sembra funzionare perfettamente. Davvero una musica ricercata. Parlami di questo progetto e di com’è nato

È nato durante la pandemia, un periodo terribile per me. Tutto si era fermato e io non riuscivo a sopportare la sensazione di stasi che stavamo vivendo. Sono sempre stato abituato a viaggiare e l’idea di non poterlo più fare mi rendeva inquieto. Ho iniziato a concentrarmi su cose che potessero esorcizzare quella sensazione così sgradevole per me. Una di queste è stato studiare, stavo a casa e non potevo fare altro, mi mancava moltissimo la possibilità di stabilire rapporti con altre persone, confrontarmi con altre culture, insomma tutto quello che viaggiare ti dà l’opportunità di vivere. Stavo a casa e ricordo benissimo il corridoio del mio appartamento di New York, non lo avevo mai visto così tante volte come in quel periodo, ogni stanza di quell’appartamento diventava un luogo nel quale vivere qualcosa di particolare, una stanza la usavo solo per la meditazione, un’altra era il mio studio, una era la camera da letto e ognuna di esse assumeva un significato diverso per quello che era diventato il mio piccolo mondo così stagnante. Ed è una sensazione che ho condiviso con i miei amici le cui vite subivano gli stessi cambiamenti. Io non ho né moglie né figli, ma molti dei miei amici, sposati con figli, mi raccontavano dei mutamenti che la loro vita aveva assunto in seguito a quel periodo di chiusura. Ognuno di loro ritrasformava i suoi spazi per adeguarsi a quella tremenda situazione. Ho voluto guardare a questi mutamenti non solo dal mio punto di vista ma anche da quello degli altri cercando di capire cosa stesse accadendo nel mondo, volevo sapere cosa ognuno di noi stesse provando, che cosa avevamo perso, cosa ci era stato portato via. A me erano state portate via due cose molto importanti: la possibilità di suonare con gli altri e la possibilità di viaggiare. Ho voluto testimoniare con la mia musica quello che stavo provando togliendo alcune cose come il piano e la chitarra che fino ad allora avevo considerato fondamentali per la mia espressività. La mia musica iniziava ad assumere una nuova forma, inconsueta per me, mi sembrava fosse un corridoio, era come trovarsi in un grande magazzino con un grande riverbero che mi ha dato la possibilità di lavorare con una visione nuova, almeno per me, per quello che riguarda il suono, alla quale non ero abituato. Questo disco è nato così.

Sei inserito nella scena musicale di New York da molto tempo. Però tu vieni da Houston, Texas, che non è forse il posto migliore per chi decide di fare il jazzista nella vita. Raccontami qualcosa di te…

Houston è la quarta città più grande degli Stati Uniti ed è una città bellissima in cui vive un sacco di bella gente. Non è vero che non è il posto giusto per uno che vuole suonare jazz, anzi il jazz è una forma d’arte molto frequentata da quelle parti. Certo, non ci sono molti club dove si suona jazz, però il tipo di sensibilità che ruota attorno al jazz è molto presente. Questo è il vero motivo per cui la gran parte dei musicisti che si formano da quelle parti sono costretti ad andar via, magari in un posto come New York in cui la possibilità di esibirsi è molto maggiore. Questa tendenza è iniziata prima di me, Joe Sample ovviamente è andato via da Houston decenni prima di me ed è diventato famoso fondando i Crusaders. Ho anche avuto la possibilità di suonare con lui. Molti di noi si sono formati con la musica religios,a quella della chiesa battista, e per questo sentiamo forte l’esigenza di dare un messaggio con la nostra musica, qualcosa di simile a quello che accade con il soul, una caratteristica intrinseca della nostra musica, profondamente integrata in quello che suoniamo. Il soul, inteso come sentimento, è sempre presente nella nostra musica qualsiasi cosa suoniamo, sia essa jazz oppure soul in senso più classico. Ed è qualcosa che caratterizza la gran parte dei musicisti di Houston, in qualsiasi parte del mondo siano finiti a suonare. Un gruppo importante di jazzisti moderni viene da Houston: Jason Moran, Walter Smith III, Mike Moreno: siamo tanti, sparsi in diverse parti del mondo e tutti accomunati da una grande passione per quel che facciamo. Di recente in un mio allievo di Houston, che ho avuto alla Manhattan School Of Music, ho riconosciuto le stesse caratteristiche e ho pensato che il filo che ci lega è ancora molto forte. Il viaggio continua, insomma.

Tu sei un batterista ma anche un compositore. In quale di queste due dimensioni ti senti maggiormente rappresentato?

Quella del batterista. La composizione la utilizzo ma sempre al servizio del mio drumming e credo che l’unico motivo per cui sono anche un compositore sia proprio questo. È come se la musica fosse arrivata a me attraverso la batteria, e l’aspetto compositivo della mia attività è esclusivamente legato al fatto che mi permette di suonare meglio il mio strumento. L’aspetto più interessante della composizione, per me, è qualcosa di impalpabile che mi permette di sviluppare un groove particolare. Per il resto, mi sento e sono un batterista.

Se dovessi sintetizzare quali sono le caratteristiche che fanno di te uno dei più ricercati batteristi in circolazione oggi, che mi risponderesti?

Wow… Non saprei rispondere. Suono la batteria pensando nello stesso tempo al canto e al ritmo, e quando suono cerco di curare questi due aspetti dando un certo tipo di cantabilità al ritmo. Ovviamente la mia percezione si riferisce sempre ai grandi maestri che ho studiato profondamente: quando penso a Louis Hayes penso che il mio piatto destro lo stia suonando lui stesso, quando penso al messaggio spirituale mi viene immediatamente in testa Elvin Jones, quando penso alla magia è Brian Blade che mi appare davanti agli occhi, quando penso alla creatività mi appare Al Foster. È una lunga lista di maestri, quella a cui mi ispiro. E poi conservo un mio piccolo quaderno di appunti, un piccolo diario in cui appunto tutto ciò che mi fa percepire il mio miglioramento sullo strumento e che mi permette di annotare tutti gli aspetti con i quali voglio che la mia batteria suoni. Cerco di essere il più autentico e onesto possibile, filtrando ovviamente attraverso la mia personalità quello che ho imparato dai grandi maestri.

Hai fatto parte di progetti molto importanti. Sto pensando al tuo Oracle, ai Blue Note All Stars, alle tue collaborazioni con un sacco di grossi nomi come Terence Blanchard, Charles Lloyd eccetera. Quali di queste situazioni ti rappresenta di più dal punto di vista musicale? 

Sicuramente «Flow» di Terence Blanchard è stata una pietra miliare per me, molto importante per tanti motivi: lo stava producendo Herbie Hancock e ho avuto la fortuna di sentirlo suonare su un brano composto da me e, come puoi immaginare, ascoltare Herbie che suona un tuo brano è una sensazione che capita poche volte nella vita. L’album di Walter Smith III «Still Casual» è un lavoro in cui abbiamo raggiunto un potente suono d’insieme. Ovviamente tutte le esperienze sono formative, comprese quelle attuali attorno alle quali sto lavorando. Però queste domande mi mettono sempre un po’ in crisi…

Me l’hai già accennato, ma mi piacerebbe sapere quali ritieni siano le tue influenze principali, non solo sullo strumento, ma anche dal punto di vista compositivo… 

Innanzitutto mia madre, è stata la mia prima grande influenza musicale. Era una cantante gospel e una pianista di musica classica e mi ha insegnato a lavorare sulla tecnica. Sai, era un’insegnante, ogni giorno impartiva lezioni private e, come potrai immaginare, ci teneva che sviluppassi non solo una tecnica ma anche una mentalità musicale a tutto tondo. Mi ha insegnato che bisogna sempre andare avanti senza mai sedersi sugli allori, se hai talento lo devi coltivare, ogni giorno, per far si che possa espandersi. Questo è stato l’insegnamento più grande che mi ha trasmesso. Poi tutti i grandi musicisti di Houston, il grande Chris Dave, un batterista che seguo ancora oggi e che ho visto suonare in chiesa quando avevo otto anni, Eric Harland che suonava nel mio quartiere, Sebastian Whitaker, tutti batteristi che hanno avuto un peso sulla mia formazione. Ricordo di aver sentito Tony Williams suonare My Funny Valentine e ho pensato di non aver mai sentito niente di simile prima. Un ricordo molto bello che ho è quello della mia audizione per la high school in cui suonai Seven Steps To Heaven, e il mio insegnante dell’epoca, mister Singleton, mi fece settare una batteria di cinque pezzi con dei rototom e mi disse che l’avevo fatto bene. Ricordo Lionel Hampton che suonava Ring Dem Vibes e mi fece scoprire un mondo. Bill Stewart, Jeff «Tain» Watts, Brian Blade ,tutta gente che era avanti anni luce già da allora. Quando sono diventato un po’ più grande ho fatto un percorso a ritroso e ho ascoltato i dischi della Blue Note e tutti i grandi batteristi del passato. Oggi le mie più grandi influenze, non solo come musicisti ma come uomini sono Wayne Shorter e Roy Haynes. Roy è incredibile, ha suonato con tutti e continua ancora a farlo alla grande con una cifra stilistica sempre riconoscibile.

Cosa pensi dell’idea che il jazz sia diventata una musica istituzionale e abbia perso il suo spirito iniziale, quello della strada?

Questa è una cosa importante. Faccio del mio meglio per comunicare ai miei allievi qual è la sensazione che si prova quando ci si trova in mezzo ad una jam in un vero club, quando magari fai un errore e il bandleader ti guarda storto. A volte mi tocca trattarli male come è capitato a me di essere trattato, ma è importante, anche se non è politicamente corretto, far capire loro qual è lo spirito con cui questa musica è nata e si è evoluta. L’immediatezza, la ruvidità, se vuoi anche un certo tipo di crudezza verbale hanno avuto il loro peso, ma oggi nel fatto che il jazz sia diventata una musica istituzionale che si insegna a scuola ci sono dei vantaggi. Innanzitutto le scuole sono dei punti di incontro con altri che hanno il tuo stesso scopo, e poi rappresentano un momento in cui si possono approfondire certi aspetti che magari da soli non si riescono a focalizzare. In ogni caso sono d’accordo, lo spirito primigenio, quello della strada, oggi andrebbe recuperato perché la nostra musica è bella anche per questo. Io come insegnante mi trovo nella condizione di dover mediare tra questi due aspetti.

Robert Glasper, Nicholas Payton, il compianto Roy Hargrove. Tre nomi importanti che si caratterizzano per saper abilmente miscelare il funk con il jazz più ricercato. Cosa ritieni di avere in comune con loro?

In realtà non lo so. Il mio sforzo è quello di cercare di non rientrare nelle categorie. Ognuno di noi ha percorso la sua strada. Io sono cresciuto con Robert e lui è riuscito in un compito difficile, a mio avviso: comunicare che si può sovrapporre al jazz una batteria hip hop senza che questo rappresenti un problema. Nella sua musica le due cose si legano perfettamente. Nicholas Payton e il suo concetto di Black American Music non sono altro che la continuità con cui questi mondi vanno a braccetto da sempre. L’hip hop non è altro che jazz e il jazz non è altro che una progressione del blues e il blues viene dal gospel e così via. Da questo punto di vista, pur muovendomi con sonorità differenti, mi sento affine alla loro mentalità. È ancora prima del gospel ed è in quel senso che si parla di Black American Music. In ogni caso, ognuno di questi musicisti che hai citato ha percorso una strada molto personale. Roy Hargrove, che Dio l’abbia in gloria, è stato un musicista meticoloso, molto particolare. Io però, se penso al mio modo di suonare, non mi metto nel loro calderone, penso a me come a qualcuno che si trova in una situazione più aperta, credo che il loro sia un punto di vista anche un po’ conservatore.

E quindi, visto che hai citato BAM e Nicholas Payton, cosa pensi della sua idea di non chiamare più jazz la musica afroamericana? 

Adoro la sua idea, mi piace. Quando sono andato per la prima volta in Giappone ricordo di aver visto alla Tower Records una sezione etichettata come «Black». Lì per lì mi è parsa una cosa razzista, poi riflettendoci ho pensato che fosse una bellissima etichetta perché tra quei dischi c’erano Marvin Gaye ma anche Louis Armstrong, Aretha Franklin, Stevie Wonder, Michael Jackson insieme a Wayne Shorter, Miles Davis e Jimi Hendrix. E poi c’era Bob Marley. Si, mi piace il fatto che Nicholas si ponga il problema di chiamare la nostra musica Black American Music. C’è un filo, neanche tanto sottile, che ci accomuna. Quando penso alla mia musica non penso alla parola jazz, un termine che non rende in pieno quel che noi facciamo, non è preciso. Noi tendiamo a dire «suono la musica di Duke Ellington, suono la musica di Miles Davis» non diciamo «suono jazz». Per quanto mi riguarda, quindi, io suono la musica di Kendrick Scott.

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