Minuta, pacata, incline a un sorriso disteso, Gretchen Parlato si contraddistingue per la sua intensa semplicità, una cifra che è umana ancor prima che stilistica. I riconoscimenti sono arrivati copiosi ai cinque album a suo nome, «Gretchen Parlato» (2005), «In a Dream» (2009), «The Lost and the Found» (2011), «Live in New York» (2013) e «Flor» (2021), gli ultimi due candidati ai Grammy Awards nella prestigiosa categoria «Best Jazz Vocal Album». Il sesto, «Lean In», con il chitarrista e vocalist Lionel Loueke, collaboratore e amico di una vita, è in uscita il 19 maggio per la Edition Records. L’ho intervistata sulla natura della sua vocalità, del suo rapporto con la musica e sull’impatto che essere diventata madre ha avuto sulla sua produzione artistica. E mi ha dato risposte d’intensa semplicità, com’è la sua arte.
Una delle cose che mi hanno più colpito quando ci siamo conosciute, durante una tua lezione, è il modo in cui pensi il canto: un processo che, mi dicevi, si sviluppa su tre livelli. Una visione, la tua, che va in profondità e in altezza e tende a espandersi, ad andare oltre.
Sì, certo! Ho cominciato a rifletterci qualche anno fa. Mi sono resa conto che quando chiudo gli occhi per cantare, per un concerto o anche solo per esercitarmi, visualizzo tre livelli. Un livello tecnico al centro, uno emotivo sottostante e uno spirituale al di sopra. Sono tre strati che percepisco concretamente in me. La tecnica è ciò che ho imparato sui libri e a lezione, è la parte scientifica, matematica, di ciò che facciamo come musicisti: l’intonazione, la tonalità, il timbro, l’appoggio, il lavoro sul ritmo, la teoria, l’educazione all’ascolto; è tutto ciò che si studia e si apprende. Ma ad un livello più profondo c’è una connessione emotiva con il nostro cantare. È l’emozione che sta dietro la voce. È il come provi emozioni. Ed è il come chi ti ascolta potrebbe provare delle emozioni. Tener conto di questo livello è importante. Significa capire che è un aspetto che muta. Potresti cantare di nuovo lo stesso brano, ma le emozioni sarebbero diverse. Cambiano continuamente. Questo livello è relativo a ciò che la canzone racconta e alla storia di quella canzone. È sapere da dove arriva. Qual è il suo contesto. Quale il suo ambiente. Chi sono coloro che l’hanno scritta e qual è la loro storia. Ramificazioni da seguire. Al di sopra della connessione emotiva e della tecnica, c’è poi il livello spirituale che ciascuno può definire con parole sue e nel modo che sente più vicino. Spiritualità, religione, o semplicemente quel che mi piace definire il senso di ciò che non si conosce, che va oltre noi ed è fuori dal nostro controllo. Questo livello ci dà la consapevolezza che ciò che facciamo è prezioso. È sacro. Profondo. Dura nel tempo. Ciò che produciamo «in the moment» è destinato a restare anche dopo che saremo passati, e potrà influenzare altre persone. È un pensiero bellissimo e al tempo stesso gravoso. E può aiutarci a dare più valore alla qualità del nostro lavoro più che alla quantità, a ciò che stiamo comunicando e perché. A me piace muovermi tra questi livelli, metterli in connessione, lavorare da posizioni differenti.
Questa è una caratteristica della scrittura di Gretchen, come appare evidente, per esempio, da due canzoni (o poesie in musica, come mi piacerebbe chiamarle) di «In A Dream» e delle quali ha firmato il testo. In Turning into Blue si ascolta: «Life is but a dream we wake at the end/ only just to smile then live it again» [La vita non è che un sogno dal quale ci svegliamo alla fine/ solo per sorridere e tornare a viverlo]. Quasi un richiamo al tema barocco della vita che è sogno, anche se per noi occidentali il tempo è progressione lineare e, dunque, comporta inevitabilmente la fine di ciascun individuo. Una visione che conduce spesso ad un sentimento di malinconia. Mentre la proposta di Gretchen è rasserenante e perfettamente in linea con il suo stile vocale: la ripetizione incantatoria di alcune note che si susseguono, spesso congiunte, come onde, espandendosi con impercettibili movimenti contigui e increspature ritmiche. Ed ecco le onde: «Like the endless waves belong to the sea/ all of this is more than just you and me» [Come le onde infinite appartengono al mare/ tutto questo è più di te e di me].
C’è estrema coerenza tra le parole che scrivi, le scelte di suono che fai e la persona che sei. Tutto si tiene. Quand’è che hai cominciato a scrivere?
In effetti i miei primi passi nell’ambito della creatività li ho mossi proprio come autrice di testi. Prima ancora di affrontare la scrittura di una melodia o di una canzone completa, ho provato a scrivere il testo di una musica che già esisteva. Il primo fu Juju per il brano di Wayne Shorter Footprints (su «Gretchen Parlato») e lo avevo scritto su commissione [«When the wind blows sounds of yellow are around» (Quando spira il vento, suoni gialli ci circondano)]. Mi fa piacere raccontare questa storia perché risale a un tempo molto lontano della mia vita. Alla fine dei miei vent’anni quando ho anche scoperto lo yoga, e questo mi ha fatto conoscere insegnanti che hanno condiviso con me le loro filosofie; Thích Nhat Hanh, il monaco buddista che è mancato circa un anno fa, mi ha toccato nel profondo. E Pema Chödrön. Sono loro le due principali influenze sulla mia scrittura. All’epoca, meditare e scrivere della differenza che avvertiamo tra la veglia e il sonno mi aveva affascinato. La vita non è che sogno, «life is but a dream», che è anche la frase di una canzoncina per bambini: «Row, row row your boat/ gently down the stream/ merrily merrily merrily merrily life is but a dream» [rema sulla tua barca/ con tranquillità seguendo la corrente/ con gioiosa allegria/ che la vita è solo un sogno]. Entrano in gioco la memoria e la coscienza e il flusso che le unisce. E amo le immagini dell’acqua e il suo espandersi e l’oceano immenso. La visione delle onde mi affascinava. Il fatto che tutti siamo presi dentro quest’onda, ma il movimento è continuo, l’onda arriva e si ripiega su se stessa. Fa parte di un insieme più ampio. Tutto questo mi ha aiutata a trovare una calma interiore, a rilassarmi e a godere provando a stare «in the moment». C’è stato un periodo in cui ero sempre in ansia: da giovani ci preoccupiamo di quello che succederà, della perdita, della morte. Mi ci sono voluti vent’anni per scoprire quello che mi ha aiutato a vedere l’insieme delle cose. E allora ho pensato: se scrivo di tutto ciò forse quello che scrivo potrà essere di aiuto per qualcun altro. E ora ho un figlio. Essere genitori ci fa desiderare di trasmettere ai figli quello che abbiamo imparato e quello che ho imparato è non trattenere dentro le ansie, le paure, ma sentire che tutto è ciò che è e che è nel momento e che si può godere di ciò che è.
L’acqua e il flusso sono immagini potenti, ma nel tuo terzo album, forse il più complesso, «The Lost and the Found», c’è un immaginario legato a un diverso elemento: l’aria. Ascoltiamo di vento e di cielo, e persino di sfere e pianeti. Il concetto di circolarità pervade ancora una volta questo lavoro e l’idea che si debba perdere se si vuole trovare.
Hai ragione per la circolarità. E anche per l’aria. In effetti c’è molta aria anche nella mia voce. A volte me lo fanno notare come una critica, a volte è un complimento, a volte è una semplice osservazione.
Per me l’uso che fai del respiro è una caratteristica inconfondibile della tua vocalità.
Sì. Penso che si debba al fatto di essere stata esposta all’ascolto di voci e cantanti da tutto il mondo. Ho cercato di capire come il respiro possa essere usato con una sensibilità ritmica, qualcosa che si possa udire, che fa parte della tessitura di un pezzo. Ho studiato al Dipartimento di Etnomusicologia dell’Università della California dove sei esposto a musica che proviene da tutto il mondo, mentre di solito si resta nell’ambito della musica occidentale e degli Stati Uniti. Credo che sia stato allora, negli anni Novanta, che ho imparato ad ascoltare altri modi di usare la voce: i nativi americani, gli Inuit e i loro canti tribali e così via. Per esempio, una volta vedemmo un video in cui c’erano delle donne che cantavano usando ciascuna la bocca della persona che aveva di fronte come cassa di risonanza. Bisogna essere molto intimi per farlo! Era una sorta di hochetus, con uno schema a intreccio e tanto respiro. Da questo tipo di studio è arrivata la consapevolezza del respiro. E d’altra parte siamo esseri umani, abbiamo bisogno di respirare. Perciò non c’è bisogno che il respiro sia silenzioso, inudibile. Il respiro ha un ritmo, ha un suono.
La voce di Gretchen sembra spesso uno strumento a fiato. Appare evidente negli esperimenti in cui lascia da parte le parole per produrre suono puro: per esempio, nella straordinaria versione del brano di Pixinguinha Rosa per sola voce e violoncello (da «Flor»), forse una delle più belle versioni mai incise, accompagnata da un meraviglioso musicista come l’armeno Artyom Manukyan, col quale Gretchen si spinge anche ad affrontare la Suite n. 1 per violoncello, BWV 1007, di Johann Sebastian Bach.
Gli scienziati ci dicono che il nostro orecchio è sempre più attratto dal suono della voce che dal suono di qualunque altro strumento. Siamo naturalmente sintonizzati sulla voce umana. Cosa accade, allora, quando una voce umana canta tra gli strumenti? La voce può essere invadente, a volte, e penso anche a grandissime cantanti jazz. Ma tu lasci tanto spazio agli strumenti. Per me è indice di generosità, di non voler approfittare del potere della voce. Pur venendo da una famiglia di musicisti, con un padre bassista (Dave Parlato) e un marito batterista e percussionista (Mark Guiliana), non hai scelto uno strumento ma hai deciso di concentrarti sul canto e sul corpo, sia per la voce sia per la body percussion.
Questo è un punto interessante! Tierney Sutton, che è stata una delle mie insegnanti ed è una grande cantante, mi ha forse per la prima volta fatto riflettere sul fatto che siamo molto più concentrati sulla voce umana. E d’altra parte tutti abbiamo una voce, siamo esseri umani, parliamo anche se non sappiamo cantare. Ci rapportiamo a quel suono perché di fatto possiamo crearlo. Quindi capisco che ci sia un potere nella voce. Ma, per quanto mi riguarda, ho sempre amato sentirmi parte di un insieme. Ripenso a quando ero più giovane e facevo parte di un coro o mi capitava di partecipare a una produzione musicale per il teatro. Mi dava talmente tanta gioia e ispirazione far parte di una squadra! Ed ero piuttosto timida, un po’ introversa. Forse c’è ancora una parte di me che non ama trovarsi sotto i riflettori. Mi piace stare allo stesso livello del gruppo. E quindi sì, è qualcosa di naturale per me, però, come dici tu, consente anche agli altri strumenti di emergere nella tessitura e nella struttura che si sta creando, o lasciare che alcune parti rimangano vuote, non riempire necessariamente tutto. Si può lasciare spazio. Penso che anche questo sia molto importante. Forse oggi potremmo dire che quella di concentrarmi sul canto è stata una scelta. Ma è anche legata al fatto che mi sentivo frustrata a cercare di imparare il pianoforte o la chitarra o altri strumenti, perché mi sembravano troppo difficili per me. Quindi ciò che ho fatto con grande naturalezza è stato cantare e suonare il ritmo. Mi sono detta: che cosa possiedo? Possiedo la mia voce, la mia abilità di suonare il ritmo con le mani. E questo è stato molto stimolante e anche una sfida: cantare ed essere coordinata rispetto alle mie mani e al ritmo.
A questo proposito vorrei soffermarmi sul tuo stile di performer dal vivo. Il corpo è lo strumento di chi canta e tu ne sei estremamente consapevole, eppure per una donna presentare al pubblico questo strumento, che è il corpo, può a volte comportare delle problematiche. Può succedere che il corpo distolga dalla musica sia chi canta sia chi ascolta. Tu, invece, sembri tuffarti in te stessa, quando chiudi gli occhi e canti, apparendo immersa nella meditazione. E quando ti guardo, come parte di un pubblico, mi arriva questa sensazione potente di completa assimilazione del corpo alla voce. Si percepisce il piacere che ti procura la musica che ti circonda. Appari come avvolta in questa sensazione di piacere, al punto che sembra quasi che la tua sia una voce interiore che emerge dalle profondità del tuo essere.
Oh, hai ragione. Non saprei neanche cosa aggiungere a quel che hai detto. E mi piace ciò che hai messo in evidenza. Anzi, mi sarebbe piaciuto che qualcuno me lo avesse detto quando avevo 25 anni, o addirittura da adolescente. Perché molti si aspettano il contrario e non sono abituati a qualcosa di troppo introspettivo. Sì, la mia musica è una forma di meditazione ed è un invito agli altri a sentirsi meditativi. A tale riguardo penso a mio figlio, che adesso ha circa dieci anni. Per lui è stato difficile accettare che cantassi e non voleva, anche se adesso comincia ad apprezzarlo. Forse era troppo per lui, perché, come dici tu, quando canto scompaio. E dove sono andata? Sono tutta «in the moment», come dicevamo. Provo moltissimo piacere, per l’appunto, nell’ascoltare ciò che accade intorno a me e nel perdermici. E in quel momento non sono più una madre. In quel momento non sto giocando con mio figlio o non mi sto occupando di lui. Un bambino ancora piccolo può rimanere confuso. E può darsi che succeda anche ad altri, per i quali il mio modo di cantare può essere «troppo».
A proposito dei figli, in «Flor», nella canzone Wonderful, ci sono bellissime voci di bambini che mi hanno fatto tornare in mente il tuo Butterfly dall’album «In A Dream». Anche lì c’è una voce infantile all’inizio del brano, e quando una volta ti ho chiesto di chi fosse mi hai risposto che sei tu da piccola. Che rapporto hanno le voci dei bambini in Wonderful con la tua voce di bimba in Butterfly?
Fantastico che tu connetta le due cose. Io non lo avevo ancora fatto. Ma è vero! Quando ero piccola, mia mamma mi ha registrato e ha conservato le cassette che contenevano la voce mia e di mia sorella: noi che giocavamo o cantavamo o dicevamo cose da bambini. Sono cassette che abbiamo sempre molto amato, nella mia famiglia; le ascoltavamo insieme e ridevamo e ci facevano molto divertire. Quando stavo registrando Butterfly me ne sono ricordata, ho pensato «vediamo se posso usare qualcosa» e ho scelto un frammento in cui canto e gioco a tenere il ritmo sulla superficie dell’acqua mentre faccio il bagnetto. L’ho fatta ascoltare a Lionel, lui ha accompagnato quei suoni con la chitarra e ha creato una introduzione: quindi all’inizio di Butterfly Lionel accompagna la «me» di due anni! E c’è una parte in cui la «me» di due anni tiene il tempo e dà l’attacco al brano. Forse chi ascolta capisce che sono io. Però qualcuno mi ha chiesto se la voce fosse quella di un figlio o di una figlia. E all’epoca rispondevo subito «No, no… non ho figli», ritenendo assurdo che qualcuno potesse solo pensarlo. Invece adesso a cantare su «Flor» sono proprio i nostri figli e le nostre figlie. C’è il mio. Ci sono le figlie del chitarrista e del violoncellista del gruppo. E anche altri amici, persone di famiglia e i loro figli. Bambini e ragazzi dai quattro ai quindici anni che cantano in quel brano. Sono bellissimi!
E bellissimo è il testo cantato da quelle voci: «I know I’m wonderful» [so di essere meravigliosa/o]), un inno all’autostima per incoraggiare le persone a credere in se stesse.
Ho scritto quelle parole da madre pensando a mio figlio, ma anche rivolgendole a tutti. Riflettevo su tutti i bambini e su noi adulti. Quando sei un bambino hai fiducia in te stesso, ti senti invincibile, in grado di fare tutto, come se tutto fosse in tuo potere. Ma quando si diventa grandi perdiamo questa fiducia. «Flor» è un modo per ricordare. Si rivolge a chi ha perso il senso del suo valore come persona e si fa del male o non ha cura di sé. Spero che possa essere un messaggio che aiuti a trovare ciò che ti fa sentire bene, forte e splendente di bellezza, così da poter fare quel che desideri nella tua vita e aver cura di te e degli altri.
Ritorniamo ancora un attimo al tuo immaginario degli elementi. Abbiamo detto acqua e poi aria e infine terra in «Flor»: un fiore che ha radici che si espandono nella world music.
L’immagine del fiore si lega alla mia maternità e al fatto che per un certo periodo ho messo da parte la mia musica per lasciare spazio al mio essere madre. La mia musica allora mi è apparsa come un fiore che rispunta in primavera. Non lo vedi in inverno, sembra che dorma. Pare che nulla stia succedendo. Ma in realtà ha solo assunto una forma diversa: tornerà a sbocciare e lo si vedrà di nuovo.
Così è stato! Finalmente, dopo la pandemia, quest’anno sei tornata a cantare dal vivo e hai fatto tante date negli Stati Uniti e in Europa. Come ti sei sentita?
È stato bellissimo! Il pubblico era così partecipe: una condivisione d’amore tra musicisti, ascoltatori e chi ci ospitava in ogni sede. La sensazione è stata di trasformazione, meditazione, illuminazione!
E infatti sei in forma smagliante. E adesso è in uscita il tuo nuovo lavoro con Lionel Loueke. Ho avuto la fortuna di ascoltarlo in anteprima e mi ha conquistata.
Ho conosciuto Lionel al Thelonious Monk Institute. È un chitarrista e un cantante stupendo. Abbiamo suonato tanto insieme, vent’anni! E il suo uso della voce è molto strumentale, molto ritmico. Ascoltarlo mi ha fatto capire che dalla nostra bocca può uscire qualunque suono e che la voce può entrare sul serio nel tessuto della musica.

Amo il titolo che avete scelto: «Lean In»: una esortazione ad accettare le sfide e a impegnarsi verso sé e gli altri, ma anche la visualizzazione del movimento del corpo quando si protende verso una persona che si desidera ascoltare; un gesto fisico che esprime interesse e persino amore; un gesto intimo. E tu e Lionel vi avvicinate per ascoltarvi e invitate gli altri a fare altrettanto, mettendo in gioco quella naturalezza del suono, conquistata in anni di ricerca, che è il dono della piena maturità artistica. Un album materico e sinestetico, sensuale e spirituale al contempo.
Io e Lionel siamo felicissimi di farvelo ascoltare. Ci abbiamo lavorato per vent’anni ed è espressione di un legame intenso. Speriamo davvero che vi piaccia!