Gaia Mattiuzzi, parliamo subito del tuo nuovo disco, «Inner Core». Partirei dal titolo, visto che non trova una corrispondenza tra i brani in scaletta. Perché hai scelto questo titolo e che significato assume?
Stavo cercando un termine che potesse descrivere il significato di questo mio nuovo lavoro, che fosse rappresentativo di una ricerca intima, crepuscolare e, allo stesso tempo, senza compromessi. «Inner Core», che letteralmente si riferisce allo strato più interno del pianeta, il «cuore», il «nucleo solido», composto principalmente da ferro, rappresenta metaforicamente un luogo dell’anima dove riconoscerci e ritrovarci; è un luogo interiore che riporta all’essenza, alla forza, al centro da cui ripartire.
Una tracklist particolarmente interessante, nella quale ti sei riservata un doppio spazio come autrice e compositrice. Cosa racconta The Last Flower In My Hair?
Il testo del brano racconta il lento e logorante consumarsi di una relazione, tra l’incomunicabilità, la distanza, i silenzi e le attese. La musica, invece, è nata dall’incontro con Philipp Gropper, che qui partecipa al sax tenore, e Ludwig Wandinger, che ne ha curato tutto il processo di produzione: due musicisti molto creativi e attivi nella scena jazz berlinese e nordeuropea. Il pezzo è inoltre impreziosito dal sintetizzatore di Elias Stemeseder. Il brano nasce proprio a Berlino, dove ha attraversato un lungo processo di post-produzione in studio, grazie al quale ho avuto modo di curare meticolosamente tutti i dettagli. The Last Flower In My Hair assorbe le suggestioni e gli stimoli raccolti durante il periodo vissuto in questa città, un tempo costellato di incontri artisticamente significativi, con uno sguardo al mondo dell’elettronica, che in questo brano è particolarmente presente.
Poi troviamo la tua musica in Winds Of May, firmata con Philipp Gropper e Grischa Lichtenberger. Un brano dalla struttura direi quasi schoenbergiana. Qual è la genesi di questo brano?
Il testo della poesia di Joyce che ho adattato per questo brano porta con sé un’energia di rinnovamento, «i venti di maggio che danzano sul mare» tracciano una nuova direzione, lanciano uno sguardo, forse ancora un po’ malinconico, ma senz’altro fiducioso, verso il futuro. Winds Of May è un brano composto da una melodia semplice e sospesa in una dimensione astratta e quasi ultraterrena. Con Philipp e Grischa abbiamo voluto dare particolare attenzione ai parametri timbrici che, in questo caso, sono l’elemento peculiare, sia nella lavorazione del tema sia nella lunga coda finale, dove abbiamo voluto creare uno spazio «tridimensionale», in cui i colori del sax, della voce e dell’elettronica potessero incontrarsi e dialogare alla pari.
Perché ti sei limitata a comporre due soli brani?
Il mio rapporto con la composizione è ancora molto timido, e per questo disco ho reputato sufficiente inserire solo due composizioni che sentivo particolarmente significative e riuscite: The Last Flower In My Hair, in veste di autrice e compositrice e Winds Of May, composta insieme a Grischa Lichtenberger e Philipp Gropper.
Com’è nata l’idea di questo disco? E come si è sviluppata?
L’embrione del progetto nasce alla fine del 2017 grazie all’incontro con Alessandro Lanzoni e Gabriele Evangelista. Dopo una serie di concerti live che ci hanno dato modo di mettere a fuoco il repertorio e svilupparlo, è nata l’esigenza di aggiungere alla formazione anche una batteria. Da qui l’idea di coinvolgere Enrico Morello. Volevo però arricchire la formazione classica del quartetto con un colore che potesse condurci verso altri territori e aprire nuove dimensioni espressive. Questa esigenza mi ha spinta, quindi, ad ampliare ulteriormente la formazione, inserendo l’elettronica di Alfonso Santimone. Dal momento che il progetto aveva preso la sua forma definitiva, ho sentito l’esigenza di andare in studio e registrare dopo tanti anni un nuovo album, in cui poter fare confluire le ultime esperienze maturate. Abbiamo registrato verso la fine del 2019, mi ero già trasferita a Berlino pochi mesi prima e stavo entrando in contatto con personalità legate alla scena del jazz e della musica elettronica nordeuropea. Quella nuova realtà musicale che stavo esplorando mi ha spinta ad ampliare la fase di post-produzione del disco, impreziosendola con la partecipazione di molti ospiti.
L’evoluzione della scaletta sembra in «ascesa». L’album parte con un brano che accarezza il mainstream: Calyx; The Way Of Memories – di Achille Succi – che lancia uno sguardo alla coppia Kurt Weill-Bertolt Brecht. Poi, arriva una quasi-ballad di Alessandro Lanzoni e si va sempre più su, verso sonorità a cavallo tra epoche e stili. Era questo l’effetto che volevi?
Sì, era proprio questo che volevo. In qualche modo, oltre a seguire cronologicamente le diverse fasi di produzione dell’album, la scaletta si sviluppa e si contamina sempre di più, fino a perdere quasi del tutto, nel brano che chiude il disco, i riferimenti jazzistici.
Molti musicisti ritengono l’elettronica quasi un abominio, soprattutto coniugato con il jazz.
Mi sembra di capire che per te, invece, sia un utile strumento. Mi sbaglio?
Trovo che sia uno strumento espressivo pieno di potenziale. Utilizzandolo con la giusta misura può aggiungere alla musica un colore molto interessante, oltre che aprire uno spazio molto fertile dove poter sviluppare tutte quelle idee che con gli strumenti acustici sarebbero impossibili da realizzare.
Parlaci dei tuoi compagni di viaggio.
Quello che cerco in primis dai miei compagni di viaggio è una certa affinità umana, oltre che musicale, e dei valori condivisi. Per me, questi sono elementi imprescindibili quando penso a un progetto nuovo, perché fare musica insieme è un atto di fiducia e di condivisione, e di conseguenza creare una dimensione in cui potermi sentire a mio agio è fondamentale. Alessandro Lanzoni, Gabriele Evangelista, Enrico Morello e Alfonso Santimone sono musicisti di rara sensibilità e talento, dalla formazione solida e dalla mente aperta e curiosa, con cui è stato possibile esplorare e giocare con i linguaggi su un terreno comune, alla ricerca di un suono, di una dimensione personale. Questo disco è, infatti, il risultato di questa sinergia, di un lavoro collettivo, in cui ognuno ha saputo dare una parte di sé per il tutto, anche contribuendo attivamente alla scrittura e agli arrangiamenti.
Troviamo anche un gran numero di ospiti. Vorresti parlarci anche di loro e dei motivi di tale scelta?
L’idea di coinvolgere questi ospiti tedeschi è nata dal puro entusiasmo e soprattutto dall’istinto. Ho subito sentito che personalità estremamente creative e aperte come loro avrebbero potuto dare al lavoro una nuova luce. Nel disco, quindi, oltre ad Alfonso Santimone che ha curato magistralmente l’elettronica in tre tracce, hanno partecipato anche molti ospiti tedeschi legati alla scena berlinese. Troviamo Philipp Gropper al sax tenore in due tracce, Elias Stemeseder al sintetizzatore nel brano The Last Flower In My Hair, prodotto da Ludwig Wandinger, Grischa Lichtenberger che ha seguito la produzione e l’elettronica di Winds Of May e Wanja Slavin che ha curato l’elettronica di About The End of Love.
Immagino che sarà un problema poter avere a disposizione un organico così ampio per i live. Come pensi di fare?
Sarebbe bellissimo potermi esibire con l’organico del disco al completo, ma purtroppo per esigenze organizzative è un aspetto molto complicato da realizzare. Di conseguenza, per i concerti ho deciso di ridurre la formazione a un quintetto, aggiungendo al quartetto acustico l’elettronica live di Santimone.
In quattro brani i testi sono firmati da James Joyce. C’è un legame particolare tra te e lo scrittore irlandese?
L’incontro con Chamber Music è stato del tutto casuale. Questa piccola raccolta di poesie mi capitò tra le mani durante uno dei miei innumerevoli viaggi. Mi stavo aggirando, infatti, nella libreria della stazione di Firenze in attesa del prossimo treno, quando vidi questo piccolo libriccino di Joyce che mi incuriosì subito perché il titolo rimandava alla musica da camera. Lo comprai d’istinto, senza immaginare che mi avrebbe poi accompagnata per un altro lungo viaggio, legato alla produzione del mio disco. Addentrandomi nella lettura di questa piccola raccolta di poesie, tutte di ispirazione amorosa, rimasi fortemente colpita dalla musicalità dei loro versi, che si presentano, infatti, come delle piccole canzoni dal temperamento estremamente elegante e delicato. Per questo lavoro ne estrassi quattro, quelle che sentivo più rappresentative e le adattai alla musica; l’intero processo è avvenuto con una naturalezza sorprendente, calzavano proprio a pennello. Joyce è uno scrittore che ho sempre molto amato per la sua natura anticonformista, critica e cosmopolita, ma conoscevo principalmente la sua produzione letteraria legata alla narrativa ed ero invece meno aggiornata sulla sua produzione poetica.
Qual è l’identikit del pubblico di Gaia Mattiuzzi?
Il pubblico al quale mi rivolgo lo immagino anagraficamente eterogeneo, dallo spirito curioso, avventuroso, aperto a vivere l’esperienza dell’ascolto senza resistenze.
Da tempo non ti affacciavi sul mercato discografico. C’è un motivo?
Dopo «Laut», il mio primo album da leader (2013), ho sentito la forte esigenza di approfondire il repertorio del Novecento storico e della classica contemporanea. Questo percorso ha richiesto molta energia e uno studio che per diversi anni, nonostante la mia attività parallela in ambito jazzistico, mi ha tenuta lontana dalla produzione di ulteriori dischi.
Il tuo background artistico e culturale si divide tra jazz e musica classica. Il tuo approccio classico influenza la tua dimensione jazzistica?
In una certa misura sì. Lo studio della musica classica, con qualche incursione nel barocco, per approdare poi al Novecento storico e alla classica contemporanea, ha contribuito in maniera determinante alla formazione della mia identità musicale, influenzando moltissimo la mia sensibilità e il mio gusto come esecutrice e improvvisatrice. La formazione classica, inoltre, ti chiede un lavoro molto serio e metodico sullo strumento, necessario ad acquisire una padronanza tecnica che è imprescindibile per l’esecuzione di certi repertori. Questo approccio allo studio del suono, estremamente approfondito e meticoloso, mi ha restituito una grande consapevolezza e una padronanza della voce che mi permette oggi di poter spaziare ampiamente tra i linguaggi e giocare liberamente con il suono. Ho intrapreso, quindi, un lungo cammino che mi ha permesso di scavare il mio strumento, scoprendolo nelle sue sfaccettature e potenzialità, guadagnando molti colori anche come improvvisatrice.
E, diciamo, viceversa. Qual è il tuo approccio verso la musica classica? Il tuo emisfero jazzistico si fa sentire?
Viceversa, il mio emisfero jazzistico, oltre ad ampliare la mia consapevolezza ritmica ed armonica, mi ha allenata alla flessibilità; mi ha aiutata a non irrigidirmi negli stili e nella tecnica, a favore di un approccio alla musica sempre vivo, aperto e creativo.
Quanto è importante l’improvvisazione?
Ha un ruolo centrale nel mio approccio alla musica e alla vita. È movimento, rischio, dialogo, incontro, accoglienza e possibilità.
Chi è (o sono) il tuo mentore?
Sono tre le figure che sento particolarmente determinanti e che hanno dato un apporto fondamentale al mio approccio alla musica. La mia maestra della voce Monica Bacelli, strepitosa cantante lirica, che è stata una figura chiave nella mia formazione classica dalla costruzione dello strumento all’approfondimento del repertorio. Cristina Zavalloni, cantante classica e jazz, continua fonte di ispirazione e cara amica, che mi ha trasmesso il coraggio di poter osare nell’intraprendere questo percorso bizzarro a cavallo dei linguaggi. Francesco Cusa, batterista, musicista poliedrico dalla mente acuta, con cui ho collaborato per molti anni nel duo Skinshout, un progetto grazie al quale ho imparato a essere me stessa senza compromessi.
Con chi vorresti collaborare e perché?
I sogni nel cassetto sono tanti, ma al momento sento l’esigenza di concentrarmi su quello che c’è e far crescere i progetti che sono già attivi, dal mio quintetto insieme ad Alessandro Lanzoni, Gabriele Evangelista, Enrico Morello e Alfonso Santimone, al progetto berlinese in quartetto insieme a Philipp Gropper, Grischa Lichtenberger e Moritz Baumgärtner, con cui sto lavorando alla scrittura di nuovi brani originali per la registrazione del nostro primo album.
Sei una docente e hai insegnato in numerosi conservatori di musica. C’è qualcosa che cambieresti nel sistema didattico italiano?
La didattica del jazz nei conservatori è affidata a docenti molto preparati, di grande esperienza e con una carriera artistica riconosciuta. Questo garantisce in media una proposta didattica di alto profilo. Forse, sarebbe necessario ampliare gli spazi e fornirli di una strumentazione tecnica più adeguata a poter assicurare agli studenti una migliore organizzazione. Al momento non sempre è così.
Qual è il tuo massimo obiettivo artistico, quello che vorresti raggiungere?
Continuare a potermi muovere tra il linguaggio del jazz e della classica contemporanea è la cosa che più desidero. Negli anni ho investito molto per concretizzare questa direzione e il mio obiettivo è, quindi, quello di continuare ad alimentare questo percorso per portarlo a un grado di maturazione e padronanza sempre più alto.