Carmen Souza: Interconnectedness

Torna in Italia la ben nota cantante capoverdiana, ormai una habitué delle nostre scene, a presentare il suo più recente lavoro accompagnata dal trio che la segue praticamente da sempre. L’abbiamo incontrata

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Carmen Souza è una delle voci più interessanti nel panorama internazionale della world music degli ultimi anni. Eppure, in occasione del suo concerto dello scorso 26 gennaio presso il Blue Note di Milano, quando la incontro per l’intervista, non mi trovo davanti a una diva fredda e distaccata, ma a una donna con uno splendido e caldo sorriso, vestita di rosso e con gli occhi splendenti ed entusiasti di una bambina piena di gioia di vivere e autentica passione per quel che fa, come se fosse ancora agli esordi. Come se il trio di cui fa parte, assieme a Theo Pascal al basso e a Elias Kacomanolis alla batteria, non fosse una formazione ormai collaudata, frutto di una collaborazione che dura ormai da più di quindici anni. All’origine di tutto c’è l’incontro, avvenuto molti anni prima, tra l’allora giovanissima ragazza di Lisbona di origini capoverdiane e un musicista (Pascal) figlio di un ministro battista portoghese attivo negli anni Settanta nelle operazioni a sostegno del popolo africano durante il processo di decolonizzazione, cresciuto nella cultura Afro come se fosse la propria. Theo scopre il talento di Carmen e la segue passo dopo passo come mentore e produttore, aiutandola gradualmente sia nell’approfondire le proprie radici culturali e musicali, sia nell’esplorare e cimentarsi in nuovi generi tra cui samba e jazz, fino a farle trovare uno stile originale e autentico. Insieme, i due creano una loro identità e una musica nuova, che porta in sé la necessità e lo spirito dell’interscambio tra culture e la tendenza ad andare oltre le tradizionali classificazioni. Il loro sodalizio confluisce poi nel trio ormai attivo da parecchi anni, mentre Carmen continua a esibirsi contestualmente anche in altre formazioni. Il risultato del lavoro di esplorazione e scoperta di questa straordinaria e poliedrica artista è ben espresso nei nove album pubblicati nel corso di due decenni di carriera, sull’ultimo dei quali è si è incentrato il recente concerto milanese. Il disco si intitola «Interconnectedness» e vede all’opera il trio di base coadiuvato da numerosi ospiti, proprio per rimarcare la necessità delle connessioni nell’ambito della creazione artistica.
Sì, perché quest’ultimo lavoro esprime perfettamente l’approdo di un percorso artistico ormai ventennale, in cui l’artista ha unito studio, sperimentazione e istinto per creare atmosfere sempre nuove, fondendo in un viaggio itinerante le tradizioni musicali delle ex colonie portoghesi dell’Africa, i ritmi e i suoni del Brasile e di Cuba fino a raggiungere lo stile jazz di New Orleans, tra brani scat e citazioni rivisitate in modo inedito. La incontro con l’idea di una chiacchierata tra donne, senza fronzoli e cerimoniali e Carmen con il suoi modi caldi e affabili (nonostante – ci racconteremo in seguito – sia arrivata a Milano da Londra la mattina stessa alle quattro in un freddissimo giorno d’inverno) viene perfettamente incontro a questa mia aspettativa.

Carmen, so che sei nata nel 1981, lo stesso anno di me che sono qui ad intervistarti. Diciamocela tutta: nel mondo normale di tutti i giorni e all’anagrafe saremo anche considerate due donne adulte, ma nel mondo della musica jazz, popolato di mostri sacri e di personalità ingombranti, possiamo considerarci poco più che due bambine. Tuttavia, tu sei stata capace di diventarne una protagonista. Come è stato il tuo viaggio fin qui?
Grazie mille del complimento, innanzitutto. È stato un percorso molto interessante e gratificante al tempo stesso. Sono sempre stata molto passionale riguardo alla musica, dato che la musica è stata un elemento costante in casa mia fin da principio: mio padre suonava bene la chitarra e sono cresciuta in una famiglia dove non passava giorno senza che qualcuno facesse musica. Il mio approccio non è stato tuttavia davvero serio, se così si può dire, fino a quando, tra i diciassette e i diciotto anni, non ho incontrato Theo Pascal e il mio percorso artistico e professionale ha davvero avuto inizio. Theo è stato infatti la scintilla che ha indirizzato il mio destino e da cui tutto ha iniziato a prendere forma. All’epoca il mio interesse musicale aveva i caratteri di una esplorazione giocosa tra canto, composizione, piano e chitarra. Ero davvero giovane: c’erano soltanto la mia voce, la mia musica e me stessa. Non c’erano pressioni e pretese ed è stato solo gradualmente negli anni, grazie a un lavoro di continuo confronto creativo con Theo, in cui lui è stato la mia guida e il mio mentore, che sono riuscita a specificare sempre più la mia identità di artista e cantante.

Pur non essendo un fenomeno del tutto nuovo, negli ultimi anni sembra emergere sempre di più anche in ambito musicale una riflessione su tematiche gender e femministe. Sono molti i festival e le pubblicazioni che hanno scelto di offrire una visuale femminile sul mondo del jazz. Sempre a proposito del tuo percorso artistico, quanto senti abbia inciso l’essere donna? Quanto senti questo aspetto in generale possa contare e fare la differenza nel mondo artistico e musicale?
Io penso che l’essere donna abbia un peso e che sia inutile fingere altrimenti. Quando sei un’artista donna si crea attorno a te tutto un sistema di aspettative sulla base delle quali vieni giudicata al di là delle tue qualità artistiche e musicali. Esiste un modello e un’idea precisa con cui ti è tacitamente richiesto di confrontarti soltanto per il fatto che tu sia donna e che nessuno pretenderebbe mai da un musicista uomo: dei dati comportamenti, un modo di apparire, di mostrarti e di vestirti. Sotto questo aspetto, comunque, ho cercato sempre di rimanere indipendente e distaccata nella mia carriera, dato che credo che la musica e l’arte in genere non abbiano niente a che fare con gli stereotipi e i luoghi comuni che riguardano alcuni attributi tradizionalmente associati al mondo femminile, come per esempio la sensualità, e debbano anzi andare oltre, comunicando su un livello diverso e superiore. La musica è d’altronde uno tra i linguaggi più immediati e potenti e non ha bisogno di orpelli; per questo, l’unica cosa che ritengo davvero fondamentale per un musicista, uomo o donna che sia, è la professionalità.

Parlando del tuo stile, sono molte le influenze cui attingi per creare un risultato unico e nuovo. Quanto ha inciso e incide nel tuo lavoro la cultura musicale capoverdiana che fa parte delle tue origini?
La musica capoverdiana è una parte fondamentale della mia identità e del mio background. Morna e Coladera in particolare sono state le prime musiche con cui sono cresciuta e che ho ascoltato fin da piccola, in quanto generi nazionali e comuni alla tradizione musicale di tutte le isole che fanno parte di Capo Verde. Entrambi i miei genitori sono originari dell’isola di Santo Antão, una delle dieci dell’arcipelago. Soltanto in seguito sono entrata in contatto e ho iniziato ad ascoltare e a conoscere davvero anche Batuque e Funana, che è invece la musica tipica dell’isola più grande: Santiago, dove si trova la capitale Praia.

Nella tua musica si fondono, dicevamo, diversi substrati culturali e musicali in una sintesi che scardina e va oltre i concetti tradizionali di genere. Questo a mio parere è un elemento di forza, perché su livelli differenti riesci a raggiungere un pubblico estremamente variegato: chi vuole jazz, sente il jazz; chi vuole samba può ballare al ritmo di samba e, per chi cerca la morna, ne sente riecheggiare la saudade, il tratto tipico della nostalgia, mentre canti in creolo capoverdiano. Avevi fin dall’inizio un obiettivo di questo genere? Come è nata l’idea?
Il percorso che mi ha portato negli anni ad unire e sovrapporre al mio background spunti e influenze musicali diverse si è rivelato spontaneamente, man mano che lo percorrevo. L’unico piano originale era quello di essere me stessa e trovare un mio modo musicale autentico che potesse esprimere questo compiutamente. C’erano tanti spunti e stimoli attorno a me e in questo Theo Pascal è stato fondamentale, come mio produttore e mentore, nell’aiutarmi a comprendere cosa volessi davvero e cosa mi piacesse. Spesso è stato un percorso sperimentale fatto di studio e di tentativi progressivi. Il confronto è stato continuo, e passo dopo passo abbiamo messo da parte quanto non funzionava su di me e tenuto invece quello in cui mi sentivo più a mio agio. Perché questo è Theo e questa è la sua dote: non solo la capacità di scoprire un talento e valorizzarlo, ma anche e soprattutto la pazienza e la costanza di tirare fuori gradualmente la tua vera essenza come artista. Theo è una persona speciale con una grande capacità di visione: quando molti anni fa mi aveva detto che sarei potuta diventare una grande cantante, io lo avevo guardato come stesse vaneggiando. Ora sono passati più di vent’anni e il legame tra noi continua ad essere unico e fortissimo.

Il tuo è stato un percorso progressivo fatto di studio e sperimentazione, che immagino continuerà in futuro. Sono anche passati, nel mentre, due anni di pandemia che hanno dato a tutti tempo e modo di riflettere. Ora che la vita è finalmente ripresa, dove ti senti diretta?
Di recente ho iniziato ad approfondire la tradizione lusitana e in particolare la connessione tra le diverse culture musicali dei paesi sottoposti in passato al colonialismo portoghese. Pur rappresentando realtà estremamente ricche e diversificate, la comunanza linguistica crea un forte elemento di coesione. Brasile, Angola, Mozambico e molte altre ex colonie portoghesi vantano ognuno una propria tradizione musicale, ed è questo straordinario panorama, così vario ed eclettico, che mi ha estremamente appassionato negli ultimi anni. infatti, durante il periodo del Covid, ho iniziato a frequentare a Londra – dove vivo – un master in musicologia proprio per approfondire meglio questa tematica. Tra l’altro ho consegnato la mia tesi finale prima di partire per Milano. Si tratta di un lavoro sul ruolo della Funana nel processo di decolonizzazione, in cui sono partita dallo studio delle mie radici capoverdiane per procedere verso un’esplorazione e un’analisi più dettagliata anche di altri ambiti. In ogni caso questo percorso mi ha portato molti nuovi stimoli anche come cantante e musicista, e in futuro andrò sicuramente rielaborandone e concretizzandone gli spunti.

Quali sono stati i personaggi del passato e in particolari le grandi artiste donne che più di altri hanno influenzato la tua musica e il tuo percorso? Se tu dovessi citare su due piedi un brano in particolare, quale sceglieresti?
Se per affinità culturali mi è impossibile non nominare Cesária Évora, perché è stata la prima a richiamare l’attenzione di tutto il mondo sulla musica e la tradizione capoverdiana, e verso di lei non posso che nutrire grande rispetto e stima, parlando di jazz in senso stretto direi immediatamente Ella Fitzgerald, Nina Simone e Billie Holiday. Sulla canzone è difficile dire, ma la prima che mi viene in mente è proprio Lullaby of Birdland cantata da Ella con l’orchestra di Duke Ellington.

Una domanda immancabile è sull’Italia, dove sei arrivata oggi per cantare di fronte al pubblico milanese. Un tuo sguardo dall’esterno sul mondo della musica di casa nostra, se ne conosci qualche dettaglio: qual è la tua impressione?
Non so molto della scena musicale italiana, ma mi sono esibita in molte occasioni nel vostro Paese ed ogni volta mi stupisco della profonda competenza che riscontro tra il pubblico: per esempio, quasi sempre mi capita di incontrare qualcuno che conosca la lingua creola, che utilizzo in molte delle mie canzoni, e non sto parlando di persone di origini portoghesi ma di italiani che l’hanno studiata per proprio piacere e cultura personale.
Quanto a Milano, è la terza volta che mi esibisco qui, anche se è la prima che non piove! Quindi sono felice, perché questa mattina dopo essere atterrata sono riuscita a visitare finalmente il vostro bellissimo Duomo.

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