Presentandola nel 1962 in una puntata di «Jazz Scene USA», il cantautore hard bop chicagoano Oscar Brown Jr. la descrisse come «felice miscela di talento, bellezza, buon gusto e sensibilità»: e come interprete esemplare e sofisticata delle liriche di una canzone. Accompagnata dal trio di Lou Levy, con Al McKibbon al contrabbasso e il primo marito Kenny Dennis alla batteria, la venticinquenne Nancy Wilson, luminosa ed elegantissima con la sua asimmetrica coiffure a colpo di vento che appariva anche sulla copertina del sesto album Capitol, allora in uscita («Broadway – My Way»), confermò puntualmente le parole di Brown, prestando la sua morbida e cangiante soulfulness alla lettura di canzoni broadwayane (appunto) dal tratto letterario, firmate dal grande Frank Loesser, e a quella singolare e sempre sorprendente ballad narrativa, Guess Who I Saw Today (anch’essa di origine teatrale) che sul set televisivo adattato a salotto (con Oscar improvvisatosi nel ruolo del silente e distratto marito, seduto in poltrona a leggere il giornale) la cantante interpretò con grazia agrodolce, in un prezioso equilibrio di realismo e contrastato romanticismo, e che tre anni prima, in un club di Brooklyn dove lei sostituiva l’infortunata Irene Reid, era stato il brano che aveva convinto il celebre manager (e già bassista di George Shearing) John Levy a prenderla sotto la sua protezione e lanciarla in quella che sarebbe stata una lunga e prestigiosa carriera.
La stessa Nancy, nel corso dei decenni, ha sempre rifiutato il ruolo di pura jazz singer. Diffidente nei confronti di categorizzazioni care (a suo dire) a critici e a discografici, sosteneva di non riconoscersi né come cantante di jazz, né come cantante pop o R&B: «I sing songs», sosteneva, con schiettezza e un tocco di vezzoso cinismo, «questa faccenda del jazz teniamola nella giusta prospettiva.» Ma la prospettiva giusta, per il pubblico nero, specie quello della middle class, è che Nancy Wilson – nel suo elegante eclettismo e nella sua attenzione per i testi – è stata a lungo la cantante di jazz per eccellenza, l’unica ad aver saputo conservare attraverso il mutare degli scenari musicali una costante e vasta popolarità e un suo status di diva. Quando, invitato dal poeta Al Young, ebbi la fortuna di ascoltarla al Kaiser Convention Center di Oakland per una serata benefica di tutte stelle del jazz, una domenica di ottobre del 1985, il vasto auditorium era preso d’assalto da una folla azzimatissima. I complessi di Dizzy Gillespie e di Max Roach esaurirono brillantemente ma abbastanza rapidamente il loro compito: mentre Nancy, sostenuta dal suo trio regolare (Michael Wolff al piano, John B. Williams al contrabbasso, Roy McCurdy alla batteria), dominò e ipnotizzò la platea per un lunghissimo set, ispirando un feedback palpitante, caloroso – magari più gentile («We love you, Nancy!» si sentiva gridare) ma non lontano, in fondo, a quello che un paio di settimane prima, nella stessa venue, avevano scatenato la voce e le eccentriche sceneggiate bibliche della regina del gospel Shirley Caesar.
Quella Nancy che il pubblico afroamericano aveva ammirato da non molto sul grande schermo, nel ruspante poliziesco chicagoano The Big Score, dove recitava e cantava nel ruolo della seducente proprietaria di un autentico club del Near North Side, Milt’s, e amante di Fred Williamson (protagonista e anche regista del film), stava d’altronde sempre più crescendo in dinamismo e inventiva melodica e punch drammatico: mi sono sempre avvicinata alla lettura di una canzone, diceva, come un’attrice, e qui appariva proprio trascendere i limiti formali di ogni song – molte legatei al suo classico periodo Capitol, dalla stessa Guess Who I Saw Today fatta vibrare dall’entusiastico incitamento del pubblico a un Hello Young Lovers giocato sul filo di una tensione agra e swingante, in una trama di ritardi e fluttuazioni umorali della melodia – per trasformarli in monologhi vibranti, nervosi, carichi di capricciosa, ironica carnalità, raccontati con un senso di intimità che non si perdeva mai (anche per la churchiness delle radici) nell’ampio spazio della sala. Tanto spesso la cantante chiedeva il sostegno del solo contrabbasso di Williams, per concedersi la massima libertà possibile: così era con la sommessa inquietudine di I Stayed Too Long At The Fair e con la muscolosa medley di Since I Fell For You e Teach Me Tonight, in cui voce, microfono, mani (quelle mani lunghe ed espressive, bellissime), e il mobilissimo volto, si scatenavano in un tormentato gioco bluesy, ipnoticamente suggestivo, finché – durante l’esplosiva cadenza finale – le due sillabe di tonight si frantumavano in una polvere di note.
Le due ballad della medley erano esplicitamente legate al ricordo di Dinah Washington, il cui stile e repertorio erano stati di forte ispirazione negli anni formativi di Nancy Wilson, nata il 20 febbraio 1937 a Chillicothe, l’antica capitale dell’Ohio, e cresciuta nella vicina e più popolosa Columbus: insieme a quelli del conterraneo (di Cleveland), l’androgino Little Jimmy Scott, per lei maestro di pura emozionalità, e ad altre voci del Midwest nero (e oltre) come Little Miss Cornshucks, Nat Cole, Bullmoose Jackson, Lavern Baker. E Louis Jordan e Little Esther: «…di Louis mio padre portava i nuovi dischi a casa, e Little Esther e Dinah le ascoltavo al jukebox del caffè dietro l’angolo» (Ella, Sarah e Billie sarebbero venute più tardi, per cui – ricordava Nancy – oltre al gospel «c’era più R&B che jazz nella mia educazione musicale»). Al pari dei suoi principali modelli Nancy Wilson avrebbe saputo esprimersi in ciascuna area emotiva della canzone americana e lungo i confini più raffinati della forma blues, acquisendo e sviluppando una qualità soulful insieme elegante, profonda e inquieta: la sua vocalità ambrata e liquida, dalla ricca estensione, dai sensuali chiaroscuri e dalla riverberante chiarezza e plasticità di dizione, sapeva calarsi nella solennità di grandi ballads broadwayane e hollywoodiane come nel fluido e intrigante melodismo dei più celebri temi ellingtoniani e dar loro una propria impronta nitida e originale.
Similmente a Little Esther (poi Esther Phillips, com’è noto), che aveva appena due anni più di lei, Nancy Wilson si fece notare nella prima adolescenza: a quindici anni era la voce di un gruppo chiamato Sir Raleigh Randolph & His Sultans of Swing, con il quale si esibì in molte località dell’Ohio e di altri stati del Midwest, e alla stessa età – come premio per la vittoria in un talent show – condusse un programma per una televisione di Columbus. La città era allora musicalmente vivacissima, tra club e sale di albergo animati da talenti locali e dai maggiori gruppi di jazz a livello nazionale. La vocalità di Nancy suscitò l’interesse di uno dei più importanti jazzmen di Columbus, il fiero e sanguigno sax tenore Rusty Bryant, il quale, appena la ragazza terminò il liceo, la aggregò al suo quintetto, attrazione del Carolyn Club ma ben noto anche anche ben oltre i confini dell’Ohio (e parte di effervescenti packages R&B con star come Roy Hamilton, i Drifters e Big Maybelle). Nel 1955 avvenne l’esordio discografico della cantante sul lato B di un 45 giri Dot di Bryant, un valzerino di sapore country, Don’t Tell Me (firmato dal sassofonista, che però non appare: l’accompagnamento è garbatamente dominato dall’organista del gruppo, il celebre Hank Marr), in cui la diciottenne Nancy illustra la sua calda e fluida grazia melodica, in una chiave ancora candida ma già riconoscibile.
Il trasferimento a New York sul finire del decennio, e il già evocato incontro con John Levy, accelerarono crescita e fortune della cantante, la quale – come ha ricordato in un’intervista televisiva con Monk Rowe – puntava a entrare nella scuderia delle grandi voci, la Capitol Records. Levy, intuendo in lei un singolare potenziale pop-jazz, la segnalò giusto all’A&R man dell’etichetta fondata da Johnny Mercer, Dave Cavanaugh (come lui ex-musicista, sax tenore in tante sedute dello stesso Mercer, di Ella Mae Morse, Kay Starr, Julia Lee), e le organizzò una seduta di registrazione dimostrativa nientemeno che con Ray Bryant. Il risultato fu immediato: nel dicembre del 1959, negli studi Capitol di Los Angeles, Nancy registrò il suo primo album con un’orchestra stellare (Benny Carter, Milt Bernhart, Willie Smith, Milt Raskin, Stan Levey…) arrangiata e diretta da Billy May, allora reduce da classici incontri con Sinatra, Tormé e Anita O’Day. L’album, «Like In Love», metteva in luce la sua vocalità liquida e cangiante, dalla ricca estensione e dinamica e dai sensuali e agrodolci chiaroscuri drammatici, attraverso un repertorio dal tema romantico che già definiva l’ampiezza dei suoi riferimenti: gioielli della Broadway recente come On The Street Where You Live, solidi standard come The More I See You e un sorprendentemente plastico e determinato You Leave Me Breathless, bozzetti atmosferici come Night Mist e lo strayhorniano Passion Flower, la toccante ballad insieme blue e pop della giovane Dinah (ben suggerita nell’interpretazione), I Wanna Be Loved. L’album ottiene un buon riscontro radiofonico, e convince la Capitol a insistere sulla sua nuova swinging balladeuse, e pochi mesi più tardi, in maggio, sempre con l’arrangiatore di Pittsburgh ma con un frequente clima da small band (fatta mirabilmente pulsare dalla batteria di Shelly Manne) che accentua i colori più intimi del canto, Nancy incide «Something Wonderful», una bella raccolta di standard, con due incantevoli varianti sul tema del sogno (This Time The Dream’s On Me di Mercer e Arlen e il goodmaniano If Dreams Come True, che al pari di What A Little Moonlight Can Do alludeva a Lady Day, da poco scomparsa) combinate alle sue prime letture di Teach Me Tonight – cauto e schietto – e Guess Who I Saw Today e a due escursioni già esemplari (per ben tornita soulfulness) nel linguaggio blues, quello sofisticato di Curtis Lewis in The Great City e quello stringato e urbano di T-Bone Walker in Stormy Monday.
Pochissimi mesi più tardi, a New York tra fine giugno e luglio, per completare la rapida operazione di lancio Nancy fu associata al quintetto di George Shearing, con Eddie Costa al vibrafono: un terzo incontro con le grandi voci femminili di casa Capitol (dopo Dakota Staton e Peggy Lee) per il pianista londinese. L’album, «The Swingin’s Mutual!», illustrato in copertina da una doppia foto pastello dei due artisti seduti spalla a spalla con in mano un precedente lp dei rispettivi partner, in uno stilizzato gusto grafico che annunciava il nuovo decennio, confermava nello spazio largo e ombroso di All Night Long (che la quasi esordiente Aretha avrebbe replicato in autunno, accentuando la grana churchy) l’affinità per la scrittura di Curtis Lewis, con un arioso tocco melodico che si faceva colloquiale, quasi un ansiogeno recitativo, nel bridge. Altre performances, a contatto con il songbook di Tormé (Born To Be Blue, pre-Ella), Billie (Ghost Of Yesterday, inzialmente inedito, apparso poi in veste digitale) e soprattutto Sarah (Green Dolphin Street, My Gentleman Friend), mostravano, nella grazia e swingante puntualità della lettura, tracce di una ricerca ancora in corso della piena personalizzazione.
Nell’inverno del 1961 la Capitol lanciò la cantante anche sul mercato dei jukebox, con un 45 giri che accoppiava My Foolish Heart a The Seventh Son di Willie Dixon, il volto melodico e quello blues di Nancy: terzinati, con coro e archi, gli arrangiamenti, per quanto curati dal grande Gerald Wilson, scimmiottavano il piglio leggero e commerciale di quelli di Belford Hendricks per Dinah Washington (molto migliore, di lì a breve, sarebbe stato il 45 giri con una swingante versione del Next Time You See Me di Junior Parker, la voce più libera nella schietta cornice di un trio di piano). Ma la piena affermazione avvenne grazie alla session newyorkese di fine giugno condivisa con il pulsante e particolarmente affine quintetto hard bop di Cannonball Adderley, insieme al quale lei – anni prima – si era già cimentata sul palco del popolare 502 Club di Cincinnati e che, come Shearing, era cliente di John Levy. Ne emersero prove tra le più asciutte e puntuali della prima parte della sua carriera. Chiosata e stimolata dalle voci del sax alto di Cannonball e della tromba del fratello Nat (che a loro volta dominano i cinque brani conclusivi, solo strumentali, dell’album), oltre che da Joe Zawinul, che lei ricorderà sempre come uno dei suoi pianisti preferiti, la cantante libera ora quel brillante e sensuale melodismo tutto venato di umori bluesy (per esempio nella splendida ballad di Buddy Johnson, Save Your Love For Me, che fu anche la sua prima apparizione nella hit parade R&B, così come l’intero «Nancy Wilson With Cannonball Adderley» in quella degli album pop) e mosso da un naturale drive ritmico (come nella suggestiva e dinamica lettura in swing del Never Will I Marry di Frank Loesser, nello Sleepin’ Bee di Arlen e Capote, che ebbe un vasto riverbero radiofonico), ora un prezioso talento di raconteuse. Talento particolarmente evidente in The Masquerade Is Over, che la vedeva affrontare il terreno di Little Jimmy Scott, e in The Old Country, un altro singolare bozzetto lirico del songwriter nero Curtis Lewis, il simbolico ritratto di un vecchio perso nel gelo della sua solitudine e di ricordi lontani, e minacciosamente avvicinato dal «cold grim reaper», il lugubre mietitore, l’angelo della morte.
L’album con Cannonball (e ci sarebbe stata una piccola replica discografica nel 1968 con l’apparizione a sorpresa di Nancy nell’lp «In Person» del quintetto, per un più maturo Save Your Love For Me di potente e ansiogena intensità) dette il via a un decennio straordinariamente ricco e dinamico per la cantante: due sessions per anno, divenute tre dal 1965 – e altrettanti album Capitol a imporsi tanto sul mercato pop che su quello R&B, un appeal multietnico che tra le voci di forte matrice jazz-blues soltanto il suo compagno di etichetta Lou Rawls poteva vantare (oltre, naturalmente, a Ray Charles). Il suo diveniva il volto insieme autentico e commerciale e sempre sofisticato-con-soul del canto jazz, alle prese, in raccolte che avevano spesso un carattere «concettuale», con standard e con temi contemporanei: un percorso che partiva dalla Broadway di Rodgers e Hammerstein (Hello Young Lovers del 1962, arrangiato da George Shearing con archi e colori ritmici latini e diretto da Milt Raskin: dall’omonimo album comprendente anche un Sophisticated Lady cesellato con fluida grazia e un sereno e mosso Back In Your Own Backyard) e da quella di Frank Loesser e Jule Styne (Joey o Make Someone Happy nel citato, immediatamente successivo «Broadway My Way», curato dal pianista di Memphis Jimmy Jones, un altro dei suoi partner preferiti, come pianista e come arrangiatore dalla singolare profondità armonica) e di Jimmy Van Heusen (bellissime letture di Here’s That Rainy Day e I’ll Only Miss Him When I Think Of Him, da «From Broadway With Love» del 1965, con arrangiamenti di Sid Feller), raggiungeva Hollywood (un lentissimo The Days Of Wine And Roses, con una bella partitura jazzistica di Jimmy Jones: l’album era «Hollywood My Way» del giugno 1963, ispirato anche in altri episodi come Moon River o Secret Love) e una contemporanea Tin Pan Alley fatta di bossa, country (gli hit di Ray Charles), pop (quelli di Tony Bennett) e Bacharach e visitata in un’essenziale chiave jazz con piccole formazioni di Jack Wilson (anche all’organo) o Lou Levy – un microsolco, «Today, Tomorrow, Forever», che fu realizzato nel febbraio del 1964, appena due mesi dopo la tragicamente prematura fine di Dinah Washington, e che, anche considerando che diversi dei brani (e in particolare Call Me Irresponsible) erano già stati fatti propri dalla Dinah delle ultime sedute Roulette, appariva una sorta di indiretto passaggio di consegne dalla Regina di Chicago alla sua giovane epigona di Columbus.
Scorrendo la fitta e luminosamente variegata discografia della cantante in questa fase insieme di affermazione e di crescita, si rimane incantati dalla fluidità e raffinatezza di un’immagine sonora spesso – anche se non sempre – legata alla profonda sostanza emotiva di un brano: con le sue luminose e sinuose aperture, i suoi colloquiali ritardi e sospensioni, la sua capacità di coinvolgere nel racconto. Via via Nancy si conferma intima balladeuse e all’occorrenza flessibile swinger – come, rispettivamente, in The Very Thought Of You (o nel toccante Never Let Me Go) e in Satin Doll, dall’album dell’ottobre 1963 con la poderosa big band di un Gerald Wilson stavolta nel pieno della maestria, anche nei quattro brani in cui nella sua tavolozza sostituisce gli archi (con rara sobrietà) alle sezioni dei fiati. L’album, «Yesterday’s Love Songs, Today’s Blues», il cui titolo recava una obliqua allusione alle due rimarchevoli blue ballads in omaggio a Little Willie John, Sufferin’ With The Blues, e a Percy Mayfield, Please Send Me Someone To Love (finemente caratterizzata sin dal sorprendente compressione della frase iniziale), ebbe una grande risonanza, raggiungendo la quarta posizione nella hit parade di Billboard, esattamente come il successivo incontro con il grande bandleader mississippi-losangeleno, il più ecletticamente commerciale «How Glad I Am», registrato in diverse sedute della primavera 1964 e intitolato al brano destinato a diventare il più grande successo pop (e, parallelamente, R&B) della cantante: una palpitante e serena celebrazione di un amore senza confini («…my love has no walls on either side…») attraverso un gioco radioso e originale di contrasti, crescendo e ripetizioni. Un album, «How Glad I Am», accattivante nella sorridente immagine di copertina di una Nancy in completo rosa, al culmine della sua giovanile ma già matura leggiadria, che toccava il Jobim di Quiet Nights, dava una elegante risposta soul jazz alla Barbra Streisand di Funny Girl con un cauto, assorto People, ben chiosato da chitarra, piano e vibrafono, e un febbrilmente swingante Don’t Rain On My Parade, ed esprimeva il puro drive Wilson-Wilson nel montgomeriano West Coast Blues e nel vibrante The Grass Is Greener di un altro talentuoso cantautore afro-americano, Howlett Smith.
Mentre «How Glad I Am», nell’estate del 1964, si faceva spazio tra i Beatles e le signore della Motown, Nancy si imponeva come attrazione in sale di gran classe come quelle del Waldorf-Astoria o il Fairmont di San Francisco, o come il palcoscenico dei cantanti nel North Side di Chicago, Mr. Kelly’s. O come il Cocoanut Grove, il club dell’Ambassador Hotel di Los Angeles, legato al giovane Bing Crosby, a Sinatra, Nat Cole e Judy Garland, dove Nancy registrò un altro album di buon successo, «The Nancy Wilson Show!», con un’orchestra guidata al pianoforte da Ronnell Bright, esercitando il suo seducente, emozionale appeal e la sua forza personalizzatrice su standard, show tunes e ballate narrative moderne o tradizionali come il suo pezzo forte Guess Who I Saw Today e – per contrasto – una potentemente bluesy Saga Of Bill Bailey. Ma il clou dello spettacolo (e del disco) era un song palpitante e solare scritto appositamente per lei nientemeno che dalla coppia sinatriana Jimmy Van Heusen-Sammy Cahn, Don’t Talk, Just Sing, con un testo argutissimo e di sapore teatrale (e «contrattuale», c’è una clausola che la obbliga ad aprire la sua big mouth solo per cantare, non per chiacchierare: «You’re no Bob Hope, dear / Don’t be a dope, dear…») in cui la Wilson si calava in una sapida alternanza di belting e sussurro, e con prodigiosa sicurezza di timing ed enunciazione.
Il periodo è caratterizzato anche dalla scintillante presenza sullo schermo della cantante: ne dà un assaggio l’apparizione soltanto canora nel post-noir hemingwayano in Technicolor di Don Siegel, The Killers (1964), durante una scena in club illuminata dalla sua lettura (soffice ma intensa) di una nuova, gentile ballad firmata da Henry Mancini e Don Raye, Too Little Time, di cui prestissimo si sarebbe appropriata una sontuosa Sarah Vaughan nel suo songbook manciniano. Ma il suo impatto visivo e sonoro si apprezza a fondo in televisione, non tanto nelle molte presenze come ospite canora nel Tonight Show o negli spettacoli di Ray Anthony, Bob Hope o Sammy Davis Jr (presenze culminate nel 1966 in un suo special per la BBC prodotto da Buddy Bregman), quanto in una puntata della seconda stagione (1965) della serie giallo-comica BurkÈs Law, nella parte di Choo Choo, cantante di night club che si esibisce con un solo pianista in un assorto e magnetico What Kind Of Fool Am I (dall’allora recente repertorio di «Today, Tomorrow, Forever»), giocato tra il passionale abbandono e il ricco vibrato delle frasi più vaste e ariose e i momenti di intima, sospirante confidenzialità, e dialoga poi con un detective mostrando un eloquio e una mimica espressivi e controllati con una grazia blasé; e più ancora nel ruolo drammatico svolto in un episodio del 1966 del televisivo I Spy, con le spie in bianco e nero Robert Culp e Bill Cosby. Cantante, anche qui, coinvolta in una torbida vicenda, Nancy/Lori (il nome del suo personaggio e dell’episodio) si immerge, in un locale di Las Vegas, nell’atmosfera garbata di When Did You Leave Heaven, tagliando le frasi iniziali con soulfulness cauta, frenata, tra pause e sospensioni (e lenti, sensuali movimenti del corpo, fasciato in un abitino giallo) che insinuano carnalità nella angelicità del testo. La sua levigata bellezza accentuata dalle delicate asimmetrie della mimica, dalle fragili e insieme ritmiche pose angolari, la Wilson dà una grazia tutta terrena al «bacio» e al «peccato» del bridge («If I kissed you, would it be a sin?»): e – ricordandosi del maestro Little Jimmy Scott, da cui ha ereditato la ballad, già visitata in «Hollywood My Way» – prolunga e dilata ansiosamente le sillabe iniziali dell’ultimo «A», ripiega in un agrodolce, soavemente tormentoso singhiozzo sulle sillabe di «only human», e ripete tre volte lo «angel» conclusivo in un crescendo palpitante, dalla splendida concentrazione fisica.
Gradualmente, mentre si susseguono le sedute Capitol con le setose o abilmente aggiornate orchestrazioni di Sid Feller (il contemporaneo programma pop di «Today My Way», da If I Ruled The World a Reach Out For Me, premiato da un’altra ascesa nei Top Ten, gli standard e le nuove gemme di «Gentle Is My Love» – Time After Time, My One And Only Love, un Who Can I Turn To fraseggiato con garbo e immaginazione – e il già ricordato e sofisticato set broadwayano), Nancy Wilson si avvicina alla piena, vibrante maturità espressiva, pur cedendo, specie nelle prove più commerciali, a qualche occasionale vezzo. È davvero balladeuse e swinger di eccellenza, per esempio, in As You Desire Me e Like Someone In Love, dalla rinnovata collaborazione con Billy May (il disco, inciso nel gennaio 1966, era pertinentemente intitolato «Tender Loving Care», in un programma di vulnerabili love songs che si apriva con un nuovo omaggio a Dinah, Don’t Go To Strangers), che la trova interprete scavata e soave dominatrice di una melodia. Pochi mesi più tardi le movimentate orchestrazioni di Billy May ben si adattano anche alla Wilson del suo album più fieramente bluesy, «Nancy – Naturally», che si apre su un lento, memorabile In The Dark giocato tra lo Hammond e il coro dei fiati e nel quale Nancy illustra quanto importante sia l’uso del silenzio e del contrasto nella definizione emotiva di una blue ballad, e trova la più vibrante tensione in un Since I Fell For You tutto energizzato in swing e in un My Babe in cui orchestra e voce gareggiano in pimpante, ammiccante arguzia. Ci sono anche un paio di spumeggianti visite al repertorio di Joe Williams (Alright, Okay, You Win e Smack Dab In The Middle) mentre anche la più torrida soulfulness sudista viene cercata (e sfiorata) nell’omaggio a Bobby Bland di Ain’t That Lovin’ You.
Profondamente soulful Nancy lo era (lo dimostra in «Naturally») anche quando affrontava una amarognola e tormentata ballad di Frank Loesser come I Wish I Didn’t Love You So, ed era proprio questa complessa soulfulness intrisa di jazz che continuava ad animare le registrazioni del periodo, anche in diversi sprazzi di una raccolta di hit del momento, dai Beatles allo Stevie Wonder di Up Tight, come l’altro lp del 1966, «A Touch Of Today» (quel «today» che ricorreva nei suoi titoli come segnale di essere parte della «scena odierna» ma forse anche come obliqua allusione al suo brano ancora più rappresentativo, Guess Who I Saw Today), in cui si alternavano gli arrangiamenti di Oliver Nelson e di Sid Feller. Le charts del sassofonista di St. Louis le sentiva particolarmente affini al proprio stile, Nancy, tanto da conservarle attraverso i decenni per i suoi spettacoli con grandi orchestre: anche qui erano dinamiche e ritmicamente intriganti, per esempio, in due pezzi dal respiro latino, il mandeliano The Shadow Of Your Smile e Call Me, che della cantante stimolavano puntualità di timing, maturità di visione e concentrazione lirica. Tratti che insieme alla plasticità rara della dizione e alla fluidità di colore e pitch si confermano e accentuano nei tre album realizzati nel corso del 1967, quando la sua voce è in sintonia (ma sul margine jazzistico) con il fenomeno in piena esplosione della musica soul. E si confermano in particolare in altre due collaborazioni con Oliver Nelson, l’incantevole, agrodolce Rain Sometimes di Arthur Hamilton (quello di Cry Me A River) e un memorabile Midnight Sun, delicatamente ed espressivamente contrastato sulle immagini alabastrine del testo di Johnny Mercer. Gli lp in cui appaiono, entrambi con Nelson, May (in prevalenza) e Feller ad alternarsi alla direzione, sono «Just For Now», un’altra eclettica selezione di songs del momento (brillante in That’s Life, fluida e confidenziale in Alfie, un po’ sorprendentemente frenata in Mercy, Mercy, Mercy: più efficace la contemporanea lettura di Marlena Shaw) e il più nobile «Lush Life», con un assorto e variegato programma di grandi ballads arrangiate per temporalesche nuvole d’archi e puntuale ritmica jazz – You’ve Changed, I Stayed Too Long At The Fair, un Over The Weekend dalla drammatica, umorale evocatività, una lenta e enigmatica lettura di Sunny, e il capolavoro del giovane Strayhorn ben delineato da Billy May in una cornice policroma.
Il terzo Capitol del 1967, «Welcome To My Love», uscito all’inizio dell’anno seguente, rappresentava la piena messa a punto del rapporto con Oliver Nelson: ed era forse il disco capolavoro, quello in cui l’emozionalità vocale di Nancy e l’immaginazione pittorica dell’arrangiatore (in termini di archi, fiati, sezione ritmica) si combinavano per compattare un repertorio di varia origine, da Rodgers e Hart al moderno country, da Ray Charles a Carmen McRae, in un linguaggio perfettamente coerente e originale. Ogni interpretazione era tra quelle definitive dei vari brani: l’iniziale In The Heat Of The Night, il tema bluesy di Quincy Jones dall’omonimo capolavoro di Norman Jewison, con la sua bilanciata, bruciante tensione da scenario cinematografico meridionale, I’m Always Drunk In San Francisco, personalizzato con forza swingante e colloquiale, Angel Eyes, modulato con chiaroscurale magnetismo, il bellissimo tema dal film Hotel, vissuto nella sua moderna suggestione gotica, It Never Entered My Mind, animato da un respiro gentilmente irrequieto, For Once In My Life, ben controllato tra carezza ed esplosione, fino al mosso e ansiogeno Ode To Billie Joe (con un tour de force di risposte del sax di Eddie «Lockjaw» Davis, al contempo feroci e frenate), in una trama complessa di pensose sospensioni e acuti d’una ormai caratteristica grazia tra dolente, piegata e abrasiva, evocativa di Little Jimmy Scott (in particolare in quel lentissimo Why Try To Change Me Now che apparteneva a Jimmy come a Sinatra).
Questa sintesi così personale, e che recava il segno di una tradizione puntualmente assorbita, si rinnovava nella fitta e pur discontinua produzione di fine decennio. Il 1968 era, discograficamente, l’anno di Jimmy Jones, con «Easy» che teneva fede all’idea di «facile ascolto» in parte espressa nel titolo. Jones la guidava attraverso un repertorio di prestiti europei e sudamericani (qualcosa di frivolo, ma anche un How Insensitive delicatamente cesellato in un clima quasi da camera) e country-pop (a suo modo notevole Gentle On My Mind, velocizzato sino a una grazia febbrile), e la faceva veramente scintillare, tra belting e soffice parlando, nel soave e sognante Make Me Rainbows di John Williams, recentissima theme song hollywoodiana che manteneva nei colori orchestrali un’atmosfera da commedia brillante, e soprattutto in Make Me A Present Of You, firmato a suo tempo da Joe Greene per Ernie Andrews (un’altra voce maschile con cui Nancy trovava una forte affinità), che voce e orchestra leggevano in una luce bluesy, in un bel crescendo che portava a un finale abrasivo, nei pressi del grido. Dal disco emergeva anche un piccolo hit del ghetto, con l’amarognolo pop-soul di Face It Girl, It’s Over, arrangiato, questo, da un altro abile specialista, il texano H.B. Barnum. Jimmy Jones era in pieno controllo nell’album successivo, che celebrava l’originalità della cantante: «The Sound Of Nancy Wilson», un puro sound soul-jazz, con la matrice di chiesa che emerge potente anche su materiale standard, sin dall’iniziale Out Of This World: una rivisitazione danzante, fatta galoppare dal basso elettrico di Carol Kaye, per un canto dalla modulazione inquieta e sinuosa, liberato nel grido su un «cry» isolato, insieme lacerante e misuratissimo. Un’altra gemma arleniana, When The Sun Comes Out, si dilata lenta e solenne ma intrisa di swing sottopelle, con una fitta trama di risposte al sax alto di Benny Carter a movimentare la fluida esposizione melodica, seccamente assertiva (da elegante pulpito) in certi finali di frase, quelli che caratterizzano anche la distesa lettura di By Myself, su una nuova, incalzante orchestrazione. L’occasionale grido è graffiante e torrido, la modulazione gentilmente ossessiva, nel broadwayano It Only Takes A Moment, a cui Jones dà il respiro gospel; un funky Peace Of Mind e un pittorico e cautamente misterioso Black Is Beautiful (firmato da John Cacavas) aggiungono registri al «suono» dell’album; ma il momento cruciale è This Bitter Earth, la brumosa ballad scritta da Clyde Otis per la Washington, che le permette, nell’arioso e potentemente dialettico spazio orchestrale, di pennellare il racconto in un formidabile ma sempre ben controllato gioco di vibrati, melisma, singhiozzi e personali colorazioni soul.
Mentre Face It Girl, It’s Over e qualche altro titolo da questi ultimi album entravano nel repertorio live della Wilson, come rivela la registrazione dell’agosto 1968 al Sands di Las Vegas con l’orchestra di Antonio Morelli e Jimmy Jones seduto al piano, probabilmente destinata a un’uscita Capitol ma pubblicata soltanto nel cofanetto del 2003 «The Essence Of Nancy Wilson» (una performance nel complesso più elettrizzante, e un po’ troppo insistentemente sospirosa, che toccante), il nuovo lp dedicato alla «spectacular artistry» della cantante, «Nancy», trovava Jones ad agire – pur con la sua tavolozza jazz – su un programma dalla vena più leggera, dal sock-it-to-me con coretto femminile, I’m Your Special Fool, al soft rock di In A Long White Room. Solo What Do You See In Her, un’altra pregevole torch song nel solco di Guess Who I Saw Today, sussurrata in una bella trama di minute (e non così minute) modulazioni e contrasti, sfuggiva alla sensazione dell’effimero: oltre a due temi ancora firmati da Clyde Otis, il funky We Could Learn Together e il classico Looking Back, con una intro churchy di organo e chitarra, l’orchestra che emerge lentamente in funzione corale e Nancy che personalizza, svaria, graffia e brucia (quel «turned to hate» enunciato con secca determinazione), fino a una memorabile cadenza con il solo organo. L’album che segue, il primo registrato nel 1969, reca un titolo, «Son Of A Preacher Man» (dal pezzo, qui in una versione funky e vibrante, rubato a Dusty Springfield e presto immortalato da Aretha), che suggerisce il clima tra country e America profonda di quella che rimane l’ultima raccolta nel segno della «concettualità» che aveva caratterizzato il decennio: e introduce – in alternanza con quelle sempre finissime di Jimmy Jones – le più sanguigne charts di Phil Wright, proveniente dalla scuderia Chess (e dal Rescue Me di Fontella Bass).
Nancy, nella sua veste più cautamente espressiva, dimostra una singolare simpatia per la scrittura di Bobby Russell (un’altra canzone dell’addio, I Made You This Way, bilanciata tra ironia e malinconia), Hank Cochran (Make The World Go Away, insieme asciutta e romantica, dalle aperture controllate), Roger Miller (Husbands And Wives) e Jim Webb (By The Time I Get To Phoenix: il canto quasi sospeso nelle soffice cornice di archi). Il successivo «Hurt So Bad», dalla grande canzone pop di Teddy Randazzo resa popolare da Little Anthony (comune, con Nancy, l’aggancio stilistico a Jimmy Scott), è invece un casuale potpourri, a tratti affascinante, a volte irritante, di atmosfere e situazioni, e di arrangiatori: una lettura troppo funky (per essere efficace) di Willie And Laura Mae Jones, uno Spinning Wheel al cui arcano messaggio lei non sembra interessata, un’antica ballad hollywoodiana di Van Heusen e Burke, Do You Know Why, vestita dagli archi di Billy May, che la trova invece interprete attentissima, come un’altra ballad finemente confezionata da Oliver Nelson, Let’s Make The Most Of A Beautiful Thing, e un Can’t Take My Eyes Off You (Jimmy Jones) dalla sinuosa e seducente articolazione. Piccolo hit R&B, quest’ultimo brano riemerge a dare il titolo all’album che apre il nuovo decennio Capitol per la cantante, in equilibrio tra una bella versione gospelizzante di A Brand New Me e una lettura del Suzanne di Leonard Cohen che – pur assorta e suggestiva – dà il segnale di un certo allontanamento dalla sua più coerente linea espressiva. Tempestosi a livello personale, segnati dal divorzio da Dennis e dal matrimonio con un pastore presbiteriano, illuminati (a metà decennio) da un suo brillante show televisivo per la KNBC, con ospiti come Quincy Jones, Jimmy Witherspoon, Lou Rawls, oltre a personalità non musicali, che però – a dispetto della conferma della sua esemplare telegenia tanto come cantante, accompagnata da uno stellare sestetto guidato da Phil Wright al piano, quanto come disinvolta anchor lady – ebbe la sventura di essere scalzato dopo pochi mesi da quel «Saturday Night Live» destinato a durare in eterno, gli anni Settanta di Nancy Wilson persero, discograficamente, la pur eclettica coerenza e determinazione espressiva che aveva caratterizzato e reso impagabile il precedente decennio. Ancora tutti realizzati in casa Capitol (un’etichetta, però, che appariva più disorientata, meno coesa: certo un segno dell’epoca), gli album del periodo di Nancy erano giocati sul filo di un mainstream pop bagnato di umori soul, dance, jazz e fusion: andavano in cerca di nuovi valori e standard (in tutti i sensi) rinunciando a quelli di cui lei era stata maestra. Spesso l’impressione era quella di un talento un po’ sprecato per il materiale scelto.
Era un percorso «middle of the road» che si sviluppava dalle produzioni Gamble & Huff (quelli del «Philly sound») di «Now I’m A Woman» (1970: con una sobria lettura di Bridge Over Troubled Water alternata agli eccessi di How Many Broken Wings e alla brillante dinamica di Let’s Fall In Love All Over, ancora attraversato dall’ombra di Jimmy Scott), tornava subito agli arrangiamenti di Phil Wright per il bell’album intitolato «Kaleidoscope» (un intimo e colloquiale Mr. Bojangles, un Ain’t No Sunshine insieme passionale e asciutto, un quasi operistico, e privo di ogni traccia «blue», The Greatest Performance Of My Life), assaggiava quelli di Don Sebesky combinati ai colori di Joe Sample e i Crusaders per il più corposo e significativo «I Know I Love Him» del 1973 (obliquamente e struggentemente bluesy in un mirabile Don’t Misunderstand, nella ballad romantica I Was Telling Him About You, in We Can Make It Baby di Marvin Gaye, nell’arioso e lentissimo Can I, che la stessa Nancy ha elencato tra le sue prove preferite), passava al più lieve mélange di funk e dance di Gene Page in «All In Love Is Fair» (1974), comprendente l’ultimo «top ten» di Nancy, You’re As Right As Rain, e a quello più marcato e sexy di All My Love Comes Down in «Come Get To This» (1975). Scrittura e produzione di Gene McDaniels si combinavano in «This Mother’s Daughter» (1976), con elementi corali ed esotizzanti in China, arrangiato da George Duke, e il «danzante» e sapidamente ombroso I Don’t Want A Sometimes Man, mentre un veterano del Brill Building, Gary Sherman, curava nel 1977 «I’ve Never Been To Me», mettendo a contrasto il grido di indipendenza sentimentale della ballad All By Myself e l’amara riflessione del brano del titolo («I took the hand of a preacher man / I’ve been to paradise, but I’ve never been to me…»), che riemergerà sul palcoscenico del «suo» club in una scena di The Big Score.
L’esplicita sensualità di He Makes Me Feel Good ‘Bout Myself, chiuso su un ad lib autenticamente churchy, illuminava l’album che si avviava a celebrare il ventennio Capitol della cantante, «Music On My Mind», in una confezione argentea celebrata dalle note di Dave Cavanaugh e in una sontuosa cornice musicale curata da Clarence K. McDonald o Wade Marcus, con una ritmica esemplare (Earl Palmer, Leo Nocentelli…) che dava uno schietto respiro funky a pezzi come I’m Gonna Let Ya: quella funkiness che si faceva eccentrica e visionaria in Sunshine (dilatato con spunti di un abrasivo scat maschile e il volo del sax tenore di John Klemmer) nel successivo «Life, Love & Harmony» del 1979, arrangiato e quasi interamente firmato da Larry Farrow, che pilota anche la conclusiva avventura «disco» su Capitol, «Take My Love». Uno scenario musicale lontanissimo da quello del più classico (e classy) album del decennio, dall’accattivante titolo vanheuseniano, «But Beautiful», pubblicato nel 1971 anche se in realtà registrato a Los Angeles nel novembre del 1969. In regale e ideale compagnia di un quartetto di Hank Jones, con Gene Bertoncini, Ron Carter e Grady Tate, Nancy rivela qui il suo luminoso e misurato equilibrio di naturalezza jazzistica e lirismo drammatico, attraverso un programma che strizza l’occhio a grandi maestre come Ethel Waters (Happiness Is A Thing Called Joe, Supper Time), Dinah (Darn That Dream) o la Lady Day di «Lady In Satin» (For Heaven’s Sake e But Beautiful). Pregevoli sono i pezzi ellingtoniani, Prelude To A Kiss e un maturo e misterioso In A Sentimental Mood, distillato sui larghi spazi lasciati dal gruppo con un’enunciazione che è insieme delicata e (anche nel pianissimo) rotonda, palpeggiata: esemplare, nel suo colloquiale respiro delicatamente bluesy, è I Thought About You (ancora Van Heusen, Dinah, Billie), raccontato in una trama di agrodolci chiaroscuri; e memorabile è il gioiello di Rodgers e Hart, Glad To Be Unhappy, in una sommessa ma sempre palpabile articolazione di contrasti emozionali, tra romanticismo e sensualità. Sono gli standard che liberano pienamente la jazz singer che è in lei, la cantante dal respiro fluido e irrequieto, dal fraseggio sgusciante e imprendibile, che nei decenni seguenti si apprezzerà prevalentemente sul palcoscenico, e di frequente ancora in specials e spettacoli televisivi, con le big band (le sue preferite quelle di Basie, Buddy Rich, Mercer Ellington: oltre a quelle di Si Zentner o Freddy Martin incontrate nei supper clubs più eleganti) e soprattutto integrata da un trio, come quello regolare di Michael Wolff nel concerto californiano di «At My Best» (ASI, 1980), con una ben distinta medley dedicato alla Washington (This Bitter Earth, What A Diff’rence…, Salty Papa Blues), riletture dei brani con Adderley, e la ripresa finale di How Glad I Am, quello dello stesso Jones con Eddie Gomez e Jimmy Cobb nel live in studio «What’s New» (EastWorld), con un classico repertorio che spazia da Gershwin a Rodgers, dal Porter di It’s All Right With Me alla Lady Day di Don’t Explain, più un un irresistibile ed essenziale Softly As In A Morning Sunrise chiuso su un crescendo dalle nervose e iridescenti modulazioni: nel 1982, l’anno in cui la Nancy più ruggente e swingante si unisce anche a Joe Henderson, Chick Corea, Stanely Clarke e Lenny White (anche produttore) per un muscolare e frenetico I Want To Be Happy, un ombreggiato e tormentato ‘Round Midnight, un bizzosamente recitato I Get A Kick Out Of You (nell’Elektra «Echoes Of An Era 2: The Concert»).
Ma buona parte delle registrazioni, in quella fase spesso rappresentata su Columbia, tenderanno a collocare il suo meraviglioso, sempre energico strumento in un elegante spazio easy listening con sfumature soul, fusion e pop: come nel tête-à-tête con Ramsey Lewis del 1984, «The Two Of Us» (una produzione di Stanley Clarke), nei giapponesi «I’ll Be A Song» del 1983 (con il singolare Casablanca, giocato su citazioni da As Time Goes By) e «Keep You Satisfied» del 1986, «Forbidden Lover» dello stesso anno, che prende il titolo dal setoso duetto con Carl Anderson, da lei francamente dominato, o «Nancy Now!» del 1988, che vanta una ingegnosa rivisitazione ritmico-sinfonica di Ebb Tide. Più avanti la songstress ultracinquantenne trova il confronto con materiale più nobile, come in «With My Lover Beside Me» del 1991, testi inediti del grande Johnny Mercer ritrovati e musicati da Barry Manilow, tra cui lo struggente When October Goes, e in «Love, Nancy», che nel 1994 fa un’apparizione nella hit parade degli album R&B: un maturo anche se spesso ridondante e virtuosistico affresco romantico, non privo però di momenti suggestivi, come la maestosa lettura della Love Dance di Ivan Lins in un’ampia cornice d’archi e un fine aggiornamento ritmico-armonico dell’ellingtoniano Day Dream, commentato dalla chitarra di John Chiodini e da lei distillato un esemplare mix di passionale abbandono e asciutta grazia.
Nancy Wilson era sempre attivissima in televisione: nel popolare Arsenio Hall Show, in documentari sul teatro Apollo o su Quincy Jones, in commedie per bambini o sitcoms come i Robinson, The Parent ‘Hood o Soul Food. E dal 1995 il suo contributo alla scena jazzistica prese anche una via alternativa e altrettanto rilevante. La NPR (National Public Radio) la scelse per condurre un programma celebrativo del settantacinquesimo anniversario della nascita di Charlie Parker, che si sviluppò subito nel settimanale «Jazz Profiles». Per sette anni la diva di Chillicothe esercitò la sua articolata dimestichezza con il mondo del jazz per illustrare dall’interno di quel mondo i talenti di colleghi cantanti e strumentisti – da Nat Adderley a Sarah Vaughan, da Bill Evans a Mel Tormé, da Hoagy Carmichael a Betty Carter – con la sua voce calda e colloquialmente aggraziata, la sua enunciazione tornita quanto intima. Erano (e sono, negli archivi on line della NPR) ritratti radiofonici di un’ora, corredati da puntuali interviste (con altri musicisti, impresari, produttori, parenti, testimoni di ogni sorta) e ovviamente da molte e preziose testimonianze discografiche: e l’enunciazione fluidamente ritmica di Nancy, dall’eloquenza morbida e luminosa, tangibilmente appassionata e schiettamente ammaliante, tiene gentilmente ipnotizzati su carriera e vicende dei protagonisti delle varie puntate.
Nel frattempo, mentre il suo Novecento si chiude discograficamente in una chiave di ordinaria, patinata (e, certo, fieramente interpretata) amministrazione, con il Columbia del 1997 «If I Had My Way», il nuovo secolo si apre nel segno di un festivo «Nancy Wilson Christmas» (Telarc), la voce matura, mobile e aristocratica, dalle peculiari pieghe liquide, adattata a un pulsante Let It Snow! con una big band di alunni gillespiani come al delicato Sweet Little Jesus Boy armonizzato dai New York Voices; e in quello di un nuovo e più accattivante incontro chicagoano con Ramsey Lewis, «Meant To Be» (Narada), culminante in un delizioso Peel Me A Grape, l’arguto bozzetto di Dave Frishberg già appartenuto a Anita O’Day, e in un seducente Moondance, l’ambra della voce appena screziata dal tempo ma sempre elegantemente soulful: come nel duetto piano-voce su God Bless The Child che – insieme al R&B punchy e «vecchia scuola» di In The Name Of Love – illumina il successivo «Simple Pleasures».
Contemporaneamente, nel 2003, il più visibile e prestigioso «R.S.V.P.» (MGC Jazz) mette a confronto la voce della avanzata maturità, che conserva un perfetto equilibrio di controllato ardore e puntualità descrittiva, con un repertorio impeccabile: un Goodbye suggestivamente ombreggiato, un cameristico How About Me con cornice di tre clarinetti, un That’s All dal cauto swing, mirabilmente chiosato da Gary Burton, un robusto Day By Day per big band, un Blame It On My Youth dal largo respiro, in duo con l’antico partner George Shearing. Ma è An Older Man Is Like An Elegant Wine che definisce lo spirito dell’album (il cui titolo, si scopre in copertina, non sta per «répondez s’il vous plaît» bensì per «rare songs, very personal»): una canzone di classe superiore, poco battuta e dal lirismo delicato, intimistico, che Nancy personalizza con icasticità, giocando finemente con i chiaroscuri, la dinamica, i contrasti di luce e grana del suo ben stagionato strumento, e trovando nel contralto di Phil Woods e nell’armonica di Toots Thielemans – tra loro impeccabilmente intrecciati – un complemento puntuale e eloquente. Prezioso, per la stessa etichetta, è anche il successivo «Turned To Blue», che le vale il Grammy per il jazz vocale nel 2007. Spesso finemente arrangiato per big band dal Dr. John Wilson e anch’esso con ospiti illustri, il disco ispira a una Nancy aggraziata quanto grintosa quel raro connubio di concentrazione interpretativa e irrequietezza melodica, quella visione chiaroscurale di un brano, tra sinuosità e sussulti, vulnerabilità e controllata aggressione: e, oscillando dal bel contrasto di piano e forte e dall’integrazione di swing e arguzia nell’ellingtoniano Take Love Easy all’ariosa pensosità e cangiante tensione di fraseggio di Old Folks e al supremo relax (condiviso con il partner James Moody) di Taking A Chance On Love, trova un climax di maturo incantesimo romantico in un This Is All I Ask rivisto in bossa, in cui lievi impurità e arrochimenti (cicatrici dell’età) si alternano al belting lucente e asprigno per dare il senso di una complessa esperienza emotiva.
È la conclusione ideale di una carriera prodigiosa. Di lì a pochi anni, dopo la morte del secondo marito, Nancy Wilson si ritira dalle scene. Muore a 81 anni, il 13 dicembre del 2018, nel pittoresco ritiro di Pioneertown, nella contea di San Bernardino, uno dei più popolari scenari western di cinema e televisione.