Stomu Yamash’ta: da ragazzo prodigio a talento smarrito

Musicista poliedrico, in grado di passare con disinvoltura dalla contemporanea al jazz, il percussionista giapponese è finito vittima di una intensa ma breve popolarità

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Non è raro imbattersi nelle vicende di musicisti poliedrici e virtuosi che irrompono prepotentemente sulla scena riscuotendo consenso da più parti per poi eclissarsi gradualmente, o comunque sottrarsi all’attenzione dei mass media e del pubblico. È sicuramente il caso del percussionista giapponese Stomu Yamash’ta (all’anagrafe Tsutomu Yamashita, Kyoto, 1947), che negli anni Settanta si guadagnò una certa fama anche presso gli appassionati di jazz-rock e progressive. Già da adolescente Yamash’ta aveva rivelato un talento prodigioso, tanto da segnalarsi a soli sedici anni come solista della Kyoto Asahi Philharmonic Orchestra diretta dal padre nell’esecuzione del Concerto pour marimba, vibraphone et orchestre op. 278 di Darius Milhaud, il che attirò anche l’interesse del compositore armeno-georgiano Aram Chačaturjan. Nel 1964 Yamash’ta colse la sua grande occasione. L’incontro con il timpanista Saul Goodman, dopo un concerto della New York Philharmonic Orchestra a Kyoto, lo stimolò a trasferirsi a New York di lì a poco per frequentare la Juilliard School. La successiva esperienza di studi al Berklee College di Boston lo avvicinò al mondo del jazz, senza per questo scoraggiarlo a tenere il piede in due staffe. Lo dimostrano ampiamente la collaborazione con la Chicago Symphony Orchestra diretta da Seiji Ozawa nel 1969 e i successivi contributi a El Cimarrón (1970) e Prison Song (1972) di Hans Werner Henze, a Seasons (1972) del connazionale Toru Takemitsu e a Turris Campanarium Sonantium (1971) di Peter Maxwell Davies.

Anche per questo motivo la prima metà degli anni Settanta rappresenta un periodo di febbrile attività e al tempo stesso una svolta nella carriera del giovane e talentuoso percussionista, ansioso di sperimentare e di misurarsi con più linguaggi. Esaminiamo intanto la sua parentesi jazzistica. Al 1971 risalgono due lavori parecchio differenti, ma comunque accomunati dall’utilizzo inesauribile e creativo di una vasta gamma di percussioni. «Metempsychosis» (Columbia) è un progetto condiviso con il pianista e compositore Masahiko Satō, realizzato con una formazione giapponese di diciassette elementi comprendente cinque sassofoni, quattro trombe e altrettanti tromboni, oltre a una ritmica formata da contrabbasso, batteria, più le percussioni e il piano dei due titolari. Un frenetico e cangiante tappeto di percussioni funge da sostegno a bordoni rarefatti seguiti da tensioni ed esplosioni in puro stile free che richiamano in qualche misura le sperimentazioni coeve della Globe Unity. «Red Buddha» (King) è un soliloquio percussivo – in bilico tra improvvisazione pura e suggestioni classico-contemporanee (Xenakis?) – ripartito in due suite. Yamash’ta trae il meglio da un ampio armamentario percussivo in cui spiccano vibrafono, marimba e steel drums. 

Il 1972 segna per Yamash’ta l’approdo in Inghilterra e i contatti proficui con il jazz-rock britannico, oltre alla stipula di un contratto con l’etichetta Island. Ne scaturisce la feconda collaborazione con il trio Come To The Edge formato dal percussionista scozzese Morris Pert (elemento di formazione classica che in seguito avrebbe contribuito al gruppo jazz-rock Brand X, oltre a collaborare con molti musicisti rock e pop), dal bassista Andrew Powell e dal polistrumentista Robin Thompson (piano elettrico, organo e sax soprano). «Floating Music» è un valido esempio di incontro fra due culture, grazie alle scale, alle cellule tematiche ipnotiche e alla varietà timbrica e ritmica apportate da Yamash’ta. Spiccano l’interazione con Pert, l’uso etereo del vibrafono e l’impiego dello sho (strumento tradizionale giapponese ad ancia libera) da parte di Thompson in One Way. In Keep In Lane si aggiunge una sezione di fiati (sax soprano, tromba e trombone), mentre il bassista Phil Plant rimpiazza Powell in due brani. Nell’iniziale Poker Dice al Fender Rhodes figura il pianista Peter Robinson, che più tardi avrebbe formato il trio Sun Treader insieme a Pert. Quest’ultimo, insieme a Robinson e al bassista Alyn Ross, forma il nucleo del gruppo Red Buddha Theatre, protagonista di «The Man From The East», inciso nel 1972 ma pubblicato l’anno successivo. Si tratta di una formazione allargata, con un folto contingente di musicisti giapponesi (tra cui Hisako Yamash’ta, violinista e moglie del percussionista) e alcuni ospiti britannici, come il chitarrista anglo-indiano Gary Boyle, già con i Trinity di Brian Auger e poi fondatore di Isotope. La musica è composta espressamente per lo spettacolo eponimo, in parte ispirato al teatro noh e kabuki, e mescola sapientemente melodie ed elementi tradizionali (vedi l’impiego dello shamisen, il liuto a tre corde) con un jazz rock tagliente, senza fronzoli.

Il rapporto con la Island si consolida nel triennio successivo, anche se Yamash’ta si indirizza gradualmente su formule più prevedibili e di maggior successo commerciale. Nel 1973 costituisce il gruppo East Wind che, oltre alla moglie e a Boyle, allinea Hugh Hopper, formidabile bassista fuoriuscito dai Soft Machine, e il tastierista Brian Gascoigne. «Freedom Is Frightening» è il primo frutto di questa nuova iniziativa: un jazz-rock corposo, nervoso – complici anche le distorsioni di Hopper e l’approccio microtonale, alla John McLaughlin, di Boyle – e basato su metriche cangianti. Qui il percussionista opera prevalentemente alla batteria, sovraincidendo qua e là le percussioni. Conclude l’album la delicata Wind Words, per violino, chitarra acustica, vibrafono (suonato da Gascoigne) e rarefatti effetti di percussioni metalliche. In seguito lo stesso gruppo registra la musica per la colonna sonora di One By One, un documentario sulle corse automobilistiche. Cosa non del tutto nuova per Yamash’ta, che negli anni precedenti aveva collaborato con Peter Maxwell Davies per la colonna sonora di The Devils di Ken Russell e con John Williams per quella di Images di Robert Altman. Nel 1975 «Raindog» fa registrare una decisa battuta d’arresto. Benché East Wind formalmente esista ancora data la presenza di Hisako, Gascoigne e parzialmente Boyle, alla seduta di registrazione partecipano alcuni strumentisti giapponesi abbastanza anonimi e si aggiungono le voci di Maxine Nightingale e Murray Head. La musica si appiattisce inevitabilmente trasformandosi in una mistura di jazz-rock di maniera, progressive e pop.

Questo è un segnale che anticipa il faraonico progetto sviluppato dal percussionista nel biennio 1976-1977: la costituzione del supergruppo Go!, con Steve Winwood (tastiere e voce), Klaus Schulze (sintetizzatori), Al Di Meola (chitarra), Michael Shrieve (batteria) e Paul Buckmaster, responsabile degli arrangiamenti e della direzione di una sezione di archi. «Go!», «Go Live From Paris» e «Go Too» documentano un meccanismo mastodontico in cui confluiscono stili e talenti poco compatibili. Tant’è vero che questa creatura elefantiaca, senz’altro frutto di un’operazione commerciale, cessa la sua esistenza in capo a un paio d’anni. Dall’inizio degli anni Ottanta Yamash’ta, dopo il ritorno in Giappone, ha abbracciato la filosofia buddista, dedicandosi a composizioni elettroniche in qualche modo riconducibili alla New Age e al canto tibetano, più conformi allo spirito della sua cultura e comunque tutt’altro che disprezzabili. Così facendo, è praticamente scomparso dal circuito musicale occidentale. Fenomeno di rigetto? Probabilmente sì, ma affrontato con dignità.

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