«Il jazz, nel mio linguaggio, è una parola di quattro lettere: L-O-V-E. Charles Mingus è uno di quelli che mi hanno insegnato a pronunciarla». Conclude così Jaki Byard le note di copertina di «Portrait», ristampa Prestige del 1980 di due album di Mingus e sulla cui cover, proprio sotto il nome del Barone, compaiono il suo e quello di Eric Dolphy (il resto della storica formazione è citato sul retro). Si tornerà sull’importanza di questo punto perché è un segno capace di raccontare, assai più di quanto si possa immaginare, il ruolo di Byard nella musica di Mingus, ma più in generale nella creazione di un suono nuovo, costruito sulle radici e spinto in forme di inatteso espressionismo.
Quello che, invece, balza subito agli occhi è il suo riferimento alla parola «amore» legata al jazz: è una sorta di cristallo diafano e iridescente quello che il pianista doveva possedere come dote naturale, se è vero che, a distanza di oltre ventitré anni dalla sua morte, chiunque sia interpellato, dagli Stati Uniti alla Vecchia Europa, per raccontarne vicissitudini e virtù, risponde declinando in forme alterne quella stessa parola: amore, affetto, riconoscenza. Chi ha avuto a che fare con Jaki, lo racconta come un uomo ostinato, integro, puro, riservato, riflessivo ma anche a tratti strepitosamente simpatico e giocoso. Agli studenti che vedeva distratti durante la sua lezione, si avvicinava silenziosamente con il sassofono in mano e gli sparava nelle orecchie When Sunny Gets Blue, per dire. La musica resterà sempre il suo primum, per essa rinuncerà a contratti prestigiosi, restando – quando necessario – defilato; più concentrato ad arrangiare, suonare, insegnare che ad apparire. Se Mingus, dunque, può rappresentare il giusto deuteragonista di una storia musicale – Baronia vs. Signoria – ci si dovrà sganciare dal cliché narrativo per arrivare a raccontare Byard, nel centenario della sua nascita, come una figura autonoma e di prima rilevanza, dotato di personalità musicale robustamente tetragona agli abbagli del successo, cocciutamente determinato a formare nei vonservatori nuovi musicisti, inconsapevolmente seminale per il pianismo jazz contemporaneo. Questo breve viaggio nella storia di un gigante «laterale» è stato possibile grazie al prezioso aiuto di Jason Moran, suo studente a Boston, Enrico Pieranunzi, che lo ha conosciuto a New York e ne ha apprezzato le doti pianistiche, Michael Marcus, che ha registrato con Byard due album prima della sua morte, e Chet Williamson, l’unico ad averne scritto una biografia monumentale nel 2018 (Falling Rains Of Life. The JB Story, Project Publishing) e inesausto divulgatore della sua musica.
C’era una volta Worcester
Non che le stelle abbiano remato contro il suo destino di musicista, a giudicare da natali decisamente propizi ai suoni. A Worcester, John Arthur Jr. (ma tutti lo chiameranno «Jaki») nasce il 15 giugno del 1922; intanto a Nogales, Arizona, Charles Mingus ha otto settimane di vita, sua madre sta per morire e il padre intende giù risposarsi: inizia la sua tormentata biografia da «underdog». Worcester, al tempo, era una città piuttosto arretrata del Massachusetts, nonostante la separassero da Boston meno di cinquanta miglia. Ben radicato il Ku Klux Klan, rigidamente perimetrati i quartieri-ghetto.
Quando lì arrivarono gli inglesi nel 1673, beffarono gli indiani Nipmuc (prima persuadendoli ad acquistare i loro stessi terreni, poi espropriandoli), presenti nei pressi del lago Quinsigamond, poi ricostruirono il maggiore dei loro villaggi che avrebbe preso il nome attuale, con l’azzardata idea di farne il «Cuore del Commonwealth», e finalmente la istituirono come città il 15 giugno del 1722. E infatti, il giorno in cui Jaki nasce, i giornali aprono con le grandi celebrazioni per il Bicentenario, fatto che – verosimilmente – i genitori trascurano, sposi da appena un anno e alle prese col primogenito. Se il padre, John Sr., è un ricercatissimo trombettista (la notte, perché di giorno è chauffeur), coinvolto in ogni formazione bandistica cittadina e collezionista di dischi, la madre, Geraldine M. Garr, è tra le pochissime pianiste a contratto per i film muti, proprio come la nonna, finché il sonoro non la costringe a dirottare sulla pasticceria.
Resta il fatto che Jaki inizia a respirare ossigeno e musica dai primi vagiti, ritrovandosi il padre ansioso di insegnargli le diteggiature della tromba e del sassofono e la madre che lo incentiva a studiare il piano, malconcio in verità, ereditato dall’ava. Ed è sempre lei a spingerlo, fin da bambinetto, ad ascoltare i concerti che organizzano al Quinsigamond Lake, gli dà 75 cents: 55 per l’ingresso, 10 per andare e tornare col bus, 5 per una coca; lui preferisce farsela a piedi di nascosto e commutare i dieci in altre due bibite, mentre inizia a rimanere incantato alle esibizioni di Stan Kenton, Woody Herman, Fats Waller, Benny Goodman, che poi riascolta nei dischi del padre, la sera, e prova a suonare con ogni strumento trovi per casa. Inizia così a raffinare la versatilità polistrumentale, che avocherà a sé come requisito fondamentale per scrivere e arrangiare con efficacia le parti per large ensemble e big band. Tanto evidente è quella natura eclettica che già tra i quindici e i sedici anni ottiene in città ingaggi su fronti diversi: l’esordio coi Worcester Boys Club a Grafton suonando il piano e i Nite Hawks di Freddie Bates suonando la tromba, in sezione col padre al trombone. Lo stesso Bates, però, scoperto il talento di Byard per la tastiera, che sfoggia nelle pause suonando alla Count Basie, lo dirotta dai fiati al piano. Comunque, l’ambiente musicale di quella cittadina «parrocchiale», come l’hanno definita, non è affatto disprezzabile, ma di sicuro non offre halls adeguate a parte il Plymouth Theatre (oggi Palladium), che mette in cartellone i nomi maggiori in circolazione: «Finchè vivrò», scriveva Dan Asher, pianista e giornalista bostoniano, «non smetterò di meravigliarmi del numero di – non li chiamerei club – taverne, raduni, negozi riconvertiti, baracche, seminterrati scalcinati che c’erano per suonare a Worcester nei due decenni prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale». È questo il contesto in cui, probabilmente, Jaki Byard (appena sedicenne), Barney Price e altri quattro musicisti locali realizzano l’idea (oggi tornata di moda) di creare una cooperativa e trovare uno spazio dedicato alle jam e alle prove concerto. Scelgono come nome «Saxtrum», mescolando le parole saxophone e trumpet: nel 1938 lo inaugurano e lo frequentano per il successivo decennio, allorquando – dopo la guerra – devono abbassare le saracinesche per i costi divenuti insostenibili. Il Saxtrum è un luogo centrale per Byard essenzialmente per due motivi: può suonare sempre e tanto, ogni sera, affinando il proprio linguaggio jazzistico con la pratica d’insieme, può invitare a i musicisti, dopo l’esibizione al Plymouth, a suonare in jam da tarda notte fino al mattino. Di quegli anni restano solo poche testimonianze e nessuna registrazione, ma di lì passano Gene Krupa, Tommy Dorsey, Woody Herman, Stan Kenton o quel Sam Donahue che, leggenda vuole, tira fuori dalla custodia il sax tenore e soffia un assolo di venti chorus su Indiana senza mai prendere fiato, ricorrendo alla respirazione circolare e lasciando di stucco i presenti.
Esibirsi appena possibile, anche in piccolissimi club, resta un’esperienza che Byard, anche quando il suo nome si andrà consolidando a livello internazionale, non vorrà mai negarsi, quasi a conferma di quella spinta così potente e intima che doveva essere per lui la musica (o l’amore, nella metonimia iniziale). Al riguardo, Enrico Pieranunzi ricorda bene il curioso incontro con il pianista di Worcester: «Nel 1985 andai negli Stati Uniti. Conoscevo bene la musica di Byard, i dischi con Mingus e i suoi con quella straordinaria sezione ritmica di Richard Davis e Alan Dawson. Avevo una data all’Angry Squire a New York, un locale minuscolo [tra la 7th Avenue e la 23rd Street ma oggi chiuso, ndr], notai che ci avrebbe suonato anche lui e naturalmente decisi di andare a sentirlo, un po’ sorpreso che si esibisse in quello che davvero può esser definito un buco. E sai cosa?» prosegue con sapidità il pianista romano, «eravamo in tre, me compreso! Incurante di questo fatto, Byard suonò meravigliosamente bene, fu magnifico sentirlo fare cose geniali e, siccome applaudivo spesso e lui se ne accorse, a fine concerto mi presentai e gli feci i complimenti. C’era anche sua moglie e devo dire che rimasi colpito da una certa purezza, innocenza, era praticamente stupito che io mi fossi entusiasmato così tanto, davvero l’idea simmetricamente opposta a quella di una star del jazz». Fatto sta che intorno ai diciott’anni, Byard è un musicista piuttosto noto in città, suona qualunque cosa serva: sax, tromba, trombone, batteria, chitarra e, naturalmente, il piano. Sta finendo la Commerce High School, ma tutto il suo tempo va nello studio dello strumento, una faccenda che prende tremendamente sul serio, con una voracità bulimica. Suona sui dischi di Earl Hines, Fats Waller e soprattutto Art Tatum, sviluppando una tecnica che passa dall’imitativo (qualcuno al tempo lo accusa di «Tatumesque») sempre più verso un linguaggio autonomo. Ha un’insegnante due volte a settimana, poi corre a studiare teoria e arrangiamento in biblioteca, suona a casa il pomeriggio, la sera e la notte nei locali. Se, come si vedrà, per un curioso mix di caso e revanscismo la sua carriera si definirà in modo importante dentro i Conservatori, le accademie del tempo non possono accoglierlo, un vulnus per lui piuttosto marcato, che lo porta a spazientirsi ogni volta che lo si liquida come un autodidatta. «Non mi hanno preso al New England Conservatory», si sfoga col Worcester Magazine, «perché ero arruolato con vitto e alloggio nell’esercito durante la guerra, ma io non avrei sognato altro. Ma non datemi dell’autodidatta: ho studiato da solo, con altre persone, abbiamo approfondito la teoria e discusso per ore. Anche Schoenberg ha studiato in biblioteca, chi lo direbbe un autodidatta?».
la U.S. Army e l’incontro con Charlie Mariano
Vero è che, con i venti di guerra, gli States nel 1940 approvano una legge che prescrive il servizio alle armi obbligatorio per gli uomini dai 21 ai 45 anni, Jaki non fa in tempo a trasferirsi – finalmente – a Boston, per costruire progetti musicali più solidi, che viene chiamato in servizio all’inizio del 1943 dove resterà fino al 1946, girando tutti gli Stati Uniti, dall’Alabama alla Florida. In divisa, per fortuna, imbraccia molto di più il sax che i fucili, subito preso nella banda dell’esercito. Non è l’unica, prevedibile, fortuna: Jaki si ritrova Kenny Clarke come vicino di branda, e i due passano insieme tutto il tempo disponibile a parlare di arrangiamento e nuovi suoni, il bebop è una realtà della quale tutti vogliono far parte, il sodalizio casuale diventa uno scambio proficuo di visioni sul futuro del jazz. Sempre sotto le armi arriva un altro incontro felice, perché durante la permanenza del plotone in Florida Byard conosce Julian e Nat Adderley, ancora sconosciuti, e fa loro una specie di audizione, restandone impressionato e diventandone il primo mentore. Dismessa la divisa, Jaki continua a costruire la sua identità di musicista, più preoccupato di suonare, studiare, approfondire ritagliarsi un profilo da leader spendibile per il mercato, pure effervescente, di quegli anni. Una cosa, però, la sa per certa e la conserverà per il resto della sua vita: la sua partecipazione in una formazione o in una orchestra non potrà mai configurarsi con il ruolo di semplice sideman, nel senso tradizionale; non è interessato a fare tappeti più o meno eleganti per gli altri: se lui siede al piano è per contribuire con personalità alla creazione di un suono, trascurando del tutto il riconoscimento pubblico all’evidente talento.
Tecnicamente è padrone di ogni stile (stride, boogie, rag, swing, bebop, classico) e questo lo mette in condizione di scontrarsi, se necessario, con i suoi colleghi di più chiara fama. Una prima volta gli capita con il torrenziale contraltista Earl Bostic, dal quale lo separa soprattutto la concezione del tempo: Jaki crede che Bostic «tiri» troppo indietro e che il suo suono si leghi male con il piano e la ritmica, Bostic è piuttosto indispettito dalle osservazioni ma sa di avere nella band un talento smisurato, che tra l’altro ha scritto per lui Blip Boogie, entrato stabilmente nella scaletta dei live e in grado di valorizzare la musicalità del contraltista, meno a suo agio con i boppers in circolazione. La prima volta che Byard al piano, con provocatoria ruvidità, suona come il leader vorrebbe, viene licenziato; obiettivo al quale inconsciamente lavora da tempo, concentratissimo piuttosto sulla scrittura per big band. Anche per questo, accetta subito l’offerta, nel 1949, di suonare per l’ensemble di Sam Rivers, che lo mette al lavoro sugli arrangiamenti e resta ogni volta pietrificato dall’eleganza e dalla dinamica con cui Jaki fa suonare ogni strumento. L’anno dopo ripete l’esperienza nella Jim Tyler Orchestra; paga bene e viene trattato con ogni riguardo, ma il fascino del bop esercita su di lui un potere smisurato in quegli anni (si mette anche a portare un baschetto à la Dizzy Gillespie) e così, quando gliene offre l’occasione, entra nel gruppo di Charlie Mariano, che dirà di lui: «Ho imparato un mucchio di cose con Jaki. Il suo modo di suonare riporta in vita l’intera, grande storia del piano jazz, da Fats Waller ad Art Tatum fino a Bud Powell. Ma attenzione: lui non ne copia nessuno! Suona sé stesso: semplicemente è consapevole di ciò che c’è stato prima di lui ed è in grado di trovarci la sua strada». Mariano, che un provocatore come Mingus finirà con il liquidare con uno sprezzante «è italiano, si sente» (i genitori sono effettivamente immigrati da Fallo, un paese del chietino giusto al confine tra Abruzzo e Molise), è il primo a individuare in Byard la caratteristica che oggi qualunque musicista o cultore del jazz gli tributa: prendere per intero la storia e le tecniche esistenti, per spingerle dentro un proprio linguaggio affatto nuovo. «Stavamo provando Dear Lord di Coltrane per il mio album «Involution» (Justin Time, 1998)», racconta il sassofonista Michael Marcus, «io ero curioso di cosa sarebbe restato con Jaki di quel suono e lui mi disse chiaramente: impossibile imitarlo, lascia perdere, se lo fai hai già perso. Teneva molto all’originalità, all’essere sé stessi. E registrò un suo assolo stupefacente, poi finito nell’album, di un lirismo e di una potenza che non avevano nulla a che fare con Coltrane, era il “Byard’s sound”, ma c’era dentro il blues quando era appropriato al tipo di armonia».
Nel 1953 Charlie Mariano registra il suo primo album da leader per la Imperial. Byard per l’occasione gli scrive Diane’s Melody, dedicata ad una delle sue figlie, che diventerà uno dei brani più noti e di più largo successo del worcesteriano, che non a caso lo inserì nel suo disco di piano solo, nel 1960, «Blues For Smoke» (Candid, rimasto a lungo inedito), e successivamente lo incise in trio con Elvin Jones e David Izenzon in «Sunshine Of My Soul» per la Prestige, quasi sempre proposto al termine delle sue esecuzioni dal vivo; lo stesso Serge Chaloff vorrà interpretarlo inserendolo nel 1955 nel suo «Boston Blow-Up». In effetti, questo brano contiene in nuce la concezione musicale di Byard: partizione armonica con la sottesa idea formale di una suite, versatilità melodica a esser utilizzata a solo o arrangiata per orchestra, potenzialità improvvisative offerte dalla scrittura e la convinzione che il jazz dovesse raccontare storie sempre nuove, a partire dalle intro. Ben lo ricorda Jason Moran, studente deluxe del nostro: «Jaki amava identificare le songs come storie. Uno dei suoi pallini era saper sempre suonare una introduzione appropriata. Guardava l’orologio e diceva: “Suona una intro per un minuto e poi attacca con la melodia”. Me l’ha spiegato solo in seguito, il suo obiettivo», prosegue Moran. «Voleva che fossi capace di raccontare, attraverso un’introduzione efficace, che cosa avviene prima che inizi la storia. Lui prendeva una cellula dalla composizione e la estendeva per un intero minuto prima di iniziare la melodia. Sembra facile. Mi ci è voluto almeno un decennio per riuscire a farlo; Jaki era interessato alle storie che una singola canzone era in grado di raccontare».
Il legame tra Byard e Mariano si rafforza, nello stesso periodo, anche intorno a un’idea completamente nuova di didattica musicale, entrambi convinti che la sopravvivenza del linguaggio jazz debba necessariamente passare per l’insegnamento alle nuove generazioni. A Boston, dal 1945, è attiva una delle scuola più importanti degli Stati Uniti, la Schillinger House of Music, primo nucleo di quello che diventerà il Berklee College; i programmi sono piuttosto rigidi e propongono un tipo di formazione accademica parallela alla formazione classica, almeno nel metodo. Mariano e Byard hanno un’idea diversa della quale discutono spesso al Melody Lounge prima e dopo i concerti: «serve mettere insieme i musicisti giovani e bravi di Boston, organizzare una scuola, ma non fatta di classi, insegnanti e teoria», spiega Mariano, «ma un laboratorio che offra materiale da suonare ai musicisti, suonare con loro, mostrargli i voicings degli accordi, ascoltarli, fare musica tutto il santo giorno!». È l’inizio del Jazz Workshop. Jaki è entusiasta, pur convinto che alcuni passaggi tecnici vadano illustrati con maggior quadratura, un’idea che si porterà anche nei successivi anni da docente: i suoi allievi ricordano i tremendi esercizi in cui invitava a suonare progressioni semplici (II-V-I o turnarounds) utilizzando solo due dita, pensando al piano come a un vibrafono.
I cinquanta e la grande svolta
A metà degli anni Cinquanta, Byard è probabilmente il pianista più conosciuto e stimato di Boston, musicalmente divisa tra i bianchi sostenitori del dixieland e i neri sperimentatori del bop; lui offre una sintesi credibile, nella sua musica non ci sono più barriere, la musica e i suoi musicisti sono la sua religione (insieme all’islamismo, cui, come molti suoi colleghi neri sulla spinta della NOI, Nation of Islam, si converte con convinzione). C’è un episodio, in quei giorni, che racconta moltissimo della sua personalità così eccentrica al mainstream di mercato: la Blue Note lo vuole mettere sotto contratto con la sua formula standard, prima registrazioni da sideman e poi album da leader. Questo implica però che lui rinunci alla sua ritmica, John Neves al basso e Alan Dawson alla batteria. Jaki non ci sta e schiva l’abboccamento: il suo suono, la sua musica prima di tutto. Un’integrità che tanti intorno a lui fanno fatica a seguire. Racconta sempre Jason Moran: «al termine dei miei studi con lui, ero ansioso di capire cosa avrei dovuto fare per diventare un professionista, un leader. Lui mi ricordò che aveva quarant’anni quando registrò il suo primo album solista e mi disse: “Sii paziente”. Aveva ragione; ho capito che in quel modo stava anche dicendomi: “Tieniti pronto, migliora!”». La musica prima della «gloria», la voce maiuscola che articola la grammatica dell’anima.
Quando si chiede a Enrico Pieranunzi come mai un musicista di quella statura non raggiunse la fama meritata, ecco la risposta: «Byard è il campione di una tradizione, ma è un negletto, un laterale. Certo, è anche una questione di mercato, che è cominciato a muoversi e cambiare nel momento in cui è scomparso. Ma nei suoi anni di attività c’erano in giro personaggi come Paul Bley, Keith Jarrett o Oscar Peterson. Ecco, là dove Peterson era, oltre che un ipertecnico e virtuoso, un uomo di spettacolo, con i suoi papillon, gli smoking di raso, Jaki era l’antispettacolare per eccellenza, suonava per cercare una sua musica, non per compiacere l’ascoltatore come capitava di fare, con tutto l’affetto, al primo. Se penso a quando lo sentii all’Angry Squire! Era tutto scuro e buio, il posto piccolo, la sala vuota, il barman annoiato, pareva un quadro di Hopper! Eppure lui sfoggiava una creatività incredibile.». Non è un caso che, alle etichette di grido, Jaki preferisce chi gli garantisca libertà espressiva: «Considera», ricorda Pieranunzi, «che era molto felice della collaborazione con la Soul Note di Giovanni Bonandrini, per la quale avevo registrato anche io, e da lì sono arrivati due dischi splendidi».
Jaki fa quello che consiglierà a Moran: è paziente. Poi, tra il 1959 e il 1963 gli accade (musicalmente) di tutto, sono anni cruciali, che finiranno per completare il suo percorso artistico e disegnare una nuova forma espressiva al jazz. Durante questi quattro anni, lavora con l’orchestra di Maynard Ferguson (che nel 1959 DownBeat premierà con l’International Critics’ Poll), ma dal direttore lo separano anni luce, in cui, per parafrasare Montale, definisce quello che non è e quello che non vuole. Come arrangiatore è sempre più concentrato a trovare nuove segnature ritmiche, soluzioni armoniche e sottostrutture inusuali, spezzare la routine tema-solo attraverso schemi completamente nuovi: non è quello che vuole Ferguson, che tuttavia riconoscerà: «Era una gioia averlo nella band; amavo il suo modo di scrivere e certamente era avanti rispetto ai tempi su questo». Byard è un filo meno gentile: «Non facevamo musica, ammazzavamo il silenzio». Certamente avrà influito sull’insofferenza l’incontro, esplosivo per affinità culturali e di prospettiva, con Eric Dolphy, con il quale registra, nel 1960, «Outward Bound», insieme ai giovani Freddie Hubbard, Roy Haynes e George Tucker al contrabbasso. Giocano sulle dissonanze, le crepature melodiche e le inversioni armoniche, ma quel divertimento puro – considerata l’avanzata impetuosa del free – diventerà la nuova grammatica del suono afroamericano: «era davvero avanti sui tempi; un gentiluomo pronto a imparare da chiunque, davvero un tipo in gamba, non ho conosciuto nessuno ancora così innovativo, suonare con lui è fantastico», dirà Jaki di Eric, con il quale continuerà ad incrociare il destino al fianco di Mingus. E sempre grazie al nuovo compagno di strada arriva, finalmente, a trentotto anni, a registrare il suo primo album come leader: «Blues For Smoke», per la Candid. Rimasto inedito fino al 1971 (e, fuori dal Giappone, fino al 1988), il disco riceverà negli anni Novanta l’attenzione massima dei musicisti, stupiti dall’atmosfera di schietta avanguardia mescolata a sonorità pre-bop, un impasto di radici e libertà dove si alterna lo stride alle acciaccature espressionistiche. C’è molto poco di free, a ben guardare, se all’aggettivo si ricollega l’esperienza più o meno coeva di Ornette Coleman, sul quale Byard sospende, per così dire, il giudizio: «La mia ispirazione viene dagli anni Venti, dalle partiture di Stravinsky e di Bartók e dalle loro soluzioni armoniche. Ora, so bene che Ornette Coleman viene considerato un innovatore e commercialmente lo sarà pure, ma per me quel titolo spetta a Dizzy Gillespie e Charlie Parker: il resto c’era già». La ciliegina sulla torta arriva nel celebre concerto alla Town Hall. Per la prima volta Byard è al fianco di Mingus. I due parlano la stessa lingua, iniziano a stimarsi: Jaki ha definitivamente tagliato i ponti con chiunque continui a parlare di lui come un virtuoso imitatore, l’occhio è fisso sulla palla del futuro, del jazz che ha in mente, per realizzare il quale non è disposto a nessuna trattativa al ribasso (la stessa Prestige, pur lieta di averlo messo sotto contratto, inizia ben presto a notare il mancato ritorno in termini di vendita e l’eccesso di sperimentazioni in pianoforte solo: belle, certo, ma poco spendibili sul mercato).
Non c’è mai sprezzo nella sua musica, integrità piuttosto, il carattere naturalmente spiritoso si flette in concentrazione: «Aveva un gran senso dell’humor», racconta a Musica Jazz Chet Williamson, «ma non era un clown. Poteva, e spesso accadeva, diventare anche serio fino alla morte». È sulla stessa linea Moran: «Era certamente un uomo divertente, per quanto i miei ricordi siano legati a lui solo come insegnante, ma poteva essere davvero tranchant quando qualcosa a suo giudizio suonava male».
(Anche con) Mingus
È con questo approccio che va letta la sua decennale collaborazione con Mingus, che solo superficialmente potrebbe sembrare riassumere la sua esperienza artistica, per un difetto ottico nel racconto della storia «maggiore» della musica. Per Jaki lavorare col Barone è un’occasione importante, ma ciò non lo distoglie dagli altri suoi fronti di lavoro, a partire dalla scrittura di brani e arrangiamenti. Se del carattere tempestoso, contraddittorio e spesso violento di Mingus è stato pressoché detto tutto, è necessario trattare il rapporto tra i due come un confronto tra pesi massimi, nessuno dei quali – musicalmente – in grado di prevalere sull’altro e dannatamente orientati alla stessa visione su quello che il jazz e la musica dovessero essere. Il potentissimo mix tra sintonia e cocciutaggine non poteva che produrre momenti di bellezza miliari e scontri sul piano personale, con il sostrato di una stima reciproca assoluta. «Jaki è stato troppo, troppo sottostimato», diceva Mingus, «conosce la storia della musica, può suonare la storia del piano: i vecchi tempi, il presente e l’avanguardia. Un musicista coi fiocchi». Anche le parole di Jason Moran vanno nel senso di questa ricostruzione: «Sai, Byard qualche volta condivideva aneddoti sul suo rapporto complicato con Mingus. Ma quest’ultimo amava Jaki per il suo dominio tecnico di tutta la tradizione pianistica. È lui che ha contribuito in modo determinante ad alcune idee sulle orchestrazioni per i lavori di maggior respiro, come Epitaph. Ma Jaki e Mingus erano davvero troppo simili. Poi non bisogna dimenticare che Mingus era anche un gran buon pianista, quindi era particolarmente esigente su questo fronte: aveva bisogno di un pianista che avesse più idee di lui e Jaki era perfetto, calzava a pennello». Ecco, anche perché, come si diceva all’inizio, il credito col nome in copertina a «Portrait» testimonia quanto il pianista fosse parte attiva di quel processo creativo mingusiano: «Byard non era un accompagnatore», sottolinea ancora Pieranunzi, «ma contribuiva al suono del gruppo in modo fondamentale; detta diversamente, non ci poteva essere nessuno altro fuorché lui, e questo era quello che voleva Mingus dai suoi musicisti. Basta pensare che qualhe tempo dopo Byard arrivò Don Pullen, che i tasti li sradicava dall’intensità che vi metteva, roba che Jaki al confronto sembrava un musicista rinascimentale». La collaborazione fissa tra Mingus e Byard dura un decennio, tra il 1960 e il 1969, poi i due si ritroveranno saltuariamente on stage, ma in quel periodo così fecondo escono fuori diamanti come «Mingus, Mingus, Mingus, Mingus, Mingus» o «The Black Saint And The Sinner Lady» (che poi, nelle note di copertina, Mingus scriva di sé in terza persona e si lamenti pubblicamente del mondo di suonare di Jaki nell’album – arpeggi inutilmente pirotecnici, catene di terze, gruppetti di quinte e nessuna invenzione – è faccenda che oscilla tra la psicosi, il surreale e il comico). Byard le sue rivincite se le prende sul campo, scrivendo arrangiamenti che spesso deve spiegare a Mingus per la loro maniacale precisione e difficoltà, lasciando a bocca aperta lo stesso leader Oslo che a Oslo lo lo applaude a scena aperta dopo un assolo su Pithecanthropus Erectus. Al pianista non piacciono le violenze e gli eccessi di quell’omone, ma non ne ha alcuna paura: una volta che nel backstage Charles prende un’ascia per tirarla a un suo musicista, Byard lo ferma imbracciando un estintore: «OK, andiamo a suonare un po’ di blues», risponde docile Mingus posando l’attrezzo. Nel mentre, come si diceva, il pianista è sempre più ricercato, uno degli interventi più apprezzati è quello con l’amico Sam Rivers che, nel 1964, pubblica per la Blue Note «Fuchsia Swing Song», con brani originali di Jaki, considerato tra le cose migliori prodotte dall’etichetta in quel periodo insieme a lavori di Jackie McLean, Eric Dolphy, Tony Williams e Andrew Hill. L’anno dopo consolida il lavoro con Roland Kirk, col quale registra «Rip, Rig and Panic», al fianco di Richard Davis ed Elvin Jones. Jaki Byard è l’uomo, quando il jazz ha bisogno di testimoniare la propria vitalità proiettata al futuro; lo sanno tutti, i turni si decuplicano, registra per la Prestige i suoi album e, sì, lavora anche con Mingus, quando capita.
A proposito di Prestige, gli anni che vanno dal 1964 al 1969 sono per Jaki una miniera di possibilità, gli lasciano sostanzialmente carta bianca e in questo periodo arriva a registrare dieci album, tra i quali perle come «Sunshine Of My Soul» (che molti, a partire da Michael Marcus, considerano il suo migliore), «The Jaki Byard Experience», «Here’s Jaki» o «Jaki Byard With Strings!», dove rovescia lo stereotipo del solista costretto per ragioni di mercato a inzuccherare il repertorio e sfodera uno dei massimi esempi di virtuosismo scrittorio (compresa quella Cat’s Cradle Conference Rag dove, a partire dalla stessa base armonica, fa suonare ad ogni strumento un diverso tema della tradizione, con imperdibili effetti comici e surreali). L’ultima collaborazione con l’etichetta fondata da Bob Weinstock è con «Piano Solo», un disco denso e spesso complicato che, appunto, segna la fine di quell’esperienza, divenuta attività in perdita per il mercato sempre più attento ai gusti commerciali del pubblico. Quell’ultimo anno del decennio, però, segna anche l’ingresso dalla porta principale, per Byard, di un Conservatorio, istituzionalizzando (finalmente) la sua irresistibile vocazione alla trasmissione inter-generazionale delle tecniche e degli stilemi del jazz.
il Professor Byard e gli Apollo Stompers
Da un paio d’anni, Gunther Schuller è stato nominato presidente del New England Conservatory (carica che conserverà per dieci anni fino al 1977), eforte del prestigio internazionale riconosciutogli non fa molta fatica a istituire nel 1969 l’Afro-American Music Department. È un avvenimento storico: il NEC è la prima accademia riconosciuta a rilasciare una laurea in jazz, equivalente al diploma classico. Schuller ha, però, bisogno di nomi di grido, gente che riesca ad attrarre studenti e promuovere il buon nome dei programmi di studio che lui ha solo abbozzato; a breve distanza, convoca George Russell, il pianista Ran Blake e, soprattutto Jaki Byard, poco spendibile discograficamente, ma conosciutissimo e venerato dai giovani leoni della tastiera. È un colpaccio per entrambi, gli viene affidata una cattedra e due insegnamenti: principi di improvvisazione e arrangiamento, obiettivamente il suo core business. Per Jaki si assemblano una serie di vantaggi: smarcarsi dal crepuscolo dell’autodidatta, garantirsi uno stipendio fisso e piuttosto allettante, immergersi completamente nella musica. Questo soprattutto, libero di scrivere i programmi, insegnare le tecniche, costruire arrangiamenti, creare gruppi con i migliori per affinare la pratica d’insieme. Il Professor, come non disprezza esser chiamato, diventa il miraggio di molti musicisti, effettua audizioni rigorosissime, non è semplice entrare nelle sue classi. Fred Hersch è uno dei primi a volerlo come insegnante, e lo racconta diffusamente e con grande affetto nella sua coraggiosa biografia (Good Things Happen Slowly: A Life In And Out Of Jazz, 2017): «Decisi di avere informazioni sui programmi di Byard, che era descritto come unico al mondo – e in effetti si trattava di entrare in un’élite che rilasciava una laurea in jazz –, così decisi di fare 700 miglia per andare da Cincinnati a Boston. Arrivato lì, gli dissi balbettando», racconta Hersch, «Mister Byard, adoro come suona, vorrei iscrivermi e studiare con lei. Lui mi guarda con attenzione e fa: “Penso di avere quindici minuti, siediti e fammi sentire”. Suonai un paio di pezzi e lui non disse nulla tranne: “OK, preso”». Un altro studente di pasta fine è Jason Moran, anche lui disposto a fare tutte le miglia necessarie per arrivare a Jaki, con il quale passerà quattro anni che racconta ancora come fondamentali. «Partiamo dal fatto che già dalla scuola superiore mi ero innamorato del suono della band di Mingus, che aveva un senso spiccato per la composizione, la libertà e l’elasticità. Jaki era il pianista in quella band e raccontava tutta la storia del jazz nel suo modo di suonare. La cosa che mi lasciava di stucco era quel passare continuo tra piano free e stride, pareva avere l’intero canone del pianismo black: volevo imparare quello! Come studente», racconta ancora a Musica Jazz, «aveva un’idea chiarissima di cosa voleva che io imparassi a fare, tecnicamente e umanamente. Lui viene dalla tradizione pianistica di Teddy Wilson e Art Tatum e voleva che entrambe le mani fossero molto agili; io ancora oggi ai miei studenti ripropongo esercizi di riscaldamento di Jaki per l’apertura delle mani a intervalli sempre maggiori. Alla fine, ho studiato con lui per quattro anni, ogni lunedì; col passare del tempo, i suoi discorsi viaggiavano dalla musica alla vita, alla sua famiglia. Era un uomo delizioso e lo puoi ascoltare in modo evidente nella sua Family Suite, lì c’è tutto («Family Man», Muse 1979). Voglio ribadire questo: non avrei potuto avere un insegnante migliore; amava la musica e amava condividerla».
Gli anni di insegnamento al NEC diventano per Byard anche l’occasione per mettere su una big band, formata dai migliori tra gli studenti del College, con una rotazione che desse al più ampio numero possibile di suonare live. Nascono così gli Apollo Stompers, che diventano una delle migliori orchestre di jazz di quegli anni, con un repertorio di brani spesso originali e arrangiati direttamente da Byard; suonano ogni mercoledì sera al Michael’s Pub a Gainsborough Sreet, poi le richieste si moltiplicano e la band diventa un laboratorio musicale dal quale usciranno grandi nomi. È sempre Moran a raccontare: «Gli Apollo erano una big band pazzesca; Jaki spiegava le idee al piano, perché la tastiera tra le sue mani diventava davvero come un’orchestra. C’era una grande attenzione ai registri, alle dinamiche, al tipo di tocco. Lui amava Ellington e Monk, due che vengono dalla scuola ritmica del pianismo, quindi traduceva quel modo di suonare in stacchi e complesse annotazioni: e allora le note diventavano un’architettura, segnavano la nascita di una metropoli di suoni». E a proposito di Monk e delle affinità con Byard, Michael Marcus sottolinea: «Come Thelonious, Jaki era estremamente avanzato nelle sue concezioni armoniche e ritmiche, così come pure condividono una tecnica strumentale fenomenale, per raccontare la loro storia. D’altronde, quando nei primi Settanta erano in tour i Giants of Jazz (Gillespie, Stitt, Winding, McKibbon, Blakey e Monk), indovina chi indicò Monk, che non stava bene, per essere sostituito? Ma ovviamente Jaki! C’era una straordinaria stima reciproca tra i due». Nell’ultimo ventennio della propria attività, Byard è un musicista complessivamente realizzato, non ha alcun sassolino nelle scarpe da levarsi e anche la faccenda della mancata notorietà tra i «grandi» non sembra pesargli affatto. Resta un punto di riferimento per tutta la scena jazz, che gli tributa un rispetto quasi religioso, scrive, suona (compare in moltissimi album, che elencare sarebbe un esercizio immane), insegna e riesce a stare vicino alla sua famiglia.
A family man
Non è un fatto secondario quest’ultimo, nella biografia di Jaki, e anzi rivela un altro angolo del poliedro di una scelta orientata alla stabilità. È legatissimo alla moglie Louise, bianca di origini italiane, unendosi alla quale sfida un significativo numero di pregiudizi verso le famiglie interrazziali, gli piace seguire la crescita delle due figlie e di un figlio, poi dei quattro nipoti e, alla fine, anche di sei bisnipoti. Avere una vita regolare di insegnamento in Conservatorio, trasferitosi al numero 194-54 di Hollis Avenue nel Quens (si ritrova come vicini di casa Milt Jackson e Roy Haynes), lo aiuta a non avere pensieri sul fronte economico: «La prima cosa è la sopravvivenza, avere soldi, lavoriamo per questo e non bisogna dimenticarlo», racconta lui stesso in Anything For Jazz, un documentario che Dan Algrant gli dedica nel 1980. È proprio in quella preziosa documentazione video, che lo si può vedere dirigere con entusiasmo i suoi Apollo Stompers, dedicarsi con amore alla sua famiglia (con un’incantevole passeggiata sulla spiaggia, scolorita dal tempo). Bill Evans, intervistato per l’occasione (sofferente e a poche settimane dalla sua morte), racconta di non avere altre spiegazioni alla sua mancata notorietà internazionale di Byard se non per scelte di natura personale, legate al carattere. Fondamentalmente sembra fare centro, anche perché se c’è una cosa che il Professor detesta è la «competizione» tra musicisti – lo racconta ad Algrant –, qualcosa di molto potente e molto dannoso, un fattore umano lo allontana da quell’idea di perenne confronto con i suoi colleghi, lui vuole suonare e insegnare, ecco tutto. Il documentario segue di qualche mese, e in qualche modo ne è il migliore spot, un album intenso, amato da Moran, e straordinariamente foriero di nuove idee: il già citato «Family Man». È il suo modo di ringraziare ogni membro della famiglia, anche la suocera con Gaeta (ci tiene molto a dirlo in ogni concerto),di ricostruire e raccontare la sua vita nell’unico modo che conosce: la musica. Nell’album è presente una sorta di incanto naturalistico delle composizioni, che testimonia quanto Jaki possa tirare fuori idee da fatti minuti. Jason Moran lo ricorda bene: «Era un artista in ogni senso. Per ogni tipo di musica che portava a lezione avrebbe disegnato la copertina. Qualche volta era un segno grafico, altre un panorama o un disegno. Diceva sempre che come musicista avrei dovuto guardare quello che mi succedeva intorno: una volta, a metà lezione, il sole brillò forte attraverso le finestre, Jaki lo guardò e disse: “Dai, suoniamo On A Clear Day!”. Altre volte parlava della sua vita durante la Seconda guerra mondiale e pareva quasi di poterlo ascoltare, quel suono». Non suona strano, dunque, che la sua forma compositiva eletta fosse la suite come quella dedicata alla sua famiglia, nella quale sceglie un’impronta soffusamente ellingtoniana. La conoscenza approfondita della musica del Duca arriva, in effetti, piuttosto tardi, ma diventa un amore forte e autentico, anche perché coincidente con quella che Byard stesso considerò come la punta di diamante della propria carriera. «Nel 1973, l’Università di Harvard, dove teneva spesso lezioni e conferenze», scrive Chet Williamson, «gli conferì il prestigioso Duke Ellington Fellowship Award. L’anno successivo ricevette la chiamata della vita. Gli fu chiesto di sostituire Ellington, le cui condizioni di salute stavano peggiorando, nella sua orchestra», con la quale registrò, riarrangiandoli parzialmente, alcuni dei capolavori eseguiti live dal Duca: Solitude, Lush Life, Caravan, Mood Indigo, Satin Doll.
Nell’ultimo decennio di vita Jaki inizia ad apparire stanco. Il suo pianismo diventa più introspettivo e meno funambolico, e lui passa molto del suo tempo nella casa di Hollis a dipingere e incidere (una sua grande passione è l’illustrazione dei suoi arrangiamenti come fossero codici medioevali miniati). Nel 1994 la morte di Louise, moglie e compagna di una vita, lo piega in un dolore silenzioso e mai esibito. I concerti si rarefanno e le offerte sono selezionate con particolare attenzione. Anche gli ultimi anni, dunque, non rispondono al cliché del declino dopo la gloria (mai cercata e venuta), ma alla scelta consapevole di aver dato alla musica sessant’anni delle proprie idee ed energie creative, di aver attraversato senza mai una macchia curricolare o una deriva di compromesso i decenni in cui il jazz aveva cambiato e ricambiato pelle cento volte.
il ricordo di Michael Marcus
Resta, però, in lui la voglia di partecipare a nuovi progetti, a ricevere e dare stimoli ai suoni dei musicisti più giovani che si stanno facendo strada, d’altro canto vuole continuare ad insegnare e tra il 1989 e il 1999 è tra i docenti della Manhattan School Of Music, ben più vicina a Hollis del NEC, nonostante l’affetto per quest’ultimo. L’ultimo a registrare e a girare in tour con Byard è il sassofonista newyorchese Michael Marcus, oggi settantenne, che considera i due album con il Professor tra i punti più alti della propria carriera ,dischi incisi in anni che ricorda con immensa gratitudine e affetto: «Lavoravo con Jim West della Justin Time e avevo del nuovo materiale, che però richiedeva una conoscenza vasta e matura per il tipo di musica che scrivevo al tempo (ero molto influenzato dal linguaggio di Eric Dolphy, tra l’altro). Il sassofonista Tim Price mi suggerì di provare a chiedere a Byard e, considerato che equivaleva per me a chiedere alla storia del jazz in persona, ne fui entusiasta ed intimidito, sperando che accettasse. Fu cristallino nella risposta: non mi conosceva e, prima di parlare di soldi, chiese di avere le parti e di sentirmi suonare. Gli piacque la mia musica e l’unica richiesta che mi fece fu di fare le prove a casa sua, una volta la settimana. Provammo un paio di mesi, prima di registrare dal vivo il mio «This Happening». Fu un’occasione straordinaria, perché nelle pause mi raccontò storie di Mingus, Earl Hines, Bird, Coltrane, Dizzy, Monk, Dolphy, Rivers… Potrei continuare!». Byard dimostra di avere un grande rispetto per il talento di Marcus, che sottolinea la delicatezza e la grazia con cui il pianista si accostò alle sue composizioni: «la musica originale ha sempre bisogno di un musicista con una mentalità aperta, capace di interpretare adeguatamente. Jaki non solo non ebbe alcun problema a farlo, ma contribuì con un mucchio di grandi idee; i suoi voicings al piano erano molto, ma molto più sofisticati di quelli che avevo pensato, davverò impresse nuova vita alle armonie esistenti, dando un contributo enorme ai miei due album con lui. Non ho mai avuto uno screzio, mai un problema, anche quando abbiamo girato in tour per il Nord America: suonarci la sera era una sfida continua. Considera che la mia musica non è ortodossa e quindi può condurre a lidi imprevisti a volte, come una macchina che prende la svolta sbagliata. Ma la sua presenza garantiva un grandissimo divertimento, suonava sempre con concezione orchestrale e robusta solidità!». Inutile chiedere a Marcus perché, a suo giudizio, Byard non è entrato nell’inner circle della storia: «Lui era e resta una jazz star!», sbotta, sorpreso dalla domanda, «Chiedi a chiunque si occupi di questa musica o ai musicisti: non troverai nessuno che non sia d’accordo sul fatto che lui fosse nell’élite. Jaki ha abbellito questo pianeta con l’amore e la conoscenza, ha contribuito a pulire il mondo con la bellezza, l’anima e la creatività musicale, per sempre!». L’ultimo album insieme, «Involution», esce nel 1998 e il manager di Marcus organizza per i due un tour europeo, che però non avverrà mai.
Un assurdo cold case
Alle undici di sera dell’11 febbraio del 1999, nel Queens, a New York, la temperatura segna un paio di gradi sopra lo zero, stando ai bollettini del tempo. Le strade sono ghiacciate, dopo che per quasi due giorni ininterrotti ha nevicato. Meglio restare a casa, dicono alla radio e alla tv. Il giorno dopo il New York Times apre a tutta pagina con l’assoluzione di Bill Clinton dall’impeachment, che si scusa con i cittadini americani. Bisogna scorrere un bel po’ di pagine per arrivare ad un articolo a firma Andrew Jacobs: l’artista jazz Jaki Byard è morto per una ferita da arma da fuoco. È un fatto incredibile, fuori da ogni previsione. Il portavoce del Dipartimento di Polizia, Joseph Pentangelo, oggi in pensione, dichiara che non è stata trovata alcuna pistola e che gli investigatori non hanno motivo di credere ad un omicidio. Non ci sono segni di furto, scasso o lotta. Quello che si sta cercando di suggerire ai cronisti è che, verosimilmente, si è trattato di un suicidio. Jacobs, che tre anni dopo vincerà il Pulitzer con un gruppo di colleghi per i servizi sull’11 settembre, ancora oggi – raggiunto al telefono – preferisce parlare di «omicidio», pur ricordando poco di quei fatti così lontani nel tempo. Indagini successive acclareranno, con lampanti perizie balistiche, che non si sarebbe potuto parlare di suicidio per il tipo di traiettoria del proiettile e per l’assenza dell’arma. Viene fermato e subito rilasciato uno sbandato, i pettegolezzi si inseguono, ma nessuno accenna a «ombre» nella vita di quell’eccentrico musicista; quel che si può tratteggiare è che Byard abbia aperto la porta al proprio assassino, a casa con lui ci sono le due figlie che dicono alla polizia di non aver sentito lo sparo né clangori di effrazione.
La morte di Byard finisce tra i cold cases su scrivanie impolverate e dopo vent’anni resta aperto senza un responsabile. Fred Hersch ricorda di essere rimasto particolarmente scosso, anche per ragioni personali, da questa uccisione: «la storia del jazz è piena di storie con morti assurde, ma quella di Jaki ha avuto una risonanza particolare in me, in parte per la sua influenza nella mia formazione e in parte perché in quegli anni riflettevo molto sulla fragilità della vita umana. Con lui avevo perso i contatti, ma nel frattempo stavo raccogliendo un certo successo come pianista jazz. Mi sarebbe piaciuto avere l’occasione per fargli sentire cosa era stato dei suoi insegnamenti, ma credo che probabilmente lo sapesse.» Chet Williamson, il cui amore per Byard non ha solo ragioni di campanile worcesteriano, ma affonda in una stima profonda per l’uomo e il musicista, non se ne fa una ragione e lo conferma ancora oggi: «Nessuno si merita un destino come quello, soprattutto uno come lui. La mia speranza è che si tenga attesa la torcia, che vengano scritti libri e articoli sulla sua vita, in modo da spingere in qualche modo gli investigatori a riaprire quel fascicolo.»
A Hollis, intanto, non è rimasto più nessuno della famiglia di Jaki Byard. La casa è da tempo alla ricerca di un acquirente, l’annuncio dice che è stata costruita negli anni Venti e che è il luogo perfetto per realizzare i propri sogni. Se la storia conta, qualcuno ci riuscirà.