1964: Miles Davis a JazzMi, venerdì 11 ottobre

In occasione del festival milanese, una giornata dedicata al leggendario concerto del 1964 di Miles Davis, tra parole, musica e immagini

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L’11 ottobre 1964 al Teatro dell’Arte di Milano si esibirono in quintetto, in un concerto memorabile, Miles Davis, Wayne Shorter, Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams. Molti di coloro che acquistarono il biglietto per assistere a quella serata non sapevano che avrebbero assistito a un evento destinato a restare nella storia. Era il primo show europeo (e forse la prima grande esibizione in assoluto) di quello che stava per diventare uno dei gruppi più influenti del jazz di tutti i tempi. La band di Milano era nata qualche mese prima, ma il suo nucleo esisteva già da un anno con una straordinaria base ritmica che vedeva Herbie Hancock al pianoforte, Ron Carter al contrabbasso e Tony Williams alla batteria. Al sassofono inizialmente c’era George Coleman, poi sostituito da Sam Rivers, il quale lasciò infine spazio a Wayne Shorter. L’ingresso di Shorter fu determinante per l’affermazione internazionale della band, anche se da tempo Davis aveva raggiunto una popolarità che oltrepassava i confini del jazz: ma quel tour europeo (che iniziò proprio con il concerto di Milano) e la successiva tournée giapponese la fecero ulteriormente lievitare.

Miles Davis © Fabio Mantica

Tutto questo già si respirava quell’11 ottobre del 1964 al Teatro dell’Arte a Milano, ma nessuno dei presenti poteva sapere quanto, negli anni a seguire, sarebbe diventato importante quel concerto: importante al punto che l’edizione 2024 di JAZZMI ha deciso di dedicargli una giornata all’interno del cartellone del festival. Venerdì 11 ottobre, quindi, presso lo stesso Teatro dell’Arte, in Via Emilio Alemagna 6, Milano, il concerto, intitolato «Birth of the Quintet», sarà proiettato per ben tre volte, alle 16,00, alle 18,30 e alle 21,30. Ogni proiezione sarà preceduta da un incontro moderato da Luciano Linzi (il direttore artistico di JAZZMI) e da Luca Conti (direttore di Musica Jazz) cui parteciperanno il giornalista Ashley Kahn, i musicologi Stefano Zenni e Luca Bragaglini, il fotografo Roberto Polillo (figlio di Arrigo, lo storico direttore di Musica Jazz che fu uno degli organizzatori di quel concerto), i musicisti Enrico Rava, Enrico Intra, Claudio Fasoli. Saranno presenti anche Vince Wilburn Jr (66 anni, il nipote di Miles Davis con cui ha suonato nel periodo compreso tra il 1980 e il 1986, attualmente leader della Miles Electric Band la cui musica si rifà al periodo elettrico del celebre zio) e Erin Davis (il figlio cinquantaquattrenne del trombettista). Entrambi batteristi e percussionisti, sono i supervisori della Miles Davis Estate e gestiscono – assieme a Cheryl Davis (sorella di Erin e cugina di Vince) – la Miles Davis Properties. Li abbiamo intervistati, e questo è un estratto di quanto ci siamo detti. L’intervista completa apparirà sul numero di novembre di Musica Jazz.

In tutti i libri di storia del jazz c’è scritto che Miles Davis era un tipo burbero e aveva un brutto carattere. Era davvero così oppure la verità è un’altra? Che ricordo avete di lui?

[ridono entrambi] Erin Davis: Non era scorbutico. Era molto esigente. Questo sì. Pretendeva molto da quelli che gli stavano intorno, soprattutto dai musicisti che lavoravano con lui. Era un uomo molto elegante e raffinato.

Vince Wilburn: Gli importava solo della musica. Poteva sembrare una persona burbera, in realtà cercava solo di tirare fuori il meglio dai musicisti di cui si circondava. Esigente, come ha detto Erin. Senza il minimo dubbio.

Erin, dev’essere piuttosto complicato per un musicista essere il figlio di Miles Davis. Questo ha facilitato la tua carriera o te l’ha resa più difficile?

E.D.: Non me l’ha resa per niente difficile. Anzi, mi ha reso la vita molto più semplice. Ricordo che ebbi la mia prima audizione grazie al fatto di essere suo figlio. Quindi so bene di aver avuto un canale preferenziale. Cercavano musicisti giovani. Allora lo ero. E per me fu semplice superare quell’audizione. In seguito Miles mi chiese di entrare a far parte del suo gruppo e, come potrai immaginare, questo mi ha aiutato moltissimo, anche perché non potevo far altro che adeguarmi a quel livello di professionalità e di intensità musicale. Soprattutto ho imparato a capire cosa ci aspetta da un musicista quando suona a quei livelli. Io mi sento molto fortunato: ho scelto di fare il musicista ed ero suo figlio.

Hai mai avvertito qualche pressione nello sviluppo della tua carriera professionale per il fatto di essere il figlio di Miles?

E.D.: L’unica pressione che ho avvertito derivava proprio dal fatto che suonavo nel suo gruppo. Ed è stata la pressione più forte che ho provato nella mia vita di musicista finora. Cercare di non deluderlo è stato il massimo della pressione su di me. Dopo quell’ esperienza tutto quello che è venuto dopo, suonare con altri musicisti, per me, è stato molto più semplice, una passeggiata direi.

Il prossimo venerdì a Milano, al Teatro dell’Arte, sarà proiettato il documentario del concerto del secondo quintetto di Miles nel 1964. A distanza esatta di sessant’anni da quell’evento, c’è grande attesa. Qual è secondo voi l’importanza che ancora oggi riveste quel concerto?

V W: Dopo sessant’anni la musica di Miles continua ad avere una forte influenza sulle persone. In tutto il mondo. Miles aveva una forte passione per l’Europa e per lui quel concerto rappresentava la porta d’ingresso per poter presentare quei musicisti e quella musica al pubblico europeo. E per me è davvero affascinante il fatto che dopo sessant’anni la sua musica continui a coinvolgere la gente. Questo anniversario rappresenta molto per tutti noi, soprattutto per me e per Erin che siamo stati testimoni di quello che rappresentava la sua musica. Sul palco e fuori dal palco poiché abbiamo fatto parte dei suoi gruppi e oggi siamo proprietari della sua musica da oltre trent’anni.

E.D.: Sono d’accordo con quello che ha detto Vincent, anche se penso che la cosa più importante di quel concerto sia stato l’orgoglio con il quale mio padre mostrava in giro quel gruppo, quei musicisti. Ci teneva molto a quel gruppo. Credo che quel quintetto sia stato quello che lo ha reso maggiormente orgoglioso in tutta la sua vita artistica. Far rivedere quel concerto nello stesso teatro in cui sessant’anni fa avvenne quella magica performance e sapere che Ron Carter e Herbie Hancock sono ancora in attività – purtroppo Tony Williams e Wayne Shorter non ci sono più – è una scelta davvero azzeccata. Quella fu un’esperienza meravigliosa.

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