«Virtous Circle Of Miles Davis», Daniele Malvisi

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Si chiama «Virtuous Circle Of Miles Davis» il nuovo lavoro discografico (pubblicato dall’Alfa Music) di Daniele Malvisi, sassofonista e compositore toscano. Ne parliamo con lui.

Daniele, in tantissimi sono rimasti folgorati da Miles Davis. Il tuo incontro con la sua musica come e quando è avvenuto?

Conoscevo l’opera di Miles Davis già in tenera età, ma è stato indubbiamente grazie all’ascolto di album come «Decoy» e «Tutu», che mi sono addentrato nel modo davisiano. Grazie a questi album ho potuto scoprire a ritroso tutto il suo percorso ed è in questa seconda fase che sono rimasto folgorato dalla grandezza di questo musicista.

«Virtuous Circle Of Miles Davis» arriva dopo una lunga gestazione?

Se per gestazione si intende il desiderio di lavorare sulla sua musica, indubbiamente la gestazione è stata lunga in quanto questa idea me la porto dietro dalla mia adolescenza, ma dal punto di vista della scrittura musicale il tutto si è svolto con una certa rapidità. Credo di aver scritto gli arrangiamenti in poco più di due mesi.

Perché hai scelto questo titolo? Qual è il circolo virtuoso di Miles?

La musica di Miles, o meglio certe sue intuizioni, l’idea di suono della band, certe tecniche di direction, ma anche l’idea di gruppo che Miles ha sempre avuto, sono delle costanti del mio essere musicista. Ecco perché l’idea del circolo virtuoso, in realtà molte delle sue idee tornano ogni giorno, rinnovandosi, nel mio modo di fare musica, anche quando la musica che faccio non è la sua.

Erano altri tempi, ma Miles era conosciuto un po’ da tutti: anche da insospettabili incappucciati e con il distintivo…

Questa è proprio una bella storia. Eravamo molto giovani e alla fine di una prova ci eravamo trattenuti in auto ad ascoltare «Tutu» a tutto volume. Era notte fonda e i vetri erano appannati quando alcuni poliziotti in borghese bussano al finestrino e con le pistole spianate ci intimarono di scendere. Ci avevano scambiato per qualcun altro e non successe niente , ma fu davvero incredibile che il poliziotto che ci controllava i documenti conosceva la musica di Miles. Questa cosa mi colpì moltissimo, toccare con mano la trasversalità della sua musica fu davvero incredibile.

Cosa ha cambiato Miles nella tua visione della musica?

Credo che mi abbia insegnato a guardare la musica a 360° senza distinzioni preconcette.

Il tuo è un progetto forte, roccioso. Cosa di Miles ti ha ispirato verso questa via?

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Fondamentalmente il suo modo di cambiare sempre le carte in tavola e la sua idea di groove, il suo modo di far succedere le cose e di tentare sempre di essere comunicativi e quindi di sfruttare la personalità del musicista singolo per un idea comune.

Un omaggio a Miles Davis dove non c’è la tromba. Una scelta difficile o una via di fuga per semplificare il lavoro?

Nessuna delle due, è stato tutto molto semplice. Sostanzialmente il lavoro è uscito così in modo molto naturale. Solo a cose fatte ho notato che non avevo pensato a inserire un trombettista.

Quali sono le linee fondamentali di questo lavoro e quali le assonanze con Miles? E come pensi che Miles avrebbe accolto il tuo lavoro?

Difficile da dire, di sicuro è un lavoro genuino e dominato da una sincera affettività per l’arte di Miles, ovviamente qui è filtrata dalla mia sensibilità e non riesco proprio a immaginare se Miles avrebbe gradito o meno il mio lavoro, ma di sicuro non lo avrebbe detto.

Quale linea hai seguito nella fase dell’arrangiamento e perché hai scelto proprio questi otto brani per il tuo disco?

I brani in realtà erano di più, poi ho finito per scegliere questi, perché più degli altri erano fedeli all’idea musicale che avevo in mente. In genere lascio che le idee emergano in modo inconscio, quando succede le canto a voce e mi registro sul momento  usando il cellulare. In un secondo momento trascrivo queste piccole intuizioni su pentagramma e inizio a immaginare mentalmente il suono del brano. Quando quest’ultima parte inizia a prendere forma e a consolidarsi, cerco di scrivere gli arrangiamenti rincorrendo l’immagine sonora che mi sono costruito e con l’aiuto del pianoforte e del computer inizio a buttare giù dei canovacci sonori che aggiorno di giorno in giorno fin quando il brano non è finito. Altre volte invece certe idee vengono a galla mentre sto suonando il sassofono o mentre improvviso liberamente poi,  l’iter che segue più o meno è sempre il medesimo.

Miles e l’elettronica. I soliti talebani del jazz lo additarono come blasfemo, eretico e quant’altro. L’elettronica e il jazz non sono due emisferi così lontani. Quale capitolo del jazz ha aperto Miles? Si può dire che abbia inaugurato la nouvelle vague della musica afroamericana?

Sicuramente le sue intuizioni sono state decisive nell’aprire uno scrigno di possibilità espressive, dal quale tutti hanno attinto. Credo che dall’uscita di «Bitches Brew» e «Directions», quest’ultimo un album molto sottovalutato, il jazz in modo particolare non sia più stato lo stesso. In ogni caso questa sua capacità di tracciare nuovi orizzonti non è un evento legato solo a quel periodo storico, nella vita artistica di Miles come ben sappiamo, questa caratteristica è stata una costante.

Oggi, nel panorama jazzistico mondiale c’è qualcuno che abbia la stessa statura e spessore di Miles Davis?

Non credo proprio, anche se devo riconoscere che oggi la musica si muove attraverso canali diversi da quelli di cui disponeva Davis e credo che questa sia una variabile non da poco, se prendiamo in considerazione le modalità contemporanee con le quali il pubblico usufruisce della musica.

A tal proposito, parliamo di Nicholas Payton e della Black American Music. Non ti pare che abbia scoperto l’acqua calda? Prima di lui ci sono stati, appunto, Miles e Duke Ellington a dire che il jazz è da bianchi e che loro suonano musica nera…

Senza dubbio è così e devo aggiungere che è anche anti storico cercare di propagandare certe distinzioni. Ciò è molto lontano dal vero; e a dirla tutta anche poco interessante.

Parliamo dei tuoi sodali: Giovanni Conversano, Andrea Cincinelli, Gianmarco Scaglia, Paolo Corsi, Leonardo Cincinelli. Perché hai scelto proprio loro?

Nonostante la grande intesa che ho sviluppato in tanti anni lavoro con questi musicisti, è proprio la grande differenza stilistica dei miei compagni di viaggio, unita alla loro capacità di coesistere all’interno di un unico contesto musicale il motivo principale che mi ha portato a scegliere proprio loro. Creare qualcosa insieme è sempre una sfida e trovo questa cosa molto «davisiana».

Insieme a Gianmarco Scaglia sei il fondatore e organizzatore del Valdarno Jazz Festival. A proposito del sistema jazzistico italiano, sembra sia rinata la volontà di creare associazioni, movimenti, enti volti a promuovere il jazz in Italia e all’estero. Come giudichi la situazione e, a tuo parere, cosa dovrebbe cambiare?

Sì, alcune cose per fortuna si stanno muovendo e soprattutto la creazione dell’associazione Midj (musicisti italiani di jazz) credo sia un segnale molto importante in merito al fatto di riconoscersi in un idea, di iniziare finalmente a parlare dei  problemi e delle infinite difficoltà nelle quali operano i musicisti di jazz  italiani. La situazione in Italia non è semplice e solo adesso sembra che il jazz inizi ad essere riconosciuto in modo ufficiale come musica d’arte. Ciò che spesso mi amareggia è constatare come ancora oggi molti jazzisti italiani siano refrattari a questo nuovo fermento.

Ci sarà un seguito discografico di questo tuo progetto?

Non credo, anche se a dire il vero è una finta verità in quanto il mondo Davis, io di fatto lo porto sempre con me.

Quali sono i prossimi passi di Daniele Malvisi?

Adesso fondamentalmente mi sto impegnando nella promozione di questo lavoro appena uscito e spero di poterlo portare in giro il più possibile. All’orizzonte ci sono anche altri progetti molto diversi tra loro, ma per adesso sto con Miles.

Alceste Ayroldi

Foto di copertina: Carlo Braschi