VIBEGUITAR QUARTET: INTERVISTA A SAVERIO TASCA

249

[youtube width=”590″ height=”360″ video_id=”9EkIjle5J8o”]

«The Duke» è l’album del nuovo sodalizio Vibeguitar Quartet, al secolo: Saverio Tasca, Guido Di Leone, Giuseppe Bassi e Giovanni Scasciamacchia, licenziato dalla Fo(u)r Records. Ne parliamo con il vibrafonista di Bassano del Grappa.

Saverio, come nasce il sodalizio Vibeguitar Quartet?

Il rapporto musicale nasce molto lontano nel tempo, quando facevo parte del settetto di Franco D’Andrea, nel quale militava un nostro amico comune, Attilio Zanchi, che consigliò a Guido Di Leone di chiamarmi per un suo nuovo progetto: da questo primo incontro nacque il cd «Scherzo». Il caso ha voluto che, dopo una ventina d’anni, Guido ascoltasse una vecchia audiocassetta di una nostra registrazione e il giorno dopo io gli telefonassi per sentirlo. In quel momento abbiamo deciso: il fato non si contrasta, e abbiamo fatto la cosa giusta!

 Una tracklist che si muove nel segno della tradizione jazzistica, anche negli originals.

La musica in genere richiede chiarezza nel linguaggio usato, in questo caso il dialogo fra di noi ha subito trovato il terreno più favorevole: se collochiamo il jazz attraverso la sua propria estetica, per intenderci frutto della cultura afroamericana, allora la tradizione è fondamentale.

Fuori dagli schemi appare la tua Butch, che mette in chiaro anche la melodia italiana.

Se da un lato Butch è molto cantabile, dall’altro armonicamente si rifà al gospel più semplice, ripetitivo. La mia ispirazione è proprio il mondo del canto nero primordiale, la melodia arriva invece dal nostro paese.

Hai suonato con musicisti pugliesi-lucani: conoscevi già questa scena jazzistica?

Si, non solo nell’ambito jazzistico, ma anche in quello cosiddetto colto. Inoltre l’Italia è un piccolo paese e i musicisti girano molto. A questo proposito mi ha sempre dato da pensare il fatto che fino ad una ventina d’anni fa le due regioni nelle quali avevo suonato di più fossero state il Veneto, da dove provengo, e la Puglia! Ho da sempre avuto una grande affinità, anche di dialogo, con questa regione, nata probabilmente da un grande amicizia di famiglia di quand’ero bambino.

Suoni il vibrafono, ma anche la batteria e il pianoforte. Qual è la tua prima scelta e quanto influisce la conoscenza degli altri strumenti nella tua tecnica?

Per prima cosa, per rispetto verso i pianisti, bisogna dire che il pianoforte sebbene sia stato il mio primo strumento lo suono in modo elementare, usandolo per lo più durante la composizione; la batteria invece la conosco bene. Curioso da dire ma sono i due strumenti che amo di più, intendo anche rispetto al vibrafono, e li amo incondizionatamente e alla pari! Sono diversi e mi hanno aiutato ad appropriarmi del vibrafono molto velocemente. Mi influenzano in modo inconscio in quanto il vibrafono è davvero differente da ognuno di loro, e non so dire se e in che misura lo fanno.

E, alla fine, perché ti ha affascinato il vibrafono? Cosa ti piace particolarmente di questo strumento?

Entrambe le domande mi mettono in difficoltà, e succede ogni volta che la questione tocca il motivo della mia scelta. Con il vibrafono ho un rapporto strano, è come se fosse stato lui a farsi suonare, guidandomi verso il suo suono, ed esprimendo quello che ero e che sono. Nel mio modo di suonare la tradizione è acquisita, le particolarità sono nate il primo giorno che l’ho suonato: sono stato da subito stregato dalla facilità con la quale me ne impossessavo. Forse ad entrambe le domande dovrei rispondere semplicemente «so’ immagà», ne sono ammaliato!

Il suono del vibrafono, nel corso del tempo, ha subito una considerevole evoluzione. Di recente, a tuo avviso, è cambiato ancora qualcosa?

Secondo me la rivoluzione più grande è stata il suonare lo strumento con due bacchette per mano anziché con una. Sebbene si presenti come una evoluzione tecnica, essa ha influenzato fortemente il timbro, il fraseggio e in modo enorme il ruolo ricoperto dal vibrafono all’interno delle varie formazioni. Da strumento essenzialmente melodico è diventato anche armonico, sostituendosi al pianoforte e alla chitarra nell’accompagnare gli altri musicisti. La cosa particolare è che questa evoluzione, che ha avuto tra i capiscuola Gary Burton, David Friedman e Dave Samuels, si è in qualche modo spenta, lasciando il posto a novelli Jackson e Hampton, vibrafonisti essenzialmente melodici.

C’è stato un periodo, però, in cui il vibrafono era nuovamente caduto nel dimenticatoio.

Per prima cosa c’è da dire che prima dell’oblio il vibrafono era conosciuto attraverso personalità molto forti, solitamente capigruppo (Hampton, Jackson, Burton), quest’aspetto per sua stessa natura ha inibito la nascita di nuovi esponenti con le stesse caratteristiche. Si è dovuto aspettare la rinascita del vibrafono attraverso l’inserimento soprattutto timbrico in gruppi importanti (uno per tutti il quintetto di Dave Holland con Steve Nelson, vibrafonista che non brilla per particolari caratteristiche). Si stanno inoltre affacciando alla ribalta nuovi vibrafonisti band leader, di questi forse il più caratteristico è Joe Locke.

Attualmente, chi ritieni possa fregiarsi del titolo di Maestro del vibrafono?

Non ho dubbi sul maestro di tutti i tempi, Milton Jackson, e tra i vibrafonisti viventi, per una somma insuperabile di valori, Gary Burton.

Componi anche colonne sonore. Quali sono le differenze che riscontri tra la composizione, per così dire, libera e quella legata alle colonne sonore?

In senso lato la colonna sonora la intendo come una valorizzazione di vicende, che siano esse teatrali, cinematografiche o anche semplicemente immaginate. Ho aiutato in due spettacoli Marco Paolini, ho spesso collaborato con una bellissima realtà friulana di valorizzazione del cinema muto con colonne sonore attuali, CinemaZero e ZerOrchestra. Ho prestato la mia musica a documentari, soprattutto su artisti e arte. Da poco ho collaborato con una fenomenale attrice, astro nascente della nuova oratoria civile, Giuliana Musso. La composizione libera trovo sia fatta spesso ad uso degli stessi musicisti, è bella per se, senza bisogno di nient’altro. La colonna sonora richiede una forte immedesimazione con l’oggetto sostenuto, ed è perciò che credo che anche la musica «a programma» possa essere intesa come una forma di colonna sonora. La composizione che accompagna o sfrutta una immagine è estremamente evocativa, anche attraverso la contrapposizione di caratteri (vedi l’uso che ne fa Stanley Kubrick) Trovo questo estremamente interessante!

Attualmente, a quali progetti stai lavorando?

Ho appena messo in scena il mio nuovo e amatissimo spettacolo, L’uomo che Cammina per Marimba e Quartetto d’Archi. Mi sono trovato a dare una svolta alla mia concezione di musica, da musica suonata a musica parlata, musica che cerca di esprimere visioni, desideri, che suggerisce immagini e dialoghi. Sono molto soddisfatto di questo nuovo percorso, e credo resterò del tempo su quest’isola.

Il tuo sogno nel cassetto.

Il mio vero e profondo sogno è di essere capito e ascoltato sempre di più, in una magnifica sinergia tra quello che io offro e quello che di nuovo mi viene richiesto, in modo da non smettere mai di ideare.

A Ayroldi