Una straniera a New York: intervista a Jo-Yu Chen (2/2)

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Seconda parte dell’intervista a Jo-Yu Chen, pianista taiwanese residente a New York, che ha da poco inciso il suo terzo album (Okeh Records), con la partecipazione di Kurt Rosenwinkell. [leggi qui la prima parte dell’intervista a Jo-Yu Chen]

Far parte di una grande casa discografica ha influenzato la tua personalità artistica?
Questo è il terzo album per la Sony Music e il primo per la Okeh e ne sono onorata. Ho firmato un contratto con la Sony Music Taiwan tre anni fa. Hanno pubblicato due album del mio trio «Obsession» e «Soul Incomplete» nel 2011. Entrambi erano disponibili in mp3 su iTunes e Amazon; tuttavia, le copie fisiche si trovavano solo in alcuni paesi e la commercializzazione è stata più complicata di quanto pensassi. Fortunatamente, Wulf Mueller (ora consulente della Okeh Records) ha sentito «Soul Incomplete» e, da allora, siamo rimasti in contatto. Sono contenta che questo nuovo album venga distribuito in tutto il mondo e spero che la mia musica possa raggiungere un pubblico più ampio. Comunque, né la Sony né la Okeh hanno influenzato la mia musica.

Sei nata e cresciuta in Taiwan, successivamente ti sei trasferita a New York. Pensi che New York offra le migliori opportunità per un jazzista?
Sicuramente è la città migliore per i musicisti jazz, perché c’è molta competizione. E’ duro per gli artisti sopravvivere in questa città e riuscire a creare arte con risorse limitate e, in alcuni casi, in condizioni precarie. Tutti sembrano così frustrati e stressati. Ma in qualche modo si riescono a superare le difficoltà e si va avanti. Bisogna essere sempre fedeli a sé stessi.

Quindi, è stato difficile ambientarsi a New York.
La cultura asiatica ha tante regole da seguire per vivere adeguatamente in società.  Quando mi sono trasferita a New York, c’erano così tante opportunità e una vita quasi senza regole. Nessuno mi ha detto cosa fare, ero completamente persa. Ho cominciato a chiedermi se amavo solo la musica classica o se potevo fare qualcosa di completamente diverso. Vengo da una famiglia conservatrice, quindi mi ci è voluto molto tempo per avere il coraggio di passare al jazz.

Qual è la tua giornata tipo?
Pianoforte: pratica e insegnamento, e sbrigare un sacco di email. Il mio principale obiettivo quotidiano è esercitarmi.

Avevi cinque anni quando hai iniziato a suonare. Come sei arrivata al jazz?
Fin dall’infanzia, studiare alla Juilliard era uno dei miei sogni. Ma, dopo essermi trasferita a New York, ho cominciato a chiedermi se fosse tutto ciò che volevo. Sentivo di volermi allontanare dalla musica, e ancor di più dopo l’approccio con la Julliard. Non so perché ebbi questo moto di ribellione, forse perché la musica era l’unica cosa che facevo da quando avevo cinque anni. Sentivo il bisogno di fuggire da lei, così come un adolescente vuole scappare da casa per capire come sarebbe la vita senza i genitori. Per alcuni anni non ho ascoltato né suonato musica e avevo accantonato l’idea di fare la musicista. Poi, qualcuno mi ha mostrato un album di piano solo di Keith Jarrett «Paris Concert». E’ stata la prima volta che ho sentito che la musica mi mancava. C’era così tanta improvvisazione e il contrappunto barocco nei suoi assolo, ma c’era anche il linguaggio del jazz, che non conoscevo. Ho sentito la voglia di esplorare questo mondo sconosciuto.

Componi istintivamente?
Di solito non ho idee preconcette quando compongo. A volte, quando mi arriva l’ispirazione, ci vogliono solo pochi minuti per completare un brano. Ci sono un sacco di cose che mi spingono a comporre, anche inconsciamente. Per esempio, ho scritto Art of Darkness nel 2012. Avevo visitato il Miho Museum progettato dall’architetto Ieoh Ming Pei. Il museo si basa su di un classico della prosa cinese, Peach Blossom Spring del poeta Tao Yuan Ming, che conoscevo fin dall’infanzia e mi sono commossa quando ho visto come Pei avesse realizzato il tutto. C’era un tunnel buio che si è illuminato quando sono arrivata all’ingresso ed era insonorizzato in maniera tale che le voci e i rumori esterni erano bloccati, come se fossi isolata dal mondo. Mentre lo stavo percorrendo, ho avvertito una sensazione di tranquillità. Quando ho raggiunto la sua fine ho visto il museo in lontananza, illuminato da una luce più intensa. Così, nella mia testa si è materializzato il brano. Ho capito che c’è sempre una luce alla fine di un tunnel, come nella vita.

Qual è il pubblico di Jo-Yu Chen?
Il mio punto di partenza è la musica classica europea. Sono sicuro che le mie composizioni siano inconsciamente influenzate da tutti i grandi compositori classici. Spero che la mia musica possa toccare il cuore della gente, non solo il cervello. Direi, quindi, più europeo che non statunitense, così come lo è la mia musica.

Quali sono i tuoi prossimi obiettivi?
Un tour in Europa! Con la speranza che si avveri subito.

Alceste Ayroldi