STEFANO BOLLANI AL TEATRO PETRUZZELLI DI BARI

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STEFANO BOLLANI

Bari, teatro Petruzzelli 27 dicembre 2014

A Bari Stefano Bollani è di casa, e ricorda lui stesso l’apparentamento con alcuni jazzisti del capoluogo pugliese quando il suo talento ancora non riempiva blasonati teatri come il Petruzzelli; blasone un po’ decaduto dalla ricostruzione in giù, visto che l’acustica difetta parecchio e l’impianto voci è sgranato e gracchiante: e non è poco per un politeama che vorrebbe essere il fiore all’occhiello del Sud Italia e recipiendario della cultura barese.

Bollani è da solo con il suo pianoforte e non si risparmia. Si diverte e lo si capisce a chiare lettere, anche se l’incipit lo vede pensoso e ben concentrato dare vita a sue composizioni che mettono subito in campo il suo amore per il Brasile, compresa la sua personale – e folgorante – rilettura di Tristeza di Vinicius de Moraes e Toquinho. Poi, Bollani rompe l’incantesimo di seriosità e comincia a dialogare con il numeroso pubblico affluito per l’occasione: un vero e proprio must che ha coeso un parterre anagraficamente trasversale composto sia da seriosi signori e austere dame, che da un pubblico più giovane; aspetto questo non trascurabile visto il progressivo ingrigirsi dell’audience del jazz in Italia. Il pianista tosco-lombardo s’improvvisa fantasioso e attento percussionista colpendo il pianoforte in ogni dove e ricavandone anche delle affascinanti ghost-rhythm notes. Canta e suona come un fiume in piena e mette insieme canzoni d’ogni tempo: da America di West Side Story al «suo» Il barbone di Siviglia, che declina tutto il forbito vocabolario pianistico di Bollani e riesce a infilarci una versione avanguardistica di Tu scendi dalle stelle con una voce presa in prestito a Ian Gillan e  Robert Plant. Le gigionerie di Bollani si sa che attirano gli strali velenosi dei talebani del jazz, dei puristi della prima e ultima ora; senza contare, invece, come riesca a rinverdire l’allure e il pianismo birichino di Fats Waller. La seconda parte, per così dire, è dedicata allo «human juke-box», e qui il pubblico si sbizzarrisce in richieste oblique che accarezzano l’immaginario musicale fino agli anni Ottanta. Un accenno alle note di Libertango premesse da So What di Miles Davis, brano che fa da uncino in quasi tutti i passaggi (alcuni da volo pindarico) nel mare magnum delle richieste. Si passa a Giù la testa di  Ennio Morricone fino a pezzi storici dell’universo musicale a cartoni animati come Heidi e L’uomo tigre, che gira e rigira su un «tempo stracciato» perfettamente ordito. E dopo una scintillante versione di Marina di Rocco Granata, si de