«SCARAMOUCHE». INTERVISTA A FILOMENA CAMPUS E GIORGIO SERCI

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Uscirà a gennaio 2015 «Scaramouche» (Incipit, distr. Egea) l’album firmato da Filomena Campus e Giorgio Serci. Ne abbiamo parlato con loro.

L’universo sonoro che hai voluto esplorare con Giorgio Serci in «Scaramouche» è quello legato alla tua anima mediterranea, sembra tutt’altra via rispetto a «Jester Of Jazz». Qual è l’anello di congiunzione tra questi due lavori?

FC: E’ vero, sono due lavori completamente diversi, ma l’anello di congiunzione sono sicuramente l’anima mediterranea e le radici nella nostra isola, la Sardegna. In «Jester of Jazz» erano accennate nell’arrangiamento «inglese» di un classico sardo come No potho reposare o nei testi di Sabbia e Mirto o Summer Lights ispirati al partire, alla nostalgia, alla voglia di tornare, e quella di andarsene ancora. «Scaramouche» è completamente diverso nel line up, un progetto minimalista nato come duo di voce e chitarra insieme a Giorgio Serci  e poi nel tempo avvolto e arricchito dalle note preziose di colleghi, musicisti e maestri come Kenny Wheeler, Adriano Adewale, Rowland Sutherland e dall’orchestra d’archi dei Keld Ensemble.

A proposito: come è nato il sodalizio con Giorgio Serci?

FC: Ci siamo incontrati su myspace anni fa su suggerimento del nostro amico comune Antonio Forcione,  e nel 2010 Giorgio mi invitò come special guest a un suo bellissimo concerto al Pizza Express a Londra. Rimasi incantata dalle sue composizioni e dalla purezza del suono della sua chitarra, uno strumento che ho sempre amato. Da allora è nata una collaborazione che ci ha portato a scrivere insieme brani originali, e a suonare in Germania, Croazia, Italia e Gran Bretagna; e, ora, al nostro album. Credo che il segreto della collaborazione sia il linguaggio comune essendo entrambi musicisti sardi trapiantati a Londra da tanto tempo. Giorgio è un chitarrista, compositore e arrangiatore di  grande talento. Ha scritto tutte le musiche e io i testi (a parte Momentum). Ha un approccio al jazz e all’improvvisazione in cui ci siamo ritrovati pienamente nella ricerca, del tutto naturale e istintiva delle sonorità ancestrali legate alla nostra isola, alla nostra storia e fuse con ritmi e atmosfere lontane, aperte al mondo e a linguaggi diversi. Inoltre siamo entrambi molto pignoli e attenti al dettaglio, per cui ci sono voluti oltre due anni di lavoro intenso per realizzare e finire il progetto, che nel cammino ci ha portato a incontri fortuiti e meravigliosi come quello con l’artista Giuseppe Carta, pittore e scultore apprezzato in tutto il mondo, che ha creato per noi la copertina dell’album e curato il servizio fotografico del libretto.

Si ascolta anche il Brasile: è un tuo obiettivo anche geografico-residenziale?

FC:L’amore per il Brasile e per la sua musica è un altro elemento presente nell’album e una passione comune con Giorgio. Nei concerti dal vivo abbiamo in repertorio anche un brano di Chico Buarque, Meu caro amigo, dedicato ad Augusto Boal, regista e attivista brasiliano meraviglioso che ebbi la fortuna di conoscere e al quale ho dedicato un brano, Boal nell’album «Jester of Jazz».  Abbiamo anche arrangiato un pezzo di Egberto Gismonti e scritto insieme il brano Hermetico per Hermeto Pascoal, che apre l’album. Personalmente sono stata due volte in Brasile di recente e mi sono innamorata di Rio. Mi sono sentita a casa, e ho trovato una città simile a Cagliari, per molti versi. Inoltre la collaborazione con un maestro percussionista brasiliano come Adriano Adewale ha probabilmente completato la fisionomia musicale e geografica del nostro progetto tra Londra, Sardegna e Brasile.

Baltic Spellbound appare come uno scrigno che contiene qualcosa di barocco, camerismo contemporaneo, venature blues e tant’altro. A cosa vi siete ispirati.

FC: E’ un brano che Giorgio aveva scritto tempo prima e registrato in versione strumentale,  lo trovai molto accattivante con i suoi accordi in minore e soprattutto perché  lasciava spazio ai silenzi, al respiro. Portai la musica con me nel mare Baltico alcune estati fa e il mio testo è proprio la descrizione del vissuto di quei giorni, dei colori dipinti dal sole che affondava come un acquarello sul mare, un cigno accomodato in riva in posa mentre lo fotografavo vicinissimo, una barca a vela in un porto con un mare immobile e silenzioso, e il nome Spellbound dipinto sul lato. Forse anche la sorpresa di scoprire un mare cosi affascinante che non fosse quello sardo e sentirmici comunque a casa. Sia nella musica che nel testo un tributo alle atmosfere del nord Europa.

GS: Questo pezzo è stato ispirato dagli evocativi panorami scozzesi, dove mi trovavo in tour a fine anni Novanta. In particolare il mitico lago Loch Ness, che poi ha dato il titolo originale a questa composizione incisa in versione strumentale nell’omonimo disco col pianista Bob Stuckey. Il silenzio, gli incantevoli paesaggi e la magica atmosfera che regna in questi luoghi mi hanno suggerito un approccio compositivo minimalista ed essenziale, giocando con frammenti melodici, armonici e ritmici ripetuti in maniera asimmetrica.

In verità, ogni brano contiene i semi di tante musiche. E’ nato tutto spontaneamente? Avevate un riferimento, per così dire, storico?

GS: Le composizioni in «Scaramouche» sono il frutto di tanti anni di ricerche. Londra è una città dove si mescolano tantissime culture musicali. In questi anni ho avuto la possibilità di suonare in giro per il mondo con grandissimi esponenti di vari generi: dalla musica indiana, brasiliana, sarda, classica, jazz, flamenco e tante altre. Queste contaminazioni hanno arricchito il mio lessico musicale, caratterizzando il mio modo di suonare e di comporre.

FC: Alcuni brani sono nati da composizioni già esistenti di Giorgio e mi hanno ispirato a scrivere i testi. Nei brani Primavera e Campidano ho capito che non era necessario aggiungere un testo, funzionano benissimo senza e creano un contesto magnifico per l’improvvisazione vocale, e ispirano a esplorare suoni e  venature ispirate dalla tradizione sarda, molto forte in questi due pezzi.

Comunque, sembra che abbiate svolto anche un accurato lavoro di ricerca e di studio per ogni singolo brano. Quali sono le fonti dalle quali siete partiti?

GS: Le nostre radici sarde, ma anche le nostre esperienze e inclinazioni artistiche hanno ispirato la scelta e lo sviluppo di ogni pezzo. Oltre a Boghe è mestrale e Campidano, ispirati dalla nostra  Sardegna, o Hermetico, dedicata al grande Hermeto Pascoal. Quest’ultima alterna passaggi dalle connotazioni ritmiche, melodiche e armoniche tipicamente brasiliane, a riferimenti più specifici al grande compositore Pascoal. Questo spiega i ricorrenti cambi ritmici ( 7/8, 12/8, 2/4), e il vario contenuto armonico (dalle armonie tradizionali della musica di Bahia a quelle più dense e dal carattere più jazzistico). Il testo di Filomena cattura pienamente l’essenza della musica di Pascoal, geniale e goliardica.

FC: Ogni brano ha una storia e una ricerca differente, che a volte trova le radici nella letteratura. Ad esempio la musica di Round Midday mi ha ispirato ad adattare una poesia Human Interlude, del grande poeta beat Jack Hirschman, con cui lavorai anni fa. Scaramouche, che dà il titolo all’album, è nata da diverse parti di un brano che Giorgio mi aveva accennato alla chitarra e che poi abbiamo ricomposto insieme attraverso delle improvvisazioni in cui ha lentamente preso forma, ispirando poi il mio testo dedicato a Scaramouche. E’ una maschera, un clown della commedia dell’arte che oltre alla mezza maschera cantava e suonava la chitarra. Io lo vedo come il simbolo del nostro lavoro insieme, un personaggio che rappresenta le nostre due anime, il teatro e la musica. Il testo in particolare è dedicato a Steve Knapper, un carissimo amico e collega alla Kingston University che aveva una passione contagiosa e un dottorato su Scaramouche.

Tra gli ospiti spicca Kenny Wheeler. Ci regalereste un ricordo su di lui?

FC: L’idea di invitare Kenny è stata di Giorgio e ho pensato  che sarebbe stato un sogno!. Poi ti rendi conto che Londra è  uno di quei posti magici in cui a volte i sogni si possono realizzare. Giorgio invitò  Kenny, che accettò subito di suonare nel brano Momentum. Kenny stava già male ma ancora suonava, infatti nelle stesse settimane partecipò al London Jazz Festival. L’ultimo ricordo personale che ho di Kenny risale alla scorsa estate, al Vortex Jazz Club a Londra, dove alcuni musicisti e colleghi tra cui John Taylor e Martin France suonarono un concerto tributo proprio per lui, presente tra il pubblico con sua moglie e suo figlio. Mi avvicinai a salutarlo, era dimagrito in modo spaventoso da quando avevamo registrato l’album e aveva problemi a sollevare la testa. Una fragilità straziante. Ma attento e vivace, mi disse: «The guys are playing really well tonight, aren’t they?» (I ragazzi stanno suonando proprio bene stasera, vero?).

GS:  Ho conosciuto Kenny Wheeler per la prima volta al festival jazz di Toronto dove entrambi suonavamo. Ho sempre sognato di registrare con lui e questa era un occasione perfetta. Filomena ha accolto con entusiasmo quest’idea, entrambi convinti che il suo suono così evocativo e il suo stile improvvisativo unico avrebbero dato un tocco magico al nostro album. Dopo aver sentito Momentum, Wheeler mi ha chiamato personalmente per dirmi che il pezzo gli era piaciuto molto e che sarebbe stato felice di registrare per noi. Il suo entusiasmo, professionalità e capacità di entrare dentro lo spartito interpretandolo con così tanta originalità e poesia, malgrado l’età e il suo fragile stato di salute cercassero di ostacolarlo, è stata una lezione di vita che terrò sempre dentro di me.

Unico brano non originale è Ombre di Maria Carta. Terra a parte, Filomena cosa ti lega a lei e perché proprio questo brano?

FC: La stessa poesia aveva ispirato il mio testo di Summer Lights in «Jester of Jazz». Qui ho voluto renderle omaggio con il testo originale, che ho imparato a memoria e recito nei nostri concerti cercando di applicare alcune tecniche di recitazione imparate da due amiche preziose, Franca Rame e da Roberta Carreri degli Odin Teatret. Il testo di Maria Carta mi riporta fortemente, quasi con violenza, al mio rapporto con la Sardegna, le sue luci, le voci, ma anche le sue ombre, i pensieri di granito di cui parlo nel nostro brano Boghe è maestrale, la voce del maestrale. Nel 2009 ricevetti il premio Maria Carta e in quell’occasione la famiglia Carta mi invitò a visitare il museo a lei dedicato  a Siligo, suo paese natale, e mi regalò il suo libro Ombre, una collezione di poesie e testi secondo me di serio valore letterario. Mi sono affezionata moltissimo a questa donna e artista eclettica, cantante, attrice, scrittrice e attivista, sono orgogliosa di portarla con me nei nostri concerti. Anche se il pubblico non capisce l’italiano, il suono e la forza di questa poesia comunque arrivano a chi ascolta, ha una forza sua, quasi sciamana. Quando Giorgio ha suonato la chitarra nella registrazione ho capito dalle sue note che ne ha colto subito l’essenza e lo spirito.

Filomena, ci parleresti del tuo progetto «Misterioso»?

Un progetto a cui sono legata profondamente  e che ha significato tanto per me e la mia carriera a Londra.  Nato nel 2006 quando leggendo il testo di Stefano Benni dalla sua raccolta Teatro 2 ebbi una epiphany. Chiamai subito Paolo Fresu per chiedergli di mettermi in contatto con Benni che non conoscevo e gli proposi di mettere in scena a Londra il suo testo Misterioso, un monologo su Thelonious Monk, che tradussi e adattai con una band di musicisti inglesi, due attrici e due visual artists (Sdna).  Il progetto ebbe molto successo nella prima edizione al Camden People’s Theatre e lo portammo poi ai Riverside Studios, il teatro leggendario dove lavorarono da Samuel Beckett a Dario Fo e Franca Rame, facendo il tutto esaurito. Per l’anno successivo mi offrirono di fare tre settimane di repliche nello stesso teatro a Londra e una al festival di Edimburgo, ed ebbi il contributo dell’Arts Council England. Monk era rappresentato sia dalla voce di Cleveland Watkiss che dal pianista Pat Thomas, il quale sia nell’aspetto che nel modo geniale e unico di suonare sembra la reincarnazione di Monk (siamo tutti certi che lo sia veramente!).  Ho visto alcuni musicisti commossi dietro le quinte: erano felici di dare voce e note al loro, al nostro maestro, di raccontarne la storia drammatica e il genio, forse non ancora totalmente riconosciuto. Avendoci lavorato per tre anni poi mi sono occupata di altri progetti dal 2010, ma tutti nella compagnia Theatralia, dai musicisti ai tecnici vorrebbero riportarlo in scena, anche tanti spettatori ogni tanto mi fermano dopo i concerti per dirmi che spettacolo incredibile era Misterioso. Sarebbe splendido portarlo in tour, magari con un cast ridotto e con Stefano Benni con noi sul palco, in una versione anglo-italiana. Lo scorso anno con Benni abbiamo creato e messo in scena lo spettacolo Italy vs. England, un progetto originale con testi di Stefano e musiche del mio quartetto inglese (Steve Lodder, Dudley Phillips e Martin France).  Anche questo è un lavoro che ha avuto un grande successo e che ci piacerebbe portare in tour. Lavorare con Benni per me è un piacere immenso, il suo stile surreale, il suo talento sul palco e il suo ritmo da vero jazzista si sposano molto bene con lo spirito «giullaresco» del mio quartetto inglese.

Filomena, hai creato e dirigi My Jazz Islands Festival, che quest’anno è arrivato alla II edizione. Come è nato?

Il festival è nato nel 2013 in collaborazione con il Pizza Express Jazz club Soho di Londra e Forma e Poesia nel Jazz a Cagliari. Ho pensato di creare un ponte jazz tra le mie due isole, la Sardegna e la Gran Bretagna, facendo incontrare musicisti che non si conoscevano e incoraggiando cosi nuove collaborazioni. E’ stato un successo inaspettato, meraviglioso, sia a Cagliari  durante il solstizio d’estate, sotto una luna piena nel contesto bellissimo del Lazzaretto, che a Londra a novembre, in uno dei club più importanti in Europa, dove suonano da Gregory Porter a Norma Winstone solo per citarne alcuni. Per me è anche un modo di far conoscere la bellezza della mia isola (molti inglesi non sanno nemmeno dove si trovi) e dei suoi talenti musicali e artistici. Diversi giornalisti inglesi hanno seguito l’evento e ora sono appassionati sia del festival che della Sardegna. E’ stato molto emozionante anche vedere tantissimi sardi presenti all’edizione londinese del festival.  L’ultima edizione si è svolta solo a Londra, dove, visto il grande successo di quest’anno ho già confermate le date dell’edizione 2015. In Italia purtroppo nel 2014 non è stato possibile realizzarlo, non ho più avuto il supporto dell’organizzazione della prima edizione, so che in Italia e in Sardegna in particolare ci sono problemi con i finanziamenti per l’arte e lo spettacolo e me ne dispiace immensamente, soprattutto se si rinuncia a un progetto che ha avuto un tale successo. Detto questo sono determinata a trovare altri partner interessati a un gemellaggio con Londra per il festival 2015, non necessariamente solo la Sardegna, ma aperto a tutta l’Italia. Il festival a Londra è stato inoltre parte di Suona Italiano, un progetto organizzato dalla fondazione Musica per Roma per la promozione e la diffusione della musica italiana in Uk. Con loro ci siamo trovati benissimo, sarebbe bello ripetere la collaborazione il prossimo anno.

Filomena, quali sono le maggiori difficoltà dal punto di vista organizzativo che devi affrontare? Il sistema funziona come in Italia?

A Londra ho trovato il pieno supporto del manager del Pizza Express, ovviamente felicissimo del tutto esaurito ogni sera e del riscontro dei media e della stampa sia inglese che italiana e l’istituto Italiano di Cultura di Londra ha collaborato al festival. Penso che un gemellaggio con Londra farebbe gola a molti organizzatori italiani, la visibilità internazionale che offre questo festival non è da sottovalutare. Sono stata intervistata dalla Bbc e un deejay di JazzFm, una delle radio più seguite in Uk,  mi ha detto che verrebbe in Italia a coprire il mio festival con un live broadcasting nel Regno Unito.  Avendo visto i film-documentari sulla Sardegna e sulla sua musica durante la nostra presentazione del festival alla stampa all’Istituto Italiano di Cultura, i giornalisti inglesi erano incantati dalla bellezza  e dal fascino dei luoghi, dal talento dei musicisti e ora ogni volta che mandano in onda un brano da uno dei nostri album, commentano anche sulla bellezza dell’isola da visitare, sul jazz italiano e sui bellissimi festival estivi.  In Italia ogni volta che parlo con un promoter sento lo stesso drammatico discorso della mancanza di fondi e del non poter-voler rischiare con un progetto che sicuramente non è convenzionale, nel senso che non suoniamo standard e siamo orientati verso la sperimentazione e l’improvvisazione, e i nomi dei musicisti, famosissimi in Uk, non sono cosi conosciuti in Italia (notare che lo stesso vale in Inghilterra per i musicisti italiani). Tutti vogliono andare sul sicuro, su ciò che già conoscono e che sanno venderà in termini di biglietti.  Ma in questo modo non si rischia di mantenere il jazz italiano in una nicchia e di frenare anche un potenziale sviluppo della musica se si resta sempre su terreni sicuri? Inoltre in termini di organizzazione devo ammettere che a Londra i tempi sono brevissimi, si lavora con un anno di anticipo sulle date e i booking, e i pagamenti sono molto veloci se non immediati. Non esiste il carico di burocrazia che un promoter deve affrontare in Italia e non esiste la doppia tassazione per i musicisti stranieri. Un club certo non può permettersi di pagare un’artista quanto un festival, ma le cose si fanno e si vedono i risultati.

E come effettui le scelte artistiche?

Essendo eclettica per natura trovo ispirazione in diverse situazioni, dai concerti al teatro alla danza alla performance art, letture, musei, viaggi e incontri. I progetti nascono da un’idea che mi appassiona e non mi lascia in pace finchè non la realizzo. Mi piace correre rischi: adoro l’improvvisazione free, la sperimentazione e la fusione di diversi linguaggi, l’incontro di culture diverse. Mi piace mettere insieme le persone, le loro energie, i loro talenti, i loro suoni.  Forse questo nasce dalla mia anima di regista. Questo festival mi ha dato la possibilità di fare incontrare musicisti che non avevano mai suonato insieme e soprattutto di far conoscere in Italia grandi musicisti inglesi e viceversa qui a Londra dove il jazz italiano è davvero poco conosciuto. Negli scorsi mesi devo ammettere che ho avuto il piacere di partecipare ad alcuni progetti non miei e riassaporato la leggerezza di salire sul palco senza la responsabilità di tutta l’organizzazione e della regia.

E’ successo con il nuovo progetto di Steve Williamson (http://www.theguardian.com/music/2014/sep/03/steve-williamson-review-jazz-warrior-pizza-express-club-london), dove ho suonato insieme a mostri sacri come Michael Mondesir, Robert Mitchell e Sebastian Rochford dei Polar Bear,  e nel Concerto per l’Europa dove facevo parte di uno splendido ensemble con musicisti da tutto il mondo guidati dal trombettista polacco Maciej Fortuna, (http://www.istitutopolacco.it/index.php?mod=2&app=538&c_month=7&c_year=2014) a cui mi ha presentato l’amico Gavino Murgia, che spero farà parte del My Jazz Islands il prossimo anno.

Un bilancio di queste due prime edizioni.

Ottimo, felicissima del successo dell’ultima edizione a Londra e dell’attenzione dei media britannici, abbiamo preparato il terreno per le future edizioni. Fare il tutto esaurito per tre sere consecutive in uno dei club più importanti a Londra insieme al Ronnies, resta un grandissimo risultato. Ora siamo alla ricerca di un partner italiano per un gemellaggio con My Jazz Islands a Londra. Fatevi avanti.

Filomena, perché hai lasciato l’Italia? Cosa c’è che non va?

L’ho lasciata molti anni fa, con il pensiero che sarei tornata presto. A volte mi manca tanto ma altre volte, quanto torno,  mi sento più straniera che a Londra. Anche se ho spesso nostalgia della famiglia, del sole, del mare, di una lingua madre che ti permette di articolare pensieri e riflessioni senza ridurli a un vocabolario molto più limitato. Me ne sono andata tempo fa perché  avevo un bisogno feroce di conoscere altro, di crescere artisticamente e Londra ha la capacità, che trovo unica dopo aver vissuto anche a Berlino e aver viaggiato parecchio negli ultimi anni,  di farti confrontare con il mondo, perché a Londra vive il mondo.  Ci sono persone da ogni angolo della terra, di qualsiasi background. La diversità. E’ questo che mi tiene legata a questa città che, nonostante le difficoltà e le contraddizioni,  scopro di amare sempre di più. Il sessismo è une delle cose che  in Italia non va e che non posso accettare. Non va il disprezzo verso chi disperatamente cerca accoglienza in Italia, mentre si dimenticano le migliaia di italiani che cercano lavoro all’estero, non va non ricevere risposta alle email, cosa che all’estero è considerata una grave mancanza di rispetto e di professionalità. Non va il continuo lamentarsi senza fare niente per cambiare le cose. Londra ti insegna che esiste l’integrazione di culture diverse, che ce la puoi fare anche senza avere raccomandazioni e che bisogna faticare e continuare a studiare perche la concorrenza e’ di altissimo livello, che non c’è tempo da sprecare nei pettegolezzi o nella eccessiva attenzione all’esteriorità, e soprattutto la franchezza di dire sì o no, di non far perdere tempo con false promesse. Oltre alla frustrazione ho comunque la speranza che un paese meraviglioso come il nostro possa riprendere coscienza e risollevarsi a partire proprio dalla cultura, dall’arte, dall’istruzione e dall’integrazione.

Cos’è Theatralia?

Il mio avatar teatrale. La mia compagnia, un ensemble di artisti che prende forma quando un progetto nasce e la passione lo porta in scena. Non è un collettivo stabile, ma cambia, e si muove anche di paese in paese, è nato a Cagliari con le mie prime sperimentazioni teatrali/musicali, ha presto forma a Londra, dove abbiamo messo in scena spettacoli dei Living Theatre, di Marco Paolini, di  Benni, di Franca Rame e Dario Fo, di Mario Fortunato a Berlino lo scorso gennaio. Oppure con cui organizziamo workshops e happening di improvvisazione con musicisti,  danzatori, attori, clown e visual artists. Uno spasso.

Quali sono i tuoi prossimi impegni e i tuoi progetti futuri?

Tanti. Prima di tutto la seconda edizione del festival a Londra dove ho già le date per il prossimo novembre 2015 e lavorare per riportarlo in Italia questa estate.

La promozione in Europa e in Italia dell’album «Scaramouche» (che uscirà in Italia  a gennaio, distribuito da Egea- Incipit)  con Giorgio Serci e special guests,  suoneremo a Londra con l’orchestra d’archi Keld Ensemble a febbraio. Il nuovo duo con il grande Antonello Salis con cui abbiamo suonato in Sardegna e a Londra, e con cui pensiamo di registrare presto. Un nuovo album con il mio quartetto inglese, con cui suoneremo al Rye International Jazz Festival in Inghilterra ad agosto. Un duo di improvvisazione vocale con Cleveland Watkiss e un nuovo progetto con una band di musiciste/i inglesi creata con la pianista Laura Cole, con brani originali ispirati ad artiste come Frida, Niki De Saint Phalle, Marina Abramovic, Franca Rame e tante altre. Un misto di concerto, improvvisazione e performance art, un tributo musicale al femminile che ha già avuto la benedizione di un grande come Robert Wyatt.

Alceste Ayroldi