L’IMPORTANZA DI RANDY WESTON

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Nonostante una carriera di oltre sessant’anni e una personalità di pianista e autore a tutto tondo che NON dovrebbe certo passare inosservata, Randy Weston (Brooklyn, 1926), è una figura importante soltanto per alcuni musicisti, soprattutto pianisti: primo Vijay Iyer, che lo include tra i suoi maestri ideali. Il pubblico lo conosce ancora poco. E questo, almeno in parte, sull’onda lunga di una vecchia inclinazione della critica a inseguire fenomeni compatti, univoci, emergenti nell’incarnare una precisa direzione.

Weston non insegue un africanismo oleografico, quale sarà spesso anche quello di Abdullah Ibrahim. L’Africa è per lui una miniera di idee musicali, di scale e armonie; si direbbe, un’anima etico-sintattica della musica. Non a caso, ciò che Weston aggiunge al suo status poetico consiste, da una parte, nella creazione di una piattaforma di pezzi che, tra composizioni originali e di musicisti africani, definiscono coerentemente un campo di espressione; dall’altra, in un sensibile arricchimento del linguaggio strumentistico. Il pianista concepisce quindi Uhuru Afrika per celebrare l’indipendenza appena ottenuta da diciassette paesi africani, e l’opera è un omaggio prioritariamente musicale.

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Uhuru Afrika

1960

Formazione di ventisette elementi, di cui sei addetti alle percussioni, due vocalisti e una voce recitante. Arrangiamenti di Melba Liston e testi di Langston Hughes che celebrano la nascita dei nuovi stati africani. Suite in quattro movimenti. Grande opera, con tutti i suoi rischi.

Il primo movimento (Uhuru Kwanza) è solenne. Si parte dalla recitazione del testo di Hughes condotta dal cantante tanganicano Sanga Tuntemeke – parte in inglese, parte in kiswahili – e con regolari repliche in coro dei musicisti. Si parla di Africa libera. Poi interviene il tappeto ritmico delle percussioni e una scala pentatonica ascendente-discendente di Weston al piano introduce al bellissimo tema, cromatico e un po’ monkiano, presto ricondotto alla sua essenza armonico-ritmica dai fiati e quindi fatto scivolare sul solo commento dei contrabbassi, fino a svanire.

Il secondo (African Lady) è invece narrativo. Una song modaleggiante su tempo medio-lento e privo di interventi delle percussioni; un po’ alla maniera del Mingus di Eclipse, anche se si sta inneggiando a qualcosa – la donna nera come simbolo dell’Africa libera – e con voci sia femminile sia maschile al limite dell’impostato.

Ma i rischi semantici e poetici della grande opera, finora neppure mal gestiti, a questo punto decadono del tutto. Perché i due restanti movimenti non soltanto sono strumentali ma aderiscono al caso in chiave di puro linguaggio westoniano, essendo entrambi strutturati sulla combinazione di ritmi africani e tempi dispari. Il terzo ripropone l’intrigante Bantu presentato a Newport due anni prima e in una versione che il sound orchestrale e l’abbondanza delle percussioni rendono naturalmente tanto più ricca. Il quarto (Kucheza Blues) è un blues festosissimo in tonalità maggiore, summa della solarità westoniana che si addice a ogni «festa della libertà», con l’orchestra che lavora soltanto nelle enunciazioni del tema e i solisti (tra cui Yusef Lateef, Sahib Shihab, Slide Hampton, Weston stesso) che si avvicendano galleggiando ciascuno sulla sola azione dei ritmi.

Music from the New African Nations featuring the highlife

1963

Reduce dal suo primo viaggio in Africa con lunga permanenza a Lagos, Weston dà a questo disco il nome della musica da ballo che ha ascoltato sul posto, come per creare un corollario di «Uhuru Afrika» in funzione della diretta esperienza. Ma il lavoro che realizza con un gruppo di undici elementi (comprendente Booker Ervin al tenore) e sfruttando ancora le suggestive polifonie della Liston, alla quale pure sottopone partiture africane, si propone come un’ulteriore riflessione globale sulla musicalità della neritudine e soprattutto al riparo dai luoghi comuni che l’associano a una ritualità prevalentemente gioiosa, magari sublimativa.

Sicché il solo pezzo «gioioso» è Cuban Bamboo Highlife, non a caso disposto in apertura del disco. Il seguente Niger Mambo (composto dal nigeriano Bobby Benson) è ritmicamente tonicissimo, ma in tonalità minore. E ancora più tesa la versione orchestrale del già crudo e minimalista Zulu del 1955. Al punto che mal s’inserisce fra due altri originali westoniani un traditional folklorico quale Congolese Children: spezza il discorso di cui sono soltanto due momenti diversi In Memory Of, che è una lentissima funeral song a mezza via tra cultura africana e neroamericana, e Blues To Africa, che è uno spigoloso minor blues in ¾. Equilibratissima in tal senso la scelta di chiudere il disco con Mystery Of Love, opera del ghanese Guy Warren. È una melodia monocorde e solenne sostenuta omofonicamente dai fiati, che fa da bordone alla creazione sonora del piano e dei ritmi. Siamo a un ritualismo puro, non passibile di aggettivi.

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