Mantova Jazz 2016 parla Giorgio Signoretti

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di Alceste Ayroldi

Il festival jazz di Mantova si appresta a celebrare la XXXV edizione. Ne parliamo con Giorgio Signoretti.

Trentacinque edizioni per Mantova Jazz: un traguardo importante. Cosa racconta la storia del festival? Quali sono le linee artistiche che seguite?

Il festival nasce nel 1981, grazie agli sforzi congiunti dell’Arci di Gilberto Venturini e dello storico Circolo del Jazz di Mantova (già negli Anni Cinquanta uno dei più sorprendentemente numerosi d’Italia). Nasce forse un po’ in sordina, ma con idee tutto sommato abbastanza chiare: portare a Mantova, nei limiti imposti dal budget, una rappresentazione significativa dello stato di salute del jazz e delle tendenze più rilevanti in atto. Escludendo per scelta due «estremità poetiche» già abbondantemente rappresentate da altri festival ad esse specificamente dedicati: da un lato quella dell’avanguardia, ospitata allora ad esempio da festival come quello di Pisa, dall’altro quella del rassicurante «ritorno all’ordine», che in quegli anni aveva come campione  un Wynton Marsalis che si poteva ascoltare un po’ dappertutto nelle grandi piazze. Mantova Jazz parte così con uno schema tutto sommato semplice: segnalare musicisti statunitensi, europei ed italiani non mainstream le cui sperimentazioni avessero comunque chiari elementi di leggibilità. Di edizione in edizione il festival amplia sia budget che ambizioni, anche grazie alla sensibilità dell’allora assessore alla cultura del Comune di Mantova Sergio Cordibella, la cui recente scomparsa è stata avvertita da chi ha sempre lavorato al festival come una dolorosa perdita per il jazz mantovano. Il cartellone si apre così anche al «mainstream d’autore» e arrivano musicisti sempre più visibili, come Dexter Gordon, Johnny Griffin, Chet Baker, Dizzy Gillespie, Modern Jazz Quartet, Jim Hall, Tal Farlow, Barney Kessel, Betty Carter, Chick Corea, Gary Burton, Art Blakey, Art Farmer, Michel Petrucciani, Lee Konitz e moltissimi altri, accanto a sperimentatori di differenti generazioni, come Archie Shepp, Sun Ra, John Zorn, Jimmy Giuffre, Ralph Towner, Bill Frisell, Paul Motian, Tim Berne, Steve Coleman. C’è posto anche per gli europei come John Surman, Kenny Wheeler, Lol Coxhill, e per gli italiani più significativi, primi fra tutti Enrico Rava e Franco D’Andrea. Il baricentro si sposta tuttavia decisamente sul jazz statunitense, anche se il rapporto tra Sergio Cordibella e il mantovano Gianni Bedori porterà all’istituzione di una Big Band nella quale molti musicisti locali, affiancati dai grandi specialisti milanesi come Gil Cuppini, Rudi Migliardi o Emilio Soana, si fanno le ossa e, come nel caso di Mauro Negri e Simone Guiducci, si proiettano brillantemente sulla scena del jazz non solo nazionale. Vi sono workshop con Enrico Rava e Franco D’Andrea e nella Mantova dei primi anni Ottanta si può di nuovo parlare di una scena jazzistica vitale, dopo quella degli anni Cinquanta dei Camin, Baldassari, Bedori, Galetti e Chiozzini. Proprio la scomparsa di Roberto Chiozzini, nel 1988, porterà all’adozione del nuovo nome: Mantova Jazz, Festival Roberto Chiozzini. Per i mantovani semplicemente «Il Chiozzini».

Qual è il vostro rapporto con il territorio e con le altre realtà culturali della zona?

Il festival nasce dal territorio, da realtà importanti dell’associazionismo come lo storico Circolo del Jazz, responsabile fin dalle prime edizioni della direzione artistica, e come Arci provinciale, che ha fornito lo stimolo iniziale e continua ad essere responsabile dell’organizzazione della manifestazione. Ma vi sono rapporti strettissimi con il conservatorio e i suoi notevoli corsi di jazz diretti da Mauro Negri, così come con club, bar e ristoranti attenti alla programmazione musicale. La scommessa è quella di dimostrare che anche una realtà come Mantova, importante culturalmente ma senza le dimensioni della grande città, possa esprimere una programmazione originale e ben concepita, senza affidarsi ad asettiche soluzioni cercate all’esterno.

Quali sono le tendenze del pubblico? Quali sono i concerti più affollati?

Negli ultimi anni abbiamo registrato il tutto esaurito nell’80% dei concerti, indipendentemente dalla collocazione stilistica dei musicisti. Nell’ultima edizione abbiamo registrato tre sold out  su quattro per quanto riguarda gli eventi principali nei teatri, ma anche il massimo delle presenze in relazione alla capienza per quanto riguarda gli eventi nei club. Il che vuol dire che il pubblico di Mantova Jazz ha sostanzialmente fiducia nella qualità delle proposte in cartellone.

Ha notato che il pubblico ha modificato i suoi gusti nel corso del tempo?

Certamente il pubblico ha seguito l’evoluzione generale del gusto degli ultimi tre decenni e mezzo. Possiamo dire tuttavia che, anche in tempi di forte «riflusso», ha mantenuto una forte curiosità anche per le proposte meno scontate, passando senza sforzo dai Braxton o Sun Ra degli anni Ottanta ai John Zorn, Bill Frisell o Steve Coleman dei decenni successivi.Abbiamo anche visto abbassarsi di dieci anni l’età media del nostro pubblico, arrivata a trentasette anni per gli eventi nei club e quarantasei per quelli nei teatri.

A suo avviso, cosa dovrebbe-potrebbe fare lo Stato per migliorare la situazione delle attività festivaliere, rassegne jazz italiane?

Crediamo che il ministro Dario Franceschini stia facendo un lavoro decisamente apprezzabile: nell’anno di Mantova Capitale della Cultura sentiamo la presenza positiva dello Stato e la volontà di sostenere attività culturali di qualità che nascano dal territorio. Una maggiore semplificazione normativa e la possibilità di usufruire gratuitamente di teatri e di altri luoghi dove portare gli spettacoli sarebbero fattori di grande aiuto per festival come il nostro.

C’è un particolare fermento «istituzionale» che ha mosso diversi animi, tanto da crearsi alcune associazioni. Pensa che sia questa la strada giusta?

A Mantova, come d’altronde in altre realtà, la sinergia tra istituzioni pubbliche e associazionismo è stata la chiave della nascita del Festival trentacinque anni fa, così come del suo successo nel tempo. Che lo schema oggi si riconfermi nella sua bontà non può che farci piacere.

Vuole illustrarci il programma di quest’anno?

Ogni edizione vede una traccia di fondo, una sorta di invito alla riflessione su aspetti particolari della scena jazzistica. L’edizione 2016, che abbiamo deciso di sottotitolare “Just Jazz”, pensando al nome dei concerti organizzati da Gene Norman nell’immediato secondo dopoguerra, ha l’intenzione di riunire nel cartellone musicisti anche molto diversi ma che si pongano il problema di aggiornare, senza tradirli, gli elementi stilistici da sempre caratterizzanti il grande jazz. Il festival presenta, accanto alla sezione principale Just Jazz, una seconda sezione (Not Just Jazz) con musicisti la cui sperimentazione guarda anche a forme non così legate ai linguaggi più strettamente jazzistici. Vi è anche una terza sezione con due eventi speciali legati al cinema. Mi rimetto al testo di presentazione che riassume il senso del festival 2016 con le schede introduttive dei musicisti ospiti del festival:

«Il jazz, dopo gli esplosivi anni Settanta, ha finito con l’identificarsi quasi totalmente con l’idea di “fusione”, rivelatasi sempre proficua a partire dalla sua nascita nella multi-etnica e multi-linguistica New Orleans di inizio Novecento.  E’ così che nei festival, specie quelli europei, si sono sempre più spesso sentite musiche magnificamente eseguite, ma a volte prive di quel sapore e di quegli ingredienti che hanno reso il jazz così grande ed indispensabile nel corso della sua vertiginosa corsa lungo le strettoie del secolo breve. Due fra tutti: lo “swing”, quel contagioso ed inafferrabile mistero ritmico in grado di mutare di era in era e di musicista in musicista e, secondo ingrediente, la conquista da parte del musicista di una voce poetica fortemente individuale, lontana da riproduzioni e comodi stereotipi.  Ecco perché il Chiozzini ha deciso di dedicare l’edizione 2016 alla celebrazione di questi caratteri. Il che non ha significato mettere in fila alcuni di quei bravi ma antistorici revivalisti per i quali il tempo non sembra essere mai passato. Ma al contrario identificare musicisti propulsivi che abbiano saputo incorporare quei tratti nel proprio percorso poetico, aggiornandoli e piegandoli creativamente, come ogni grande jazzman ha sempre fatto. Da qui la scelta della superband di John Scofield con Steve Swallow, Larry Golding e Bill Stewart, impegnata nell’eterno ampliamento dell’idea di “jazz standard”, questa volta verso le praterie della “country song”. O quella di tre dei più folgoranti giovani talenti emersi negli ultimi anni: l’intenso trombettista afroamericano Ambrose Akinmusire, il geniale batterista Mark Guiliana (il tappeto ritmico dell’ultimo commovente David Bowie), e l’incontenibie pianista gallese Gwilym Simcock con i suoi Impossible Gentlemen. A questi si aggiungono il prodigioso Kurt Rosenwinkel, una delle voci chitarristiche più stupefacenti  degli ultimi decenni ed infine, come evento speciale del festival, la strepitosa ed esplosiva Dee Dee Bridgewater, una delle regine della vocalità jazz di oggi. Pensando ad un titolo ci è sembrato impossibile, date queste premesse, non rubare l’idea di Gene Norman, che nel lontano 1947, per i suoi memorabili concerti di all stars, coniò la bellissima formula “Just Jazz”, “semplicemente jazz”. Ma, data la vastità dell’attuale offerta musicale che, nei modi più obliqui e sorprendenti, fa comunque riferimento a jazz e improvvisazione,  il Chiozzini presenta Not Just Jazz!, una sezione di segnalazioni che comprende tre delle proposte più fresche ed eccitanti della scena attuale: le violiniste Sarah Neufeld e Eloisa Manera e il liutista olandese Jozef van Wissem.  A completamento del festival due eventi speciali dedicati al cinema: la grande musica dei film Disney, nei freschi arrangiamenti di Mauro Negri, affidata alle voci del trio vocale Boo Boo Dolls, sarà il veicolo, nel clima pre-natalizio, per avvicinare al jazz anche gli ascoltatori più giovani con le loro famiglie. E una piccola retrospettiva cinematografica dedicata a Jim Jarmusch sarà invece il modo più diretto per accogliere Jozef van Wissem, il musicista che ha curato le colonne sonore degli ultimi due capolavori del regista di Akron».

Maggiori informazioni sul sito: http://www.mantovajazz.it/ e anche su  https://www.musicajazz.itmantova-jazz-xxxv-edizione/

Alceste Ayroldi

Foto di copertina: Danilo Perez & Wayne Shorter al teatro Sociale. Autore: Nicola Malaguti