IN VIAGGIO CON MASSIMO COLOMBO

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LA VALIGIA IDEALE DI MASSIMO COLOMBO: QUADERNI DI MUSICA CON COPERTINA MARRONE E CARTA GIALLA.

Composizione e didattica sono i due aspetti principali della tua attività di musicista?

Sì. La didattica mi permette di dedicarmi alla composizione e, in tutti questi anni, i miei lavori hanno anche avuto un’utilità didattica e formativa. Scrivo perché mi vengono le idee, senza bisogno di una commissione e senza pensare a quel che avverrà dei miei brani o che saranno usati – da me o da altri – a scopo educativo.

Di recente mi ha scritto una ragazza di Napoli per dirmi che, nel programma del diploma di pianoforte classico, tra gli autori del Novecento erano inseriti dei miei lavori, e so che parecchi vibrafonisti hanno utilizzato la mia Sonata per pianoforte e vibrafono per l’esame di diploma. Sono felicissimo che i miei lavori vengano utilizzati. Ho anche avuto richieste con l’orchestra per un festival a Padova o per «Conserto», un disco di qualche anno fa con Pierre Favre alle percussioni e che fu commissionato da Bergamo Jazz.

Certo è che non potrei fare solo il compositore: occorre essere già «famoso» per venire considerato e devi avere i contatti giusti. Purtroppo funziona così. Mi sono anche occupato di colonne sonore ma avrei dovuto lavorare gratis: forse era questo il passaggio obbligato ma ho preferito lasciar perdere.

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Massimo Colombo (al centro) con Peter Erskine e Darek Oles

La tua musica scritta ha una visione aperta ai generi.

Fare il musicista classico non era proprio nelle mie corde. Inoltre, già a a sedici anni devi essere al top. Io, invece, ho studiato prima l’organo e solo a diciott’anni sono passato al pianoforte: sono due strumenti completamente diversi e, nonostante i dieci anni di organo, patii le pene dell’inferno per mettermi allo stesso passo con il pianoforte. Però l’aver studiato l’organo mi è servito ad avere un approccio inconsueto al pianoforte, perché l’organo ha una concezione legata alla polifonia, al legato; per dire, il pedale sustain del pianoforte per me potrebbe anche non esserci, non lo userei proprio, mentre se lo togli ai pianisti li mandi nel panico.

Ascoltandoti suonare jazz si capisce che non perdi mai di vista la musica classica.

Di recente ho inviato alcuni miei lavori a Marcello Piras, che per me ha una cultura musicale importante, e lui mi ha risposto che trovava in me delle caratteristiche originali e che, per questo, sono riconoscibile in quello che scrivo. È una considerazione molto importante, che testimonia la mia identità in ogni cosa che faccio, si tratti di un disco di jazz o di musica scritta.

Non ho neanche mai registrato un disco con musiche di grandi autori del jazz, perché non credo che per essere jazzista si debba per forza realizzare un disco con brani di Monk o di altri; l’ho fatto solo con l’Inside Jazz Quartet, ovvero Tino Tracanna e Attilio Zanchi che, come me, hanno sempre inciso dischi di musica originale. Scegliemmo tra gli standard più inusuali di Monk, autore che è sempre piaciuto a tutti noi, di Wayne Shorter che è più moderno e molti dei cui brani sono diventati standard, e di altri autori contemporanei ma che ancora non vengono suonati o trattati come i jazzisti della vecchia scuola: Steve Swallow, che ci ha scritto le note di copertina, e Carla Bley.

Io posso suonare tutto il repertorio di Parker, o di Bud Powell che mi piace, ma non ho mai pensato di registrare un disco su di loro. Magari un domani mi verrà voglia di farlo; però forse adesso non è più così necessario passare da quella strada perché molti jazzisti, anche giovani, eseguono brani originali.

Diversa cosa per gli allievi del Conservatorio: al primo anno iniziano a studiare l’Omnibook di Parker e devono impararne tutti gli assolo, altrimenti non potranno mai conoscere a fondo il linguaggio bop.

Da cosa ti deriva una creatività così proficua e mai uguale a se stessa?

A otto anni mio padre mi comprò una tastiera e mi iscrisse a una scuola di musica; io studiavo ma mi divertivo quando potevo suonare liberamente. Improvvisare è da sempre una mia caratteristica. Poi andando avanti, in particolare quando affrontai l’armonia, iniziai a usare lo studio in modo creativo e non solo per superare gli esami. In questo mi diede una grossa spinta Corradini, il mio insegnante di composizione. In seguito incontrai Roberto Bassa, che mi aprì il mondo della conoscenza e della cultura musicale, mi convinse anche a passare dall’organo al pianoforte, mi fece leggere l’impossibile e mi suggerì di fare delle audizioni da qualche pianista concertista, indirizzandomi verso quello che divenne l’altro mio maestro importante, Alberto Colombo, che ha fatto la differenza per quanto riguarda la tecnica, il tocco, l’approfondimento dello studio. I maestri sono fondamentali. La spinta verso il jazz, invece, mi arrivò da Sonny Taylor, un pianista caraibico che abitava a Milano e suonava nei locali; fu lui a darmi le prime indicazioni, a suggerirmi i primi standard, a indicarmi i dischi importanti che io mi trascrissi uno per volta dalle cassette audio: ascoltavo, fermavo, memorizzavo, rallentavo nella mente se ne avevo bisogno e poi scrivevo, trascrivevo anche gli assolo dai dischi che mi passavano gli amici: è la strada che seguì Charlie Parker imparando tutti gli assoli di Lester Young. A casa avevo una intera biblioteca di tutti quei quaderni di musica con la copertina marrone e la carta gialla che oggi non ci sono più: ne avevo una collezione. In seguito ebbi dei suggerimenti anche da è un bravissimo pianista come Mario Rusca.

Il tuo percorso nel jazz è stato personale?

Direi di sì; un maestro ti indica la strada, poi dipende da te … Quando un ragazzo ha del talento gli dico ciò che dovrebbe fare, lui cerca di localizzare il suggerimento e si mette al lavoro. Con i miei maestri è sempre stato così, poi è ovvio che devi studiare.

«Tale Spinnin’» dei Weather Report fu il disco che mi accese una luce sul jazz; in seguito venne il resto ed ebbi una folgorazione per Bud Powell. Ancora oggi è il mio pianista preferito e rimane un punto di partenza fondamentale per lo sviluppo dell’improvvisazione pianistica. A Bud non si può sfuggire. Poi c’è Monk: lui e Powell sono pianisti del tutto diversi.

Ho imparato soprattutto dai dischi: Charlie Parker, Powell, Monk e Bill Evans. Ho iniziato con il jazz vero e proprio perché era quella la mia strada, come quando incisi «Games»; nel frattempo iniziai un altro percorso musicale, quello di Linea C, e contemporaneamente incisi «Composizioni», un album di musica scritta che comprendeva una serie di studi per pianoforte e tratti jazzistici.

Riconosci Powell nel tuo modo di suonare di adesso?

Si, lo sento, anche se può sembrare estraneo a quel che suono e scrivo. Anni fa lo fece notare anche Maurizio Franco, che è un altro di quelli che sanno cogliere l’essenza delle cose.

Hai avuto altre influenze importanti?

Durante la mia parentesi con le tastiere la più importante fu quella di Joe Zawinul: lui è il maestro di tutti.

La tua è una creatività complessa. Sai cosa stai cercando o lo scopri strada facendo?

Un paio d’anni fa mi resi conto di non aver mai scritto delle sonate. Iniziai quindi a scriverne una per vibrafono e pianoforte; in due mesi, oltre a quella, ne scrissi anche una per basso elettrico e vibrafono. Le registrai e in seguito furono pubblicate da Carisch. La terza, per pianoforte e violino, è ancora in lavorazione ma non ne ho più avuto voglia: un altro dei miei tratti particolari. Invece il Clavicembalo ben temperato, che ho sempre sul pianoforte e che suono regolarmente perché mi fa star bene, mi ha dato lo spunto per realizzare una cosa analoga con il blues. Ho quindi scritto una serie di blues nelle dodici tonalità maggiori e relative minori, diversamente da Bach (che scrisse i Preludi e le Fughe nella tonalità maggiore e parallela minore). Ho realizzato il tutto su un piano digitale con la tastiera di un pianoforte a coda da concerto, il VPC1 Kawai, e potrebbe anche diventare un’opera didattica.

Anche la tua vita artistica è scandita da periodi?

Dal punto di vista artistico vivo alla giornata. Per esempio, in questo periodo sono impegnato e concentrato su questo nuovo progetto dei blues e non ho la minima idea di cosa farò in seguito. Poi dovrò dare una svolta alle mie sonate e metterne in piedi una quarta. Le idee mi vengono strada facendo ma ci vuole anche il tempo per realizzarle.

Quando suoni jazz dai l’impressione che ciò che fai sia semplicissimo.

In un concerto di jazz è proprio così, sono rilassato e tranquillo, mi sento libero e sono felice perché sto improvvisando; la preparazione tecnica semplifica l’esecuzione e questo lo capisce anche chi ascolta. Invece ho difficoltà a gestire l’esecuzione della musica scritta, anche quando è la mia, e quindi cerco di evitarlo: ci vuole una concentrazione totale e un controllo emotivo notevole. Con queste qualità ci devi nascere: difatti il concertista classico è, a volte, soggetto a uno stress gigantesco. Per questa ragione mi piacerebbe far eseguire le mie sonate a musicisti classici: per me sarebbe come liberarmi da un peso.

Ascoltandoti sembra che tu stia guardando lontano: è colpa del tuo stile, che non esclude mai la musica classica?

Ciascun brano stimola a fare determinate cose, che vengono naturali. Io non preparo mai le improvvisazioni e spesso questo mi è stato fatto notare, specialmente in studio: d’altronde se sto improvvisando non può essere uguale, se invece voglio un certo tipo di suono seguo una certa strada, un canovaccio, e l’improvvisazione può essere simile ma non è mai la stessa. È il caso del brano Trio Grande, che ha un’introduzione di pianoforte solo: quando eravamo in studio ne ho fatte tre, poi ho chiesto quale avremmo tenuto: per me poteva essere una qualunque, tutte possedevano il suono che avevo in testa. Alla fine è stata scelta la prima. Se dovessi rifarla oggi non sarebbe più la stessa ma avrebbe analoghe caratteristiche.

Come dev’essere per te un pianoforte?

Se devo suonare con altri un repertorio anche di standard, suono sul pianoforte che è disponibile, mi adeguo, non sono schizzinoso e mi diverto (ma devo ammettere che ho sempre trovato dei bei pianoforti). Se invece ho un concerto di piano solo devo trovarmi in un teatro dotato di un pianoforte importante, altrimenti niente concerto; se devo suonare delle cose mie voglio offrire un certo tipo di ascolto, e quello dev’essere.

Quando hai un gran coda non fa differenza che sia uno Steinway, uno Yamaha o un Kawai: se sono pianoforti da concerto sono comunque grandi pianoforti. In questo sono sempre stato accomodante. Per esempio, mi è capitato di suonare un Fazioli che non mi è piaciuto tantissimo: pur essendo uno strumento molto acclamato mi ha messo ansia, ha una risposta forse eccessiva, è troppo energico. Certo, è un fatto legato alla tastiera, alla risposta del tasto, possiede una dinamica notevole che va dosata e, per saperla gestire, occorre «suonarlo» un po’ più degli altri che sono invece più duttili, li puoi gestire meglio e quindi ci si ambienta più velocemente.

Essere un compositore ti aiuta a perfezionare il tuo pianismo?

Si, sono due cose che vanno di pari passo perché mi piace suonare il pianoforte. Il mio maestro mi raccomandava: «Studia ma non dimenticarti che sei un pianista, perché se smetti di suonare il pianoforte e scrivi solamente, non suonerai più il pianoforte».

Come affronti un brano non tuo?

Non diversamente da come mi muoverei se il brano fosse mio: vedo una linea melodica e delle sigle accordali e faccio quel che mi viene. Se il brano è di altri autori è chiaro che non lo stravolgo, altrimenti non sarebbe più riconoscibile. Di recente ho suonato con Tommaso Starace il repertorio di Petrucciani e l’ho affrontato come si trattasse di standard.

È diverso suonare uno standard o un brano originale contemporaneo?

Dipende solo dallo stile che vuoi suonare. Per esempio, quello del bop è il periodo che mi affascina di più perché dà grande importanza all’aspetto melodico, anche se per un pianista non dovrebbe essere così; Coltrane non mi piace tantissimo e McCoy Tyner non è uno dei miei pianisti preferiti. Che poi si tratti di un brano contemporaneo o di uno standard è indifferente, per me sempre di giri armonici si tratta.

Dai importanza alla melodia?

Il pianoforte è un’arma a doppio taglio perché puoi suonarlo anche per accordi; se gli togli la mano sinistra, un pianista diventa la persona più smarrita della Terra e non sa cosa fare con una mano sola. Per me è assurdo, le cose bisogna averle in mente, non si deve avere necessariamente bisogno dell’aiuto di questa o quella parte del corpo. È un problema che vedo anche con i miei allievi. Si tratta di un aspetto negativo del pianoforte e di gran parte della tecnica pianistica.

Quando suoni, in che contesto poni la musica e l’improvvisazione?

L’improvvisazione deve essere adeguata al brano o al compositore. Su un pezzo di Dave Holland non adotterò la stessa improvvisazione che su un pezzo di Bud Powell. Capita che sia necessario rispettare una certa filologia, ma sono più contento quando posso creare un’esecuzione alla mia maniera.

In alcuni tuoi album sei stato anche direttore d’orchestra: le tue impressioni?

Ho diretto dal vivo il World Ensemble, un organico di tredici elementi; fu un’esperienza positiva ma faticosa perché devi tenere a bada tutti quanti, e questo è un altro aspetto che preferisco delegare. Per me è importante la fase della scrittura e dell’arrangiamento e mi rendo conto che, quando ho finito di scrivere, il mio lavoro è chiuso; nella fase di realizzazione mi metto sempre le mani nei capelli. Nel mio Concerto per trio e orchestra d’archi c’era un direttore e io suonavo il pianoforte. Con la mia scrittura c’è sempre di mezzo il pianoforte, è il mio strumento; non voglio certo paragonarmi a Chopin ma penso di avere il suo stesso atteggiamento. Anche Chopin avrebbe potuto fare chissà cosa, ma gli piaceva il pianoforte e scriveva sempre per quello; lo stesso faccio io.

Ci sono musicisti con cui avresti voluto suonare?

Parker, Coltrane e Davis (all’epoca del gruppo con Hancock e Shorter). Tra chi è ancora in attività, Wayne Shorter è un musicista che mi affascina perché è un compositore, ha scritto musica splendida e ha avuto un sacco di interessi. In ambito jazzistico potrei forse dire che è il mio compositore preferito e alcune sue cose le tengo bene in testa.

È importante avere gruppi propri?

Non ho un gruppo mio. Prendi per esempio «Trio Grande»: è uscito un bel disco e già lo considero un capitolo chiuso. Per me è determinante realizzare le cose, per il resto ci vuole una persona che si occupi delle questioni pratiche e quella non sono io. Mi interesserebbe avere un gruppo se ci fosse un progetto di concerti nei teatri o in situazioni di rilievo, altrimenti preferisco dedicarmi ad altro. Per la vita quotidiana, invece, so di poter contare sulla mia attività didattica.

Il tuo bilancio nella musica è positivo?

Sono soddisfatto perché ho sempre fatto quello che volevo fare; non sono finito sulla prima pagina dei giornali ma non era questo l’obiettivo. Mi dispiace che un gruppo come Linea C, con delle potenzialità notevoli anche fuori dall’Italia, sia stato sottovalutato e non abbia potuto esprimersi, con i suoi dischi che sono praticamente scomparsi. Non si è trattato di un problema manageriale, perché la DDD aveva un ufficio stampa di pregio, ma del fatto che non è stato minimamente considerato recepito nell’ambiente jazzistico, forse perché c’erano due musicisti di area rock. È stato un grosso limite della pubblicistica musicale, una mancanza di apertura, mentre poteva essere un capitolo interessante e alternativo alla PFM e agli Area (che, giustamente, hanno avuto grande considerazione). I primi due album di Linea C, «Linea di confine» e «Mappa di un possibile viaggiatore» furono addirittura paragonati ai Weather Report che, a mio parere, con noi non c’entravano nulla: il nostro retaggio classico era ben udibile nelle parti orchestrali.

Fotografie: cortesia Massimo Colombo (trio); Roberto Cifarelli.

(il resto dell’intervista è disponibile sul numero di dicembre di Musica Jazz)

Patrizia Landriani