«BRASIL 2015». INTERVISTA A MAX MONNO

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«Brasil 2015» è il nuovo disco di Max Monno (Fo(u)r Edition), dedicato a Sergio Mendes. Ne parliamo con lui.

Max, tanta passione e un’evocazione filologica, anche nella copertina, di «Herp Albert presents Sergio Mendes & Brasil  ‘66». Come nasce questa idea?

I miei lavori discografici nascono posteriori ai live. In genere non penso di realizzare un cd, ma penso di fare dei concerti: avevo quindi preparato una serie di arrangiamenti da portare in giro, e quando questa cosa ha preso una forma che mi piaceva,  è nata, successivamente, l’idea di «fermarla  in una fotografia». Quando prepari un progetto cerchi un’idea, un comun denominatore perché il concerto non sia una presentazione anonima di brani più o meno conosciuti, e il Brasile di Sergio Mendes mi era sembrata una buona idea, coinvolgente prima di tutto per me che avevo conosciuto la musica brasiliana non dai suoi autori colti, Jobim, Elis Regina, João Gilberto, Vinicius de Moraes, Baden Powell, ma da un nastro C90 su cui era registrato Mendes con i suoi Brasil ’66.

Ad eccezione di Groovy Samba, i brani in scaletta non sono firmati da Sergio Mendes, ma sono canzoni che fanno parte della storia della musica popolare brasiliana. Qual è il valore aggiunto di Mendes?

Non so se ci sia un valore aggiunto. Da quello che so molti suoi conterranei lo accusano anzi di avere commercializzato una musica che era frutto di un movimento intellettuale fatto da intellettuali, poeti, uomini di cultura. Del resto è facile trascendere e passare da Pais Tropical al trenino di capodanno! Ma proprio questo aspetto forse, a ben pensarci, può essere il valore aggiunto che cerchiamo. La musica brasiliana deve a Sergio Mendes la sua diffusione nel mondo anche non intellettuale. Le radici della bossa nova sono popolari, il samba è popolare, lo choro è popolare: Mendes restituisce la bossa nova al popolo, e al popolo consegna per sempre le bellissime canzoni di quella cerchia di intellettuali che avevano dato il via a tutto. Certo il rischio, dietro l’angolo, è quello di esagerare, e di banalizzare tutto trasformando la bossa nova in un semplice ritmo invece che in una vera cultura, e fare musichetta da ascensore o da festicciola. Confesso comunque che nel mio ascensore preferirei sempre e comunque ascoltare un brano dei Beatles riarrangiato da Mendes che della musica house!

Hai ricevuto anche il placet pubblico di Sergio Mendes.

Non sono una persona vanagloriosa né particolarmente arrivista (lo dico nel senso buono di una persona che vuole arrivare, cosa che in sé non è negativa), per cui non ho cercato da subito il contatto con Mendes, tant’è che quando si è concretizzata questa possibilità ho corso il rischio di non riuscire a stampare il cd in tempo per ricevere le sue parole da scrivere in copertina. Poi però mi sono detto: perché non fargli ascoltare un lavoro a lui dedicato e ispirato? Ecco la ricerca – non facile – del contatto. Approfitto per ringraziare il suo produttore alla Okeh Records, Wulf Muller, persona gentilissima e disponibilissima, che si è interfacciata con me con una semplicità a me incomprensibile, abituato come sono alle mancate risposte degli interlocutori discografici di casa nostra. Ho avuto – confesso – un po’ paura a farglielo ascoltare, ma ho pensato che fosse un atto dovuto. Mi dicevo: «Adesso mi risponde dicendomi: come ti permetti?». Entrare in una cultura che non è tua è sempre difficile e pericoloso, ma scoprire di essere riuscito per lo meno a non fare inorridire chi in quella cultura è a pieno titolo tra i più grandi esponenti, mi ha di fatto reso felice.

Secondo quale criterio hai scelto i brani in scaletta?

L’affetto personale e un po’ di «occhio clinico» da ascoltatore. Ho puntato la mia attenzione sulla la prima parte della sua carriera, quella che parte come jazzista negli anni brasiliani e arriva poi in Nord America con i Brasil ‘66. Ci sono dei classici che non possono mancare, altri meno conosciuti che meritavano di essere recuperati; un riarrangiamento di un brano dei Beatles che rappresenta una delle facce di Mendes di quegli anni; qualche brano strumentale per omaggiare il periodo brasiliano che lo vide incidere un bellissimo lp con Cannonball Adderley; e in ultimo un mio inedito, scritto con riverenza, dato l’accostamento con cotanti capolavori, con l’idea di riproporre il sound di quegli anni.

Qual è stato l’aspetto più difficile di questo disco?

Direi tenere in equilibrio l’omaggio (Mendes è un interprete, quindi l’omaggio non poteva non passare attraverso la riproposizioni di alcuni aspetti tipici dei suoi arrangiamenti, del modo in cui gli strumenti suonano, come ad esempio certi fill o certi stop di batteria, o certe armonizzazioni vocali) e il tocco personale da musicista riverente ma non servile. Il rischio, in epoca di cover band, era forte e mi ha fatto tremare, ma spero di essere riuscito nell’intento.

In un momento in cui buona parte dei jazzisti cerca di «andare avanti», tu fai un passo indietro e suoni la bossa nova. Ti va di andare controcorrente o c’è dell’altro?

Ci sono due aspetti da considerare. Il primo è molto personale: non so se sono un jazzista in senso stretto! Il mio percorso musicale è molto variegato, e molte sono le componenti che sento attive dentro di me. Per cui non sono molto “bravo” a sapere cosa un «bravo jazzista» dovrebbe fare o non fare. Come dicevo prima, io scopro cose e quelle cose mi entusiasmano, le integro in me, diventa naturale per me sentirle e avere voglia di esprimerle. Magari mi viene ancora naturale, una sera qualunque, prendere la mia  Fender Stratocaster e suonare un rock’n’roll di Chuck Berry. Lo so che questo non è ben visto in questo periodo, in questo momento in cui il jazz è aggredito da più parti nei suoi spazi vitali. Ma questo sono io, un melting pot di sentori e contaminazioni. Però, mentre da un lato non so se sono jazzista puro, so che mi sento tale appieno, anche nel senso della libertà musicale: libertà anche di andare in una direzione a prescindere dalle mode del momento. Ecco quindi, conseguente, il secondo aspetto: credo poco nelle direzioni musicali prese per scelta preventiva, nelle «correnti» giuste e nelle controcorrenti. Non penso che la concatenazione giusta sia pianificazione della direzione – strategia – musica. Per me un musicista sincero suona e va in una direzione per una urgenza, magari anche condizionata dagli eventi sociali, ma trattasi di urgenza, voglia di suonare, esprimere quello che sente. Io non so se sono un jazzista, non so se ho fatto un buon disco, non so nemmeno se so suonare bene la chitarra, mi limito a fare ciò che sento, che mi piace, che mi coinvolge.

Parliamo anche dei tuoi sodali. Avevi già programmato questo gruppo, oppure qualcuno è salito sul carro strada facendo?

Francesca Leone alla voce e Pippo Lombardo al piano, sono i due rappresentanti secondo me più autorevoli della bossa nova dalle nostre parti; Marco Giuliani alla voce, supporto vocale maschile; Gianluca Fraccalvieri e  Fabio delle Foglie, sezione ritmica precisa e affidabile, affiatata: questi erano i componenti del live. Ho aggiunto Enzo Falco alle percussioni e il flauto di Francesco Lomangino. Poi, l’idea di coinvolgere lo splendido e generoso Fabrizio Bosso, che mi ha regalato la sua partecipazione, impreziosendo tre brani con la sua presenza elegante e straripante. Diciamo che più che salire sul carro, è stato afferrato per il bavero in corsa!

Tu non sei un musicista freneticamente prolifico: «Brasil 2015» è il tuo secondo disco da leader e arriva a distanza di cinque anni da «Treni a vapore». E’ una scelta o una causalità?

Fare un disco deve essere un punto d’arrivo; da questo punto di vista credo che bisogna farlo quando hai qualcosa da dire. Ci sono persone che parlano di più e altre che parlano di meno: l’importante è dire cose sincere! Sono lento, lo ammetto. Ma noi musicisti non facciamo solo i musicisti: dobbiamo essere insegnanti, grafici, manager, imprenditori, e il tempo è poco per uno che deve fare da solo tutti questi mestieri! Inoltre oggi realizzare un disco è un’operazione dispendiosa che è tutta sulle spalle dell’artista (questo il pubblico non lo sa, ma le etichette discografiche non producono più economicamente nessuno se non pochi grossi nomi, e anche a ragione, visto che i dischi non si vendono): da questo punto di vista trovare le energie finanziare per realizzare le registrazioni non è sempre facile. Del resto anche  il mercato dei live è sempre più esiguo, e chi produce  un disco – spesso – non riesce a restituire l’impegno e la partecipazione ai propri musicisti in termini di concerti.

Ora, bisognerà far ascoltare il progetto in giro. Quali sono le strategie che ti sei prefisso in proposito?

Questa è la domanda più difficile e sono impreparato. Se fossi uno che sa cosa fare, forse sarei già in programmazione in qualche rassegna. Invece la verità è che non sono bravo come imprenditore, le strategie commerciali non sono per me, sono abbastanza ingenuo e non ho ancora capito bene che strade seguire. Promuovere il mio lavoro commercialmente proprio non lo so fare. Lo so che non è bello quello che dico, ma è la verità. Sarebbe splendido se in questo settore nascesse la figura manageriale dell’agente di spettacolo per piccoli e medi artisti, una figura imprenditoriale competente con cui completarsi.

Max, chi ti ha condotto verso la via della musica e, in particolare, del jazz?

La musica ha fatto sempre parte della mia vita da quando mio padre decise di regalarsi quella chitarra che da ragazzino aveva sempre sognato e mai avuto: avevo dodici anni e  la presi io, imparando a suonarla da autodidatta, con la musica della radio, attraverso le canzoni di quegli anni. Al jazz sono arrivato invece da adulto, grazie a Guido Di Leone, chitarrista jazz di spicco della nostra terra ed esperto didatta: in qualche modo, di quello che ho fatto, nel bene e nel male, è responsabile anche lui. Siamo coetanei, ma a me piace chiamarlo Maestro, tutti dobbiamo avere un maestro! A pensarci bene, quel famoso nastro C90 con le registrazioni di Mendes era suo: il cerchio si chiude!

Chi è il tuo musicista di riferimento?

E come potrei dirtelo, se sono così ignorante che ogni giorno ne scopro uno? Posso dirti che Barney Kessel è per me un faro nel mondo della chitarra. Spesso si parla di Charlie Christian, Django Reinhardt, Wes Montgomery, George Benson, Pat Metheny e sono dei grandi: ma io sento molto vicino a me questo fantastico uomo che vedeva la chitarra come una piccola orchestra, con i suoi soli pieni di accordi, di linee incredibilmente melodiche: un chitarrista che in trio sembra abbia l’accompagnamento di un pianoforte.

Una persona che ha influenzato, positivamente o negativamente, la tua vita musicale.

Ci sono state tante persone, tanti incontri. Tanti avrei voluti farne. Ma l’ascolto di  I’ve Grown Accustomed To Her Face suonata da Wes Montgomery nel disco «Full House», quando avevo sedici anni, lo considero un segnale del mio futuro amore per il jazz. Rimasi folgorato e studiai quell’armonizzazione a orecchio, anche se poi mi separai nuovamente dal jazz per molti anni ancora. Faccio finta che quel giorno io abbia incontrato Wes. Poi,  ho già citato Guido Di Leone. Un’altra persona importante, che voglio ringraziare, è Massimo Manzi: ho realizzato il mio primo disco solista perché lui mi ha provocato a farlo, coinvolgendo per me anche Massimo Moriconi: senza le sue provocazioni forse sarei rimasto fermo a casa mia.

Quali sono i tuoi prossimi impegni e progetti?

Vedremo nei prossimi cinque anni cosa succederà! Ci sono cose che si muovono, come una rilettura del songbook di Tom Waits, o come un quartetto jazz con pianoforte con il quale finalmente posso suonare solo strumentali in un percorso ideale che mi sta portando, attraverso gli anni, a passare dalla forma canzone al jazz strumentale: questo potrebbe essere il mio prossimo lavoro, in aria di West Coast. Ma come ho detto, fare un disco è un’operazione difficile e preziosa, da realizzare con calma. Per questo per il momento, mentre faccio crescere in questo quartetto questo nuovo aspetto della mia musicalità (che devo dire mi sta già dando grandi soddisfazioni) ,vorrei dedicarmi a portare un po’ in giro, se posso, il mio «Brasil 2015».

Alceste Ayroldi