«A NEW DANCE», INTERVISTA A ROTEM SIVAN

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«A NEW DANCE», INTERVISTA A ROTEM SIVAN

di Alceste Ayroldi

Si chiama «A New Dance» il nuovo album di Rotem Sivan, chitarrista israeliano residente a New York. Ne parliamo con lui.

Mr Sivan, l’essere nato a Gerusalemme ha influenzato la sua visione della musica?

Israele è un crocevia di musiche e l’essere cresciuto  in un ambiente che mette insieme la cultura occidentale e quella orientale, ha sicuramente influenzato la mia percezione della musica. Le cantate di Bach, le canzoni della tradizione araba e Jimmy Hendrix fanno parte del mio linguaggio musicale.

A Tel Aviv lei ha studiato musica classica e sembra proprio che la struttura dei suoi brani ne risenta positivamente.

Amo la musica classica. E’ stato fondamentale per me studiare composizione classica, perché mi ha consentito di comprendere meglio le strutture musicali in generale. Ciò che ho imparato è che tutta la musica è costruita principalmente su tensioni, progressioni e rilascio. Ci sono molti linguaggi e dialetti, ma io ero – e lo sono ancora – molto curioso sui differenti modi in cui si sviluppano le progressioni melodiche, armoniche e ritmiche. Ho sentito la necessità di tornare indietro ed esplorare i «maestri» che mi avrebbero fatto comprendere a fondo la questione.

Rispetto al suo precedente lavoro discografico, «A New Dance» sembra legarsi più al suono statunitense. Ha voluto mettere da parte le sue origini?

Intendo la musica come qualcosa di istantaneo che esprime un determinato momento artistico. La musica che abbiamo suonato nel nuovo album rappresenta, con schiettezza, ciò che sentiamo in questo momento. Preferisco pensare in questo modo, piuttosto che all’essere legato, più o meno, alla mia eredità culturale. Tutti noi cambiamo, cresciamo e ci evolviamo nel tempo. Sebbene conservi sempre la mia identità culturale, la mia musica rispecchia la mia attuale prospettiva e il mio stato d’animo.

Con riguardo alle sue origini, quanto e in cosa hanno influenzato le sue composizioni e la sua tecnica?

Il mio primo insegnante di chitarra alle scuole elementari suonava canzoni e io le cantavo. Ho solo vaghi ricordi, ma penso che ciò mi abbia fortemente influenzato, tanto da aver voluto suonare la chitarra. Gerusalemme è una città molto intensa e da questa realtà vibrante e multiculturale vengono fuori grandi idee artistiche in vari ambiti. E io ho sentito molto questo spirito creativo che ha tracciato la mia crescita.

Qual è il suo riferimento musicale?

Quando ho iniziato a studiare e suonare jazz, ero solo interessato al bebop. Lentamente, le mie orecchie si sono aperte e ho iniziato a vedere le cose da una più ampia prospettiva. Ho avuto anche una fase in cui ciò che ascoltavo e che volevo suonare era solo lo swing più puro. I maestri come Wes Montgomery, Wynton Kelly, Bill Evans sono stati (e lo sono tutt’ora), alcuni dei miei eroi.

Chi o cosa l’ha spinta a suonare la chitarra?

Ricordo che un amico di mio fratello mi diede alcuni album jazz. Mi appassionai e lentamente ho iniziato ad ascoltare e scoprire tanti altri nuovi musicisti come John Scofield, Philip Catherine, Pat Metheny, e anche Wes Montgomery, Joe Pass e tanti altri. Il primo album che ho avuto era di Pat Metheny e quel disco mi ha veramente influenzato. Ricordo che non capivo cosa stesse succedendo in quella musica, ma ero tremendamente felice di vivere quell’universo musicale.

Mr Sivan, il suo trio è nato in un club di New York. Come vi siete incontrati?

Haggai Cohen-Milo l’ho incontrato durante una seduta di registrazione. Ricordo che suonavo con lui e mi dicevo: «E’ proprio ciò che cercavo!».  Colin Stranahan l’ho sentii suonare in uno spettacolo quando studiavo alla New School e capii immediatamente che volevo suonare con lui. Sento qualcosa di veramente speciale in questo trio, qualcosa che mi entusiasma.

Un trio con due ospiti. Pensa che potrà diventare un quartetto o un quintetto?

Amo la struttura del trio e vorrei esplorarlo ulteriormente prima di passare ad altro. Mi piace collaborare con altri strumentisti e cantanti, così aver registrato il disco in trio con alcuni ospiti, è stata un’ottima soluzione. Ma ci sono ancora molti suoni e colori che voglio sperimentare con il trio.

La seduta di registrazione del suo ultimo disco è stata particolare.

E’ stata registrata dal vivo, seppur in studio. Abbiamo registrato di fronte a un pubblico, senza alcuna separazione e senza cuffie. Principalmente si è trattato di una performance dal vivo in un ambiente favorevole a una registrazione. Mi piace l’idea di catturare le immagini del suono del momento.

Qual corrente del jazz le interessa di più?

Mi piace tutta la musica; ovviamente intendo la buona musica che abbia qualcosa di reale e onesto da dire. Può essere jazz, blues, hip hop, rock, avanguardia, canzoni e così via. Ciò che mi interessa di più sono il significato e le intenzioni. Ho un sacco di dischi di bebop e di jazz contemporaneo ai quali sono legato.  Posso dire che dallo scorso anno sto prendendo in considerazione molti generi differenti di musica ai quali non ero aperto in passato.

Perché ha scelto di vivere a New York?

Volevo essere il più vicino possibile alla fonte del jazz e della musica in generale. Il talento musicale a New York è assolutamente sorprendente. Sono andato a scuola lì e mi sono innamorato della città e della scena jazzistica. Sento che c’è qualcosa di molto speciale a New York, in quanto ogni musicista cerca di imparare, suonare e condividere. Ho avuto l’opportunità di collaborare e perfino di suonare a casa mia con grandi musicisti come Clearance Penn, Ari Hoeing, Peter Bernstein, Ben Street, Shai Maestro, Ziv Ravitz e Ben Wendel. Condividere la musica e il palco con musicisti di questo calibro ti consente di imparare tantissimo.

Quindi, ritiene che la scena jazzistica newyorkese sia migliore rispetto ad altri luoghi?

La scena jazz newyorkese, probabilmente, è la più importante. Penso che ci sia qualcosa che ti spinge portandoti a un livello sempre più alto. Ti spinge a trovare una tua strada, a capire chi sei realmente e cosa mettere in campo e ti incoraggia a essere il più acuto possibile.

Vista la sua conoscenza della scena jazzistica newyorkese, quali sono i giovani da tenere d’occhio?

Mi piace molto Felix Lamerle: è un favoloso chitarrista originario di Parigi. Daniel Dor, mio caro amico israeliano, un mostro alla batteria. Nitzan Gavrieli è un formidabile pianista che ha molto da dire. Melissa Aldana, sassofonista cilena che ha portato una ventata di aria fresca, e Pablo Menares, appassionante bassista anche lui cileno. L’elenco sarebbe infinito: bisogna venire a New York!

Pensa che il marketing e la pianificazione siano importanti per un giovane musicista?

Penso che il marketing sia una parte cruciale del modello di business nella scena musicale odierna. Può fare la differenza nel far conoscere il prodotto musicale. Comunque, il nostro prodotto, la nostra musica deve essere autentica e onesta.

Con chi vorrebbe collaborare?

Brad Mehldau, Pat Metheny, Jorge Rossy e Brian Blade.

Cosa manca a Gerusalemme?

La pace.

A tal proposito, quali sono le sue riflessioni sul conflitto tra Israele e Palestina?

Penso che la sola vera soluzione sia la pace: non ci sono alternative. Sento che l’arte e la musica hanno un ruolo importante nelle intricate vicende mondiali. La musica non ha paesi e barriere, perché si basa su di un linguaggio universale che può portare la gente a stare bene insieme.

Quali sono i suoi progetti futuri?

Vorrei suonare con il trio il più possibile, esplorare e portare quanta più luce possibile tra la gente. Penso che la musica sia importante e possa veramente cambiare il mondo. Sono onorato di poter creare musica e spero di poter dare il mio contributo più che posso.

Alceste Ayroldi