«A CAPPELLA»: PARLA BILL HARE

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Intervista a Bill Hare

di Marta «Blumi» Tripodi

Come ogni estate è tornato il tradizionale appuntamento con Vocalmente, il principale festival italiano di musica a cappella contemporanea che si svolge a Fossano, ridente borgo medievale in provincia di Cuneo, e la rassegna è ormai giunta alla terza edizione, con un enorme successo di pubblico, una grande partecipazione degli addetti ai lavori e un afflusso di studenti di musica assolutamente fuori dal comune (la seconda edizione ve l’avevamo raccontata in un lungo reportage pubblicato sul numero 10/15 di Musica Jazz). Per quattro giorni, dal 25 al 28 agosto, l’intero paese si è trasformato in un palcoscenico a cielo aperto per le decine di cori, ensemble e solisti giunti da tutta Europa per imparare, condividere e far sfoggio delle proprie abilità vocali: concerti, improvvisazioni, seminari, competizioni per loop station e molto altro ancora, con la partecipazione straordinaria di eccellenze assolute come The Swingles, Voxes, Vox Viva, Women of the World e Slixs. Nonché Bill Hare, il più premiato e apprezzato produttore di musica a cappella del mondo, che dopo aver collezionato numerosi CARA Awards (i premi più prestigiosi assegnati alla musica a cappella contemporanea) a Fossano ha tenuto uno dei seminari del ciclo VocalMentor. Lo avevamo raggiunto al telefono nel suo studio di Los Angeles.

La musica a cappella è un fenomeno enorme negli Stati Uniti: esiste perfino un’apposita Wikipedia, denominata «Wikipella». Da cosa nasce questa popolarità?

In primis, l’idea che la scena a cappella più rilevante sia oggi in America è falsata, secondo me: ogni volta che vengo in nord Europa mi stupisco di quanto sia popolare rispetto a quello che succede da noi, ad esempio. Anche nel sud del continente e in Italia credo stia crescendo parecchio, anche se ovviamente è piccola se si confronta con quella scandinava. In ogni caso, se ci pensi, il nord America e l’Europa come continente hanno più o meno le stesse dimensioni, quindi a maggior ragione non ha senso dire che ci sono più appassionati (o più gruppi) di musica a cappella da noi: probabilmente sono due realtà equiparabili. Magari in USA risalta di più per via dei programmi tv dedicati, dei film, dei festival e via dicendo.

Come hai cominciato a produrre musica a cappella?

È stato un incidente di percorso! In origine ero un produttore qualunque, gestivo un piccolo studio a San Francisco. Trent’anni fa non esistevano attrezzature per la registrazione domestica, perciò se volevi incidere un disco eri per forza obbligato a rivolgerti a un professionista. Io non avevo un genere di riferimento, mi occupavo di cantanti d’opera come di ensemble jazz o di band punk-rock. Un bel giorno un gruppo a cappella venne a bussare alla mia porta: era una formazione composta da sedici cantanti, proveniente dall’università di Stanford. In America è una tradizione consolidata: ogni college, oltre alle squadre sportive, ha anche dei gruppi vocali che rappresentano l’ateneo nelle competizioni ufficiali. Erano gli anni ’80 e, a differenza dei colleghi che avevano un repertorio piuttosto classico, loro si cimentavano con musica contemporanea: i Duran Duran, i Police… Devo dire che non li apprezzavo molto, però!

Come mai?

Mi sembrava che musica moderna e cori fossero una pessima combinazione. Forse è perché non c’era ritmo, le percussioni vocali ancora non esistevano… Mi sembrava musica da ascensore, ma senza altri strumenti musicali coinvolti oltre la voce. Ovviamente il mio lavoro era registrare il loro album, e così ho fatto, al di là delle mie impressioni. Nel frattempo, però, avevano passato parola agli altri ensemble a cappella universitari, quindi continuavano ad arrivarmi nuovi incarichi simili: ad un certo punto ho capito che non me ne sarei mai più liberato! Dopo un paio d’anni di registrazioni analoghe, ho deciso di prendere in mano la situazione e di affrontare uno di questi gruppi: «Cosa possiamo fare per rendere la cosa più divertente e meno inquadrata?» ho chiesto. Il leader era molto interessato all’argomento, e ha cominciato a informarsi su come funzionava la produzione di un gruppo rock. Io gli ho spiegato i princìpi fondamentali: i tipi di microfoni differenziati a seconda dello strumento da registrare, gli effetti, le tracce separate. E lui mi ha chiesto se era possibile applicare lo stesso metodo a un gruppo vocale.

E lo era?

Assolutamente, anche se era un esperimento nuovo nel suo genere. Di solito, quando si registra un coro, si usano solo un paio di microfoni in tutto: noi, invece, cominciammo a mettere un microfono di fronte ad ogni cantante, e già solo questo cambiò completamente il loro sound, rendendolo molto più contemporaneo. A quel punto rompemmo del tutto gli indugi: provammo cose diverse, ad esempio a processare la voce attraverso gli amplificatori delle chitarre elettriche o a creare l’effetto della batteria tramite la voce, con il beatbox. Fu a quel punto che cominciai ad amare davvero la musica a cappella: fatta così, dava davvero spazio a tutta la mia creatività. All’inizio degli anni ’90 mi specializzai in questo settore e alla fine del decennio, con l’avvento di ProTools e di altri software simili, era diventato tutto più semplice. Ero in grado di intonare le note in post-produzione, di applicare effetti su ogni singolo canale e molte altre diavolerie moderne che adoro. Da allora ho lavorato con le formazioni migliori, italiane o straniere.

Tra cui anche i Pentatonix, forse i più famosi in assoluto a livello globale. Cos’hanno di così speciale, secondo te, da essersi trasformati in un fenomeno pop?

Innanzitutto bisogna tenere conto del fatto che sono stati scoperti in tv, durante il talent show per cantanti a cappella «The Sing-Off», e che oltretutto il gruppo si è formato proprio durante il concorso. Ciascuno di loro aveva i suoi fan, e ciascuno di loro ha le sue caratteristiche che li rendono unici. Quando pensi a loro li conosci per nome: è un po’ come per i Beatles, che non sono un’unità indistinta ma un gruppo formato da John, Paul, George e Ringo. E ovviamente hanno avuto un’ottima promozione da parte della loro casa discografica, il che non guasta. Ultimo ma non ultimo, oltre ad avere un grande talento sono anche dei gran lavoratori, e anche questo è fondamentale. In ogni caso, per quanto mi riguarda, anche se loro sono il gruppo di maggior successo con cui ho collaborato, sono molto più orgoglioso del lavoro che ho fatto con gli italiani Cluster: loro sono il gruppo di cui vado più fiero in assoluto.

Che cos’hanno i Cluster per essere così speciali ai tuoi occhi?

Sono dei musicisti eccezionali, hanno una grande creatività e non si prendono troppo sul serio, pur essendo uno dei gruppi più seri con cui abbia mai lavorato. Sono molto legato a loro a livello personale, ma non per questo sono meno obiettivo, è un’opinione condivisa. Basti pensare che qualche settimana fa ci sono stati i CARA Awards a Boston, e i Cluster hanno vinto 5 CARA; gli infinitamente più blasonati The Swingles ne hanno vinti solo due…

vocalmente

Tornando alla musica a cappella in generale, di solito è associata al rigore e alla precisione: c’è spazio per l’improvvisazione, secondo te?

Assolutamente sì! In Europa l’improvvisazione è meno frequente perché dalle vostre parti la maggior parte dei cantanti a cappella proviene dal conservatorio o da studi di musica classica, cosa che incoraggia a non uscire troppo dagli schemi. In America, invece, molti arrivano dal jazz o dal gospel: molti addirittura non hanno mai studiato musica e non sono neppure in grado di leggerla. Si usa molto inserire assoli improvvisati nei brani, un po’ come nelle jam session, e c’è anche una grande passione per il cosiddetto circle singing, una tecnica perfezionata da Bobby McFerrin e Roger Treece. Ci sono addirittura gruppi come gli House Jacks che durante i loro concerti sono soliti accettare richieste dal pubblico. Lo fanno in maniera molto spontanea, senza essersi preparati prima: «Okay, gente, diteci una canzone e ve la cantiamo!». Magari quello prescelto è un brano che non tutti i componenti conoscono, eppure in qualche modo riescono sempre a portare a casa un risultato spettacolare. La direzione in cui molti gruppi si stanno evolvendo, in effetti, è proprio questa.

A proposito di evoluzione, durante la scorsa edizione di Vocalmente si è tenuta la prima competizione per specialisti della loop station, ovvero solisti che campionano la propria voce in tempo reale e poi la risuonano in sequenza all’infinito, con arrangiamenti complessi e molto originali. Tu eri uno dei giudici: che idea ti sei fatto di questo fenomeno nuovissimo?

C’è chi pensa che tradisca lo spirito originale, ma è come dire che il rock’n’roll ha tradito lo spirito originale del blues. Trovo che sia una vera forma d’arte e che l’uso di della loop station sia solo funzionale ad essa: non è musica elettronica, è vera e propria musica a cappella contemporanea, perché la voce è ancora l’elemento centrale. Non vedo l’ora di sentire cosa faranno quest’anno.

Marta «Blumi» Tripodi